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Musica

Il "sistema del cazzo" della techno, spiegato da Thomas Brinkmann

Thomas Brinkmann, gigante dell'elettronica tedesca, non vuole farvi divertire: ci ha spiegato perché suonare telai e tagliare dischi in vinile è meglio di fare un DJ set.

Thomas Brinkmann è un gigante dell'elettronica tedesca. Innovatore schivo che non ama guardarsi indietro. Produce musica e strumenti da fine anni Settanta, ma entra in sintonia con il mondo solo vent'anni dopo quando Wolfgang Voigt—co-fondatore della Kompakt—intercetta alcuni suoi brani, remixati con un giradischi cui Brinkmann aveva applicato un secondo braccio. Voigt se ne invaghisce al punto di darli alle stampe come Studio 1 – Variationen (1997) per la sua Profan. Stessa storia l'anno seguente: Richie Hawtin pubblica variazioni di alcuni suoi brani per piatto modificato sulla Minus (Concept 1 - 96:VR). Brinkmann si dedica poi, con gli alter-ego Ester Brinkmann e Soul Center, a techno sperimentale e a una specie di funk metamorfico. Nel 2000, il capolavoro Klick: costruito con vinili incisi e manipolati con effetti assortiti. Groove profondissimi, spettralmente dub che –nonostante la radicalità dell'operazione – sono ancora "dentro" la techno. La produzione di Thomas è sconfinata e basta un giro su Discogs per farsi un'idea delle uscite sulla sua etichetta Max Ernst. Personalmente, vi invito ad ascoltare, oltre ai citati, anche Tokyo+1 e la raccolta di 12" Rosa. Il 12 ottobre si è tenuto un party al Berghain che vedeva in consolle, tra gli altri, Ricardo Villalobos, per celebrare il ventennale discografico di Brinkmann e l'uscita di un quintuplo cofanetto (Retrospektiv su Third Ear Recordings) contenente tracce storiche, versioni alternative e inediti, anche se il nostro ha rimarcato immediatamente che, in questo periodo, è più interessato al burbero, ma illuminante materiale al confine con il noise cui si sta dedicando con l'ottima Mego. La costante vocazione sperimentale, la ferrea integrità artistica e le opinioni (come leggerete) schiette dispensate senza parsimonia l'hanno tenuto al riparo dai giri festaioli più mainstream, ma non potete dirvi pienamente fan del quattro quarti prima di aver incontrato questa leggenda.

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Noisey: Partiamo dalla fine. In una delle mail preparatorie a quest'intervista hai scritto che con "gli ultimi dischi vuoi allontanarti dall'intrattenimento, dall'era dello sfruttamento di sé e dei fraintendimenti sull'edonismo nei club". Cosa intendevi?
Thomas Brinkmann: Penso al divertimento come a una reazione chimica: bruci o marcisci. La maggior parte dei DJ fa soldi suonando dischi di altri e i dischi, oggi, sono biglietti da visita. Li stampi e li regali. Se non metti dischi, non hai entrate. I produttori si stanno rassegnando a questa situazione. Può capitare che voglia divertirmi, ma prestarsi a questo sistema del cazzo non è il massimo della vita. A volte, è meglio andare a dormire. Questo è il motivo per cui i lavori usciti su Mego sono molto più importanti di questa ristampa su Third Ear Recordings. Il proprietario, Guy McCreery mi ha pagato piuttosto bene salvandomi il culo in una situazione difficile, ma preferisco fare roba che non puoi suonare in un set di Hawtin o di Villalobos. Mi diverto più a fare concerti che a fare da colonna sonora per gente che vuole scuotere il culo. D'altro canto, mi rendo conto che un po' del vecchio materiale suona ancora bene e merita una ristampa: forse è l'occasione per sbizzarrirsi con qualche bell'artwork. Non m'interessano le edizioni speciali, come ti dicevo, sono lapidi commemorative, ma capisco anche che Guy debba sopravvivere. Il progetto Retrospektiv era già pronto due anni fa, all'epoca non facevo niente nello stile cosiddetto IDM, se non una traccia trash,ma molto ben pagata che ho composto per un film francese. È tutto nato perché ho suonato un set dance in un paio di club e di festival e qualcuno si è divertito. Ho suonato anche in Polonia insieme a Kenny Larkin in un evento organizzato da Deutsche Telekom. Fanno profitti enormi con questa stronzata dell'Electronic Beats [sito e serie di eventi sponsorizzati dalla compagnia telefonica. nda] vendendo contenuti che produciamo gratuitamente. Sono più rapaci di Heineken e di Red Bull. I promoter del festival si sono tenuti il trenta per cento del mio cachet perché non ho riempito il modulo E1 (ho un'assicurazione pubblica e pago le tasse) e mi hanno fatto compilare un foglio per la società di gestione di diritti d'autore GEMA dalla quale ricevo qualcosa come venti euro ogni tre mesi per i circa sessanta dischi che ho pubblicato sinora. Venti euro dal miliardo che raccolgono ogni anno. Sono ragioni sufficienti per non voler intrattenere? È una specie d'illusione. Molti sono in questa merda malefica e la conoscono perfettamente avendo vissuto le mie stesse esperienze. Nei paesi del sud dell'Europa è ancora più dura per via di questa rapina a mano armata che chiamiamo neo-liberismo. Ha bisogno di una nuova colonna sonora… ma non quella che si aspetta. Basta con le stronzate, "Amore", "Pace" e "Cuori Spezzati".

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Capisco quello che dici su mercificazione, sfruttamento o—fermandosi a un livello puramente artistico—insulsaggine di una bella fetta della club scene. Ma come ti sei interessato alla techno?
Oggi, ho trascorso l'intera giornata a registrare telai Jacquard nella mia città natale. Suonano come la techno di Colonia del 1996. Avrei voluto registrarli nel 1976. All'epoca, però, non avevo l'apparecchiatura giusta. Non avevo soldi ed ero troppo pigro per girare con un enorme registratore UHER e due pessimi microfoni. Il suono di quei telai era infinitamente più interessante del pop dell'epoca, anche se era difficile condividere questa mia passione con gli amici. Le schede perforate dei telai hanno ispirato Charles Babbage e Alan Turing, prima dell'avvento dei computer. I telai producevano tessuti, ma anche di più: idee e quel suono pazzesco che, probabilmente, intimidiva chi doveva averci a che fare ogni giorno. Ero fortunato, il papà di un'amica faceva la guardia in quella fabbrica. Potevo entrarci liberamente, anche se non ci lavoravo. Quei venti telai erano la più bella orchestra che potessi immaginare a quindici anni. Pura psichedelia. Pattern e sequenze ritmiche, per non parlare dell'elemento estetico e dell'utilità delle stoffe. Meglio di qualsiasi 909 o 808 di metà anni Novanta, quando le produzioni si erano spostate a Hong Kong, in Cina e in Africa. I telai erano, forse, il motivo per cui quei suoni hanno un valore affettivo: i suoni delle catene di montaggio delle fabbriche tessili di Manchester, i suoni di Detroit e di Mönchengladbach. Mi piacevano anche i treni. Poi arrivò la crisi e le fabbriche sparirono. Improvvisamente tutti gli operai persero il lavoro e finirono in enormi problemi finanziari o a lavorare per quella merda che chiamiamo senza imbarazzo "settore dei servizi". Eravamo ragazzi con l'attitudine giusta per distillare quelle fabbriche scomparse in un'essenza estetica. Molti di noi avevano una predisposizione per la techno dritta. La vera techno. Scoprimmo più tardi di non essere soli alla fine degli anni Ottanta, inizi Novanta. Non vengo dalla techno. L'ho attraversata, ma mi piacciono ancora le macchine.

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Se poi entrato in relazione con gli altri ragazzi che stavano iniziando a costruire le scene locali in Germania?
Quali scene? Ce ne sono di vere? locali? Forse nel calcio? Non credo di aver mai avuto vere connessioni.

Te lo chiedo perché ho l'impressione che prima di internet i dischi tendevano ad avere sapori più locali. Venivano fuori dalla roba che si suonava in bar o nei club, dalle conversazioni in negozi di dischi, dalle influenze reciproche (o rivalità) tra DJ, o semplicemente dal clima culturale delle comunità in cui erano prodotti e consumati. Ad esempio, in diverse città tedesche la techno ha preso strade che non avevano controparti altrettanto vistose in Italia, a parte qualche eccezione. Si è instaurata presto una relazione con movimenti di sinistra radicale, flirt con filosofia e arte contemporanea. Per la stampa, molta roba che arrivava dalla Germania era percepita come molto austera (e non parlo del suono), criptica, "concettuale". Anche le tue produzioni, penso soprattutto alle prime—le variazioni di Voigt e Hawtin e Klick—in cui usavi dischi altrui come materia prima, come oggetti fisici o fonti sonore.
I tagli sui vinili derivano da esperimenti che facevo nei tardi anni Settanta. In quel periodo non avevo soldi, ma—come ti dicevo—mi piacevano i beat ripetitivi. Avevo un piccolo organo Davoli che avevo preso in Italia, ma non un sequencer. Il mio migliore amico aveva un sintetizzatore modulare che si era fabbricato da solo, ma era sempre rotto ed era un po' frustrante il fatto che non funzionasse mai per più di un giorno di fila. Ho dovuto quindi trovare qualcosa di più semplice: la mia delusione per la mia collezione di dischi. Li ascoltavo sei, sette, otto volte e poi mi annoiavo. Quindi iniziai a suonarli con un giradischi che avevo modificato aggiungendo un altro braccio, o a usare solo l'ultimo solco che va in loop. Tecniche che venivano da una mancanza, dal tedio o dall'impazienza. Uno strano miscuglio di assenza di possibilità e di disaffezione per ciò che avevo. Oggi ci sono molte tecnologie, ma magari il senso di frustrazione sopravvive perché puoi sentirti perso tra tutte queste possibilità. O forse è un'illusione e non c'è nessuna scelta. Non mi piaceva l'idea di "band", quindi facevo tutto da solo o al massimo con un amico. Gli unici che ci seguivano erano le persone che lavoravano nell'ambiente teatrale. Il nostro suono era un buon sottofondo per Shakespeare e amavano il nostro sistema audio. Era perlopiù rumore, ma non esistevano ancora definizioni come noise o drone. Alle feste suonavamo disco. Le persone sofisticate del teatro venivano e ci chiedevano di suonare i Residents o Tom Waits. Ma noi mettevamo su "Holy Ghost" dei Bar Kays, "Let's Chant" di Michael Zagers. O i Kraftwerk. Negli anni Settanta, di base, facevamo Clicks & Cuts senza avere alcuna idea di chi fossero Stockhausen o Cage. Un'esperienza importante per me è stata la mostra d'arte contemporanea Documenta 6 nel 1977. È lì che, alla fine, ho incontrato Stockhausen. C'erano anche Beuys e Panamarenko. Non sono interessato, però, a rendere visibile il processo di realizzazione del lavoro pubblicamente. È come la digestione: il risultato può puzzare. Forse sarebbe interessante farne un'operazione simile a quella di Buñuel ne Il Fascino discreto della borghesia [per chi non l'avesse visto: i protagonisti defecano insieme intorno alla tavola, per mangiare invece si appartano privatamente, nda]. Sai che in un anno cachi il doppio del tuo peso?Viviamo in uno stato di ridondanza. Divertente la dance sia parte di questo mondo.

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Credo che la musica ripetitiva, o meglio la musica che viene dal dancefloor, sia onnipresente anche per via dell'evoluzione dell'industria dell'elettronica: basta scaricare una versione piratata di un sequencer, che ti invita­ per sua natura a comporre partendo dai loop. Questo, e un certo tipo di cultura dell'imprenditoria digitale che magnifica idee di espressione di sé e di condivisione su internet hanno reso la techno infinitamente più importante del rock oggi. D'altro canto, però, i software tendono alla semplificazione, fino alla ridondanza dell'intervento umano. Per quanto trovi interessante l'idea, i risultati sono spesso prudenti, conservativi. Questo accade in molte altre industrie dell'espressione di sé mediata da internet: ad esempio i filtri nei programmi di condivisione di foto producono micro-generi folk in cui milioni di utenti producono una valanga d'immagini quasi indistinguibili l'una dall'altra.
Hai ragione. C'è, e c'è sempre stata, un'industria che deve vendere. Sono stato allo ZKM per una discussione sulla sound-art. E mi sono fatto l'idea che il sound-system a quarantasette canali che hanno lì a Karlsruhe sia un'ottima pubblicità per società come la Genelec [società che produce monitor da studio, nda] in quanto gli artisti si fanno promotori di musica pensata per quei sistemi. Al termine del panel, sono intervenuto chiedendo di porre in termini scultorei l'idea che un pezzo di sound-art ti si muova intorno: se una statua inizia a girarti intorno, diventa migliore? Dov'è il beneficio se invece di camminare intorno a un lavoro di Richard Serra, accade il contrario? Penso anche alla Dream House di La Monte Young a New York, un'installazione sonora permanente, in cui il suono cambia in base a come ti sposti nella stanza. Non ho ricevuto nessuna risposta dai relatori, forse non hanno capito la domanda. Wolfgang Voigt era solito dire: quando sei in dubbio, scegli il mono. Sono idee interessanti anche da un punto di vista tecnologico più ampio. La realtà virtuale si svolge in uno spazio tautologico: nel momento in cui è accettata come"reale", come possibilità da prendere seriamente in considerazione, le aziende iniziano a vendere dispositivi e interfacce. Sono le "porte della percezione" (come le chiamava Aldous Huxley parlando di LSD). Per questi motivi, trovo iOS11 più interessante di qualsiasi Apple Car: oggetti che sostanzialmente conosciamo, che non mettono in discussione l'esistenza delle automobili. Il design non dovrebbe essere un percorso univoco. Bisognerebbe ripensare gli individui e le comunità. Quando si fanno discorsi sull'intelligenza artificiale, spesso si adotta un'idea "ridotta"d'intelligenza. Gli utenti e i dispositivi si adattano a quest'idea mediocre e limitata d'intelligenza quando si crea consenso intorno al fatto che si tratti di un'"intelligenza reale", plausibile. Tutti questi fenomeni mi ricordano i bio-adattatori di cui scriveva Oswald Wieners nel suo Die Verbesserung von Mitteleuropa, e i beat elettronici faranno da sottofondo musicale a questo "nuovo" che si annida nella realtà.

Tornando alla musica,mi racconti com'è iniziata la tua collaborazione con Pita e con la sua etichetta discografica Mego?
Ho scoperto la Mego al festival PhonoTAKTIK a Vienna nel 1999. Avevo già conosciuto Pita grazie a Marcus Schmickler o Russell Haswell. Pita è sempre stato radicale, ecco perché mi interessa. Ci siamo incontrati tante volte prima di parlare di pubblicare qualcosa per la sua etichetta. È successo con What You Hear (is What You Hear) nel 2015. Ho deciso di lasciar perdere la mia label e Mego era l'unica opzione che riuscivo a immaginare. L'album è dedicato ai colori. Colori avvelenati, sostanzialmente. Ho chiesto a Pita di disseminare i colori citati nei titoli sulla copertina. O anche sulle orecchie, nel cervello. Il disco è ispirato alla compressione completa: è come avere le informazioni contenute in un brano di Bach o di Wolfgang Voigt allo stesso tempo. Tutti i suoni contemporaneamente. Purtroppo è un obiettivo irraggiungibile. Nei dipinti tutti gli elementi sono immediatamente disponibili davanti agli occhi. L'idea era di fare lo stesso con la musica, ma mi sono reso conto che anche la pittura ha un inizio e una fine. Ho immaginato un uomo mentre guardava un dipinto di Rothko e sentirlo dire "wow! Questo quadro mi intrattiene". Le persone si aspettano questo dalla musica. Marcus Schmickler (e Robbie Williams) mi hanno detto: "il peggior scenario nella musica: non intrattenere". Ci ho provato, ma temo di non esserci riuscito.

Non t'interessa molto parlare del tuo materiale ritmico storico, ma credo che tanta roba uscita su Max Ernst rappresenti una controparte fenomenale a quella che hai chiamato cultura dell'intrattenimento vuota nata intorno alla techno. Credo siano esempi di come il genere possa tornare a sperimentare. Quali sono i tuoi lavori techno che ricordi con soddisfazione?
Tutte le cose hanno il loro tempo. In un certo senso General Eclectics [a nome Soul Center, nda] aveva una sua essenza e What You Hear ne contiene semplicemente un'altra. Le migliori canzoni sono su Lucky Hands e When Horses Die. A proposito, c'è nuovo materiale funky pop con remix dei Suicide che ho realizzato come necrologio per Alan Vega e Mika Vainio. Ma Paul Smith della Blast First sembra essere più morto di quei due. Il progetto dorme nel mio computer.

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