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Musica

Che musica ascolta Lo Sgargabonzi?

Una conversazione a ruota libera con una persona che non è Tommaso Paradiso, sulla musica e tutto ciò che le gira intorno, dai ricordi d'infanzia a un futuro in cui i robot canteranno le canzoni dei Baustelle.
Lo Sgargabonzi e l'autore.

Lo Sgargabonzi, ormai dovreste saperlo, è il miglior scrittore comico italiano, e forse è anche Tommaso Paradiso dei Thegiornalisti. Ma per me è anche un caro amico, che incontro periodicamente per mangiare pizza all you can eat, guardare Rescue Me e, soprattutto, giocare a giochi da tavolo.

È proprio durante una di queste sessioni ludiche che, chiacchierando di dischi, ci viene l'idea di accendere il registratore e tirare fuori una intervista tutta a tema musicale, essendo Alessandro un ascoltatore decisamente vorace (al contrario di me, che ho scoperto i Beatles il mese scorso: una volta ho definito "You Won't See Me" il più bel pezzo pop di sempre e questo ha scatenato le ire di Ale (solo gli amici lo possono chiamare così): "È una canzone bella come ce ne sono tante. Sempre con ‘sti toni apocalittici!".

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Ne è venuta fuori una serratissima discussione di più di due ore, nella quale abbiamo parlato a ruota libera di musica e di tutto ciò che le gira intorno, dai ricordi dell'infanzia e della giovinezza fino ai robot che canteranno le canzoni dei Baustelle.

Noisey: Vogliamo iniziare con gli Oasis? Chiunque legga questa intervista si aspetterà che partiamo da qui, visto che la tua passione per la band di Manchester è ben nota.
Lo Sgargabonzi: Pensavo più a una domanda tipo: in che modo ti sei avvicinato alla musica?

Ma l’intervista te la sto facendo io, non pensi che…
Ma sei te che l’hai posta in maniera interrogativa. Pare ieri che dicesti: “Vogliamo iniziare con gli Oasis?”.

Va bene, va bene. In che modo ti sei avvicinato alla musica?
Da piccolo le mie passioni più grandi erano i film con Pozzetto, i giochi da tavolo e i fumetti di Carlo Peroni. Allora non mi ponevo proprio il problema della musica, a parte il fatto che non mi sono mai perso una puntata di Sanremo. Ricordo che in ogni edizione c’era un cantante in gara con una canzone strana, da Salvi ad Arbore passando per Sabani e Carena. Io facevo il tifo per quello lì. Nel 1988 a Sanremo c'era un gruppo chiamato "I figli di Bubba" in gara con una rapsodia folle dal titolo "Nella valle di Timbales". Arrivarono sedicesimi su ventisei. Nel gruppo militavano Mauro Pagani e Michele Serra (lo scoprii dopo, visto che non li conoscevo), ma anche Enzo Braschi e Sergio Vastano che seguivo su Drive In. Fu un happening spettacolare. Io passai tutta la quarta elementare a cantare quel pezzo a mezza bocca nella disapprovazione generale di, nell’ordine: compagni di classe, bidelli, corpo docente, direttivo scolastico, apparato genitoriale e Ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Galloni.

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E poi cosa è cambiato?
Alle medie venni folgorato come molti dal primo geniale disco di Elio e le Storie Tese, il che mi portò a pensare che la musica “demenziale” (così la chiamavano sul mensile Lo Sporcaccione) fosse quella che cercavo. E allora iniziai a seguire in TV tutte le edizioni di San Scemo, festival musicale milanese di Paolo Zunino, alla ricerca di qualcosa di simile a quel disco. Le Teste Sciroppate, Gene Gnocchi & i Getton Boys, Gianni Drudi, Tony Tammaro. Compravo dagli ambulanti tutte le versioni taroccate delle compilation della gloriosa DigIt, ma finivo col trovare tutto un po' deludente. Questo fino a che non conobbi gli Squallor grazie ad una cassetta comprata all’autogrill vicino a casa, quello della stazione di servizio dove è morto Gabriele Sandri e da cui entro non dall’autostrada bensì da dietro, dall’accesso per i dipendenti (ho pure il telecomandino), ma non divaghiamo. Gli Squallor spazzarono via tutto quello che c’era stato fino ad allora fra i miei riferimenti comici. Restano in piedi solo Pozzetto e Villaggio.

Gli Squallor sono uno dei tuoi punti di riferimento.
Sì, dai quali non mi emanciperò mai. Gli Squallor, nella persona di Alfredo Cerruti in particolare, sono la cosa più alta di cui abbia esperienza, non solo a livello comico ma in senso assoluto, di bellezza. In un pezzo come "Marcia Longa", da ascoltare a casse alternate perché da ogni cassa esce una storia diversa che viene raccontata in contemporanea con l'altra, ci sono idee a sufficienza per l'intero repertorio di un grande artista, anzi di un grande essere umano, dalla culla alla tomba. " Tutto il morto minuto per minuto", "Avida", "Crosta Center Hospital", "Il Dottor Palmito", "Vacca" (recitata da Gianni Boncompagni, aretino come me), solo per citarne alcune, sono canzoni clamorose che mi trema la voce solo a nominarle.

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E invece al di là dei testi…
La prima vera folgorazione puramente musicale fu alle superiori, e precisamente un ultimo giorno di scuola, quando comprai Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band dei Beatles e We’re Only In It For The Money di Frank Zappa e m’innamorai dei suoni e delle melodie sghimbesce del secondo.

Mai sopportato Zappa.
Ecco, io adesso ho difficoltà a parlare di Zappa perché mi dà sui nervi, lo trovo proprio fastidioso dopo i primi album con le Mothers, quando se la ride da solo e tutti: “Genio!”. Lui: “Cuccurullo brillo brullo!”. E la collettività: “Genio decostruttore!”. E intanto Burt Bacharach in un angolino, rincagnato al pianoforte, a costruire canzoni di nessun valore, con Battiato e Giovanni Lindo Ferretti che lo guardano e ridono e ne hanno pena.

Appunto.
Il fatto è che, quando ero alle superiori, i miei coetanei si dividevano in due gruppi: i primi ascoltavano le cassettine dei fratelli maggiori, dai Deep Purple ai Nirvana, mentre i secondi passavano tutto il tempo su Videomusic o su Telemontecarlo e si bevevano qualsiasi cosa gli venisse propinata. Se questi secondi erano deprecabili, i primi lo erano anche di più, perché dovevano per forza convincersi che la bellezza fosse dogmaticamente racchiusa in una canzone come, ad esempio, "Smoke on the Water" dei (credo) Led Zeppelin. Bellezza che in quel pezzo ci sarà pure, ma non penso sia così facilmente decriptabile da un ragazzino di sedici anni che ha appena pianto durante l’interrogazione di greco, o perlomeno non in modo tanto automatico. Ho sempre vissuto la musica come un qualcosa di molto astratto, che tocca in ognuno corde diverse, che fa arrivare ognuno a conclusioni anche agli antipodi, e a me "Smoke on the Water" non ha mai detto nulla. Insomma, quello che ai tempi mi sembrava strano è che ci fossero così tanti ragazzi che considerassero clamorosi dei gruppi talvolta anche banali, come i Doors, solamente perché li ascoltavano i fratelli maggiori con la Zündapp.

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Sì, ho capito che intendi. È un po' quello che oggi avviene coi Radiohead, che in un certo senso sono i nuovi Pink Floyd a livello di percezione collettiva, e cioè i capisaldi dell'ascolto acritico, poco ragionato, dogmatico; ma torniamo a Zappa.
Ricordo che la prima volta che vidi una sua foto, dalla faccia capii immediatamente che musica facesse, pur senza aver mai ascoltato musica simile. E così acquistai appunto We’re Only in It for the Money, un disco molto eclettico e profondamente diverso da tutto quello che girava in classe mia. Oggi del suo repertorio mi piacciono solo i primi dischi con le Mothers of Invention, con quella loro pastosità anni Sessanta, in un mimetico bilico fra la parodia e il tributo del doo-wop. Allora Zappa non era ancora così vampirizzante come sarebbe divenuto nei dischi successivi, pochissimo curati dal punto di vista del suono, cotti e mangiati, ma cotti e mangiati male nel senso che a quel punto si sentiva libero di infilarci dentro qualsiasi intuizione notturna perché tanto sapeva che sarebbe stata esaltata come un’apocalisse di genialità. Roba che ne avrebbero parlato fittamente anche i robot nell’anno 40.000 per ristorarsi durante il defrag: “BRI-LLO BRU-LLO! MOL-TO BE-LLO FA-CCI CA-SO!”.

Cos'è che ti affascinava in lui?
Cioè, di Zappa non me ne frega niente, volevo parlare degli Squallor ma continui a chiedermi di Zappa. Ok, andiamo avanti. Dei suoi dischi mi piaceva soprattutto il lato irriverente e decostruzionista. Io fin da piccolo sono sempre stato attratto da quello che non capivo e poco interessato a quello che mi rassicurava. Oltre a questo mi piaceva essere un bastian contrario che fosse però laterale ai bastian contrari istituzionali dei bambini di classe mia (un nome solo: Aldo), quando farlo voleva dire essere guardati male da tutti - non come adesso, che se lo fai sei più intelligente e fico degli altri e t’invitano a parlare del poliamore con la birra artigianale e il DJ set subito dopo. Ho ascoltato talmente tanto gli album di Zappa, dei Gong, di Capitan Beefheart e di Diamanda Galas che ad un certo punto ho fatto indigestione di decostruzione e mi sono appassionato, quasi per reazione, alla costruzione, al buonsenso, al passo dell’alpino del governo Gentiloni.

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È a questo punto che arrivano gli Oasis, immagino.
In realtà li ascoltavo sin dal primo disco, anche se alla loro bellezza sono arrivato dopo ed è allora che ho mandato al diavolo tutta la Zappa family e ho iniziato ad ascoltare chi senza un bel ritornello non si muoveva: gli Oasis, i Fool's Garden, i Pulp, i Travis, i Turtles, Daniele Silvestri, i Queen strepitosi dei primi cinque album, lo stesso Gentiloni nei suoi insospettabili 45 giri giovanili. E poi Burt Bacharach, col suo istinto compositivo capace di creare come nessun altro melodie che sono bigger than life, di facile presa ma che non si esauriscono nemmeno dopo infiniti ascolti. E ogni volta vai a riascoltare "This Guy’s in Love with You" capisci che in quelle note c'è sempre più di quel che ricordavi, di quel che riesci a contenere nella testa.

E aggiungo alla lista anche Claudio Baglioni, il cantautore più equivocato che abbiamo. Conosciuto spesso solo per luoghi comuni e cliché che non c’entrano niente con la sua poetica. Io avrei un’intervista in canna che sogno prima o poi di fargli. Prendi la canzone "Avrai", ovvero la ballata che scrisse per il figlio appena nato e che racconta la vita, ma non a suon di frasi da Coelho come fanno altri, bensì a suon di terragne polaroid con gli spigoli appuntiti. Le sue canzoni così piene di oggetti materiali a cui aggrapparsi per sfuggire all’horror vacui, al tempo che passa, i suoi muri di parole, la sua urgenza comunicativa inarrestabile e disperata. Sempre a proposito di figli, quella di Burt Bacharach s’è suicidata e gli ha lasciato una lettera, che lui porta sempre con sé ancora sigillata. Quando un giornalista gli ha chiesto perché non l’abbia mai aperta, lui ha risposto semplicemente: “Perché so già cosa c’è scritto”. Che uomo, ragazzi.

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Volendo mantenere la distinzione un po' manichea tra chi decostruisce e chi costruisce, mi sembra che, di solito, i decostruttori siano per così dire "visti meglio" dei costruttori, anche a livello critico.
Per una vita, ogni volta che dicevo che gli Oasis sono il mio gruppo preferito, mi sono sentito rispondere: “seeee… va beeeeh… carini e tutto… ma la musica bella è ben altra!”. E immediatamente queste stesse persone mi hanno passato un auricolare del walkman per farmi ascoltare una canzone che a me doveva piacere per forza. Una volta su tre era "Io sto bene" di questi famosi CCCP. Quasi ti vogliono dire che chi scrive un pezzo del genere una "Don't Look Back in Anger" te la scrive in venti secondi netti. Giovanni Lindo Ferretti in una notte potrebbe sfornarne a decine di canzoni di Noel Gallagher e se non lo fa è perché è lui che sceglie di non abbassarsi a tanto.

Se io fossi un maestro di chitarra e arrivasse un ragazzino e mi eseguisse "Io sto bene", composta la notte prima, risponderei sicuramente: "Ehi cazzo… ehi ehi ehi fratello… ma lo sai che questa è fottuta buona musica?". Se invece poi arrivasse uno e mi eseguisse dal niente "Don’t Look Back in Anger" , chiaramente gli farei: "Ok amico sarò sincero: questa è merda cazzo! Questa è fottuta merda fumante!" e gli direi di andare in fabbrica. Non Glastonbury: Ilva subito. Parecchia gente ragiona così. Poi ci sono sperimentalisti che amo anch’io, ma perché sotto sotto sono degli cartesiani puri. Uno su tutti: Andy Latimer dei Camel, per me il Giacomo Leopardi della musica prog, artista ed essere umano clamoroso. E nessuno come lui sa far piangere una chitarra.

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Qual è il tuo disco preferito degli Oasis?
(What's the story) Morning glory?, che tuttora credo sia il disco perfetto. Nel mio terzo libro il protagonista muore con la speranza che quell’album in loop sia il sottofondo al silenzio dell’universo quando non ci sarà più niente.

Quanti anni avevi quando uscì?
Avevo diciassette anni. Per il disco dopo, Be Here Now, ne avevo diciannove. Lo comprai a Milano Marittima, in un negozio gestito da una signora anziana malata di cancro. Ricordo che la tartassai per tutta l'estate perché questa vecchina aveva da qualche parte un disco introvabile degli Skiantos, Troppo rischio per un uomo solo, che io cercavo da tempo, e lei ogni giorno mi ripeteva che avrebbe controllato in magazzino per poi dimenticarsene sempre. Alla fine, è uscito fuori che aveva un tumore.

Mi dicevi di What’s the story
Sì, mi ricordo che lo comprai il 21 agosto 1997, una data che ricordo con precisione perché è segnata nel calendario sul retro del libretto e indicava il giorno d’uscita del disco in Europa. A quei tempi si poteva essere talmente legati ad un gruppo e alle sue sonorità da sapere già a scatola chiusa che un determinato disco in uscita sarebbe diventato la colonna sonora non solo di quell’estate ma anche della tua vita a venire. E (What’s the Story) Morning Glory? a distanza di ventitré anni non è mai uscito dal mio stereo. E se corro con l’immaginazione a quando avrò duecento anni, mi chiedo quanto potrà essere tremenda l'idea di giacere sul letto di morte, magari su un lettino d'ospedale sotto neon accecanti, e riascoltare "Don't Look Back in Anger", la canzone su cui hai vissuto i momenti più belli degli anni più verdi, spensierati e irripetibili.

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Agrodolci.
Sì, perché includono anche quei momenti di sofferenza che ti fanno sentire vivo, come quando stai male perché la ragazza che ti piace ti ha lasciato, ma ti senti vivo perché sai che quello è un male che ha riguardato l'uomo da sempre, che stai assaporando la vita nella sua completezza, dolore compreso, qualcosa che è allo stesso tempo individuale eppure trascendentale. Ma al contrario di un amore che finisce, non c'è proprio niente di bello nel nulla della morte: né nella propria, né in quella dei propri cari. E quindi un disco del genere, a cui sono associati così tanti ricordi e sensazioni, inevitabilmente col passare del tempo diventa sempre più doloroso da ascoltare.

Ci pensi mai alla tua epigrafe, o al tuo funerale ?
Al funerale no, ma so di sicuro cosa vorrei inciso sulla tomba.

Forse un giorno morirò.”
No, l'epigrafe più bella è quella scritta sulla tomba di Claudio Villa: vita sei bella, morte fai schifo.

La negazione di ogni retorica, anche salvifica.
Sì, è una epigrafe di una sincerità clamorosa. Una resa contro ogni retorica revisionista. Sono molto legato alla vita, in maniera proprio bulimica e materialista, fin da quando ero piccino. Secondo me è una cosa che se vista da vicino è una roba spettacolare, mentre se la vedi tutta insieme, conscio del suo finale, è lì che diventa un incubo paralizzante e sempre nuovo, a cui è impossibile abituarsi.

Francesco Bianconi, proprio su Noisey , ti ha definito "più bravo e più cattivo di Paolo Villaggio". I Baustelle a che punto della tua vita arrivano?
I Baustelle li ho conosciuti col primo album. Era estate, avevo ventidue anni ed ero sul treno, al rientro da un esame di psicologia. Stavo leggendo il supplemento "Musica" di Repubblica sul quale c'era la recensione appunto del Sussidiario illustrato della giovinezza. E da questa recensione ho subito immaginato che i Baustelle fossero il gruppo fatto per me: cinema di serie b, fumetti neri, anni Settanta, sonorità alla Bacalov e alla Ortolani, di cui sono un fan assoluto. Così, mentre leggevo, pensavo: ecco, quando ascolterò questo disco rimarrò sicuramente deluso, perché anche nella recensione del primo disco dei Mondo Candido c'erano scritte le stesse cose e l'album poi era una puttanata.

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Sì, anche perché un grande limite delle recensioni musicali, anche quelle autorevoli, era il loro ridursi a mero florilegio di aggettivi. Il Mucchio aveva lo stesso problema secondo me, anche le sue firme più autorevoli spesso indulgevano in questo enorme difetto.
“Enorme difetto”. Cioè, esiste il tumore al sistema linfatico e la sindrome di Brugada e per lui gli aggettivi del Mucchio sono un “enorme difetto”. Meglio che sto zitto, va’. Comunque arrivo ad Arezzo, compro il Sussidiario da Vieri Dischi, torno a casa, lo metto: scioccato sconvolto stregato come non mi è mai capitato con nessun altro album mai e come non mi sarebbe più ricapitato neanche dopo. Ricordo che lo ascoltai fra le lacrime. Non sapevo cosa mi smuovesse dentro né perché, la ragione dei vari tiranti mi era ignota, ma la miscela finale era assolutamente letale per la mia sfera sensibile - quell'album era la chiave per la mia arcadia interiore. Dopo ogni canzone, avevo l'ansia che ne seguisse un'altra non all'altezza, e invece erano dieci canzoni perfette, di quelle sì ne parleranno i robot nel 40.000. “VO-GLIO IL CIU-FFO DI DE-AN-DRE’!”. Fu una roba da delirio da febbre alta, perché m’infilai nel letto e ascoltai in loop quel disco in modo totalizzante, senza neanche mangiare, e mi addormentavo su questi refrain, poi mi risvegliavo e mi riaddormentavo beato dopo aver captato delle note di bellezza assoluta e mi risvegliavo ancora… andò avanti in questa maniera per giorni. Venne fuori che quel bioritmo era stato causato da una piccola ischemia di giorni prima ma sono sicuro fosse anche merito di quel disco.

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Qualche giorno fa è venuta a mancare Dolores O’ Riordan. La notizia mi ha devastato, anche perché con mio cugino Riccardo ho passato alcune delle più belle e spensierate serate della mia vita ad ascoltare i Cranberries e a guardare i Simpson.
I Cranberries sono stati, insieme ai Camera Obscura, l’unico gruppo con un frontman donna che abbia mai seguito. Per me, più ancora degli Oasis, il sound dei Cranberries è il paradigma del suono degli anni Novanta. Quello che era per strada, che avevamo nella testa noi che siamo stati i migliori adolescenti, l’invidia del vicinato. Limpido, powerpop, come la luce che entrava dalle tapparelle certe mattine d’aprile e annunciava la fine della scuola. Nel ’95, mentre limonavo con sei o sette fiche, mettevo sempre "No Need To Argue". Quando è morta Dolores ho provato quello che hanno provato gli altri nove, in Dieci Piccoli Indiani, quando muore improvvisamente Anthony Marston. Se ne è andato il primo.

Hai mai fatto parte di un gruppo musicale?
Per un periodo fui cantante in un gruppo di miei coetanei. Non li conoscevo, mi chiamarono perché se ne andò via il cantante prima. Loro provavano nella tavernetta di casa mia, io me ne stavo a leggere Magico Vento. Quando erano pronti cantavo le loro canzoni e poi tornavo a leggere Magico Vento. In realtà quell’esperienza è una delle tre cose nella mia vita, assieme al liceo classico e all’aver scritto su riviste di videogiochi, che non mi ha lasciato assolutamente nulla, tranne un aneddoto interessante per fare colpo sulle sbarbine. Ai tempi, se cercavi “Elio e le Storie Tese” su eMule, trovavi diffusa a mo’ di metastasi una nostra demo che non sapevo nemmeno fosse mai stata registrata. Sul newsgroup di Elio, c'era un intero thread in cui cercavano di capire se quel cantante fosse realmente Elio. E le risposte erano tipo: “Sì, è un Elio degli esordi e particolarmente raffreddato, ma la voce è la sua”… e invece quello lì ero io.

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Prima che iniziassimo a registrare mi hai detto che secondo te i Kasabian sono i nuovi Oasis.
Ma figuriamoci, ho detto solo, semmai, che condividono lo stesso atteggiamento, ovvero il fare la musica soprattutto per i fan. È una caratteristica che oggi viene vista come un difetto e che invece secondo me è importante e rivelatrice, perché io penso che siano solo i fan a conoscere la verità più intima su un gruppo musicale (ma direi su un autore in generale). I fan con la loro pignoleria e insieme la loro pazienza, che magari sono talmente selettivi con un artista o con un gruppo da non lasciargliene passare una e che però poi finiscono per amare ugualmente i loro dischi con tutti i difetti che si portano appresso, magari proprio per gli stessi. Quando esce un nuovo disco dei Kasabian o dei Travis, ancora prima di ascoltarlo hai la sicurezza che lì dentro ci sarà qualcosa che ti piacerà, siccome hai conosciuto e apprezzato i gradini prima e puoi ragionevolmente immaginarti come saranno quelli dopo. Quando un gruppo di cui sono appassionato fa un album che taglia i ponti con i precedenti sono contento una volta su dieci, nove volte su dieci non lo sono e otto volte di quelle nove volte l'album è artisticamente insignificante.

Penso ai fan di David Lynch, particolarmente devoti al loro maestro.
Quando leggo in giro che questa terza stagione di Twin Peaks è tutto meno che “fanservice”, perché David Lynch non fa le cose per i fan ecc., a me verrebbe da dire a Lynch: falle, le cose per i fan, caro il mio “con la meditazione trascendentale adesso sto bene grazie”, ché i tuoi fan sono meglio di te! Anzi, fattele fare direttamente da loro le cose, che ti verrebbero meglio . Lui, che secondo me è un autore abbastanza mediocre, una persona di parca intelligenza con molto gusto per gli interni in radica, è stato salvato dai suoi fan, che si sono inventati dietrologie e creepypasta assolutamente affascinanti dietro ai suoi ghiribizzi da regista pettinato strano.

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I tuoi gusti paiono molto radicati negli anni Novanta, ma quali sono gli esordi dopo il 2000 che ti hanno più folgorato?
Il disco omonimo degli irlandesi HAL in primis, un capolavoro che tutti dovrebbero conoscere. Poi Album dei Girls, l’omonimo dei Fleet Foxes e Money for Dope di Daniele Luttazzi. Aggiungo North Pole dei Primary 5 e l’omonimo dei The Coral. I tuoi musical preferiti?
Non mi piacciono. Invece apprezzo le opere rock e i film musicali in genere, dove le canzoni sono inserite in un contesto reale. The Phantom of the Paradise di Brian De Palma è il mio preferito, con una colonna sonora spettacolare di Paul Williams, che interpreta il ruolo di Swan, nonché il cattivo più crudele della storia del cinema. E adoro anche Inside Llewyn Davis dei fratelli Coen.

Restando in tema di devozione, qualche anno fa sul defunto forum del Mucchio circolava una leggenda su Califano, secondo la quale in realtà non era lui a scrivere i testi delle sue canzoni ma dei non precisati ragazzini di Trastevere a cui lui delegava il compito.
Come no. Mi immagino la scena di Califano che dice a questi ragazzini con la faccia di Ninetto Davoli: "Scrivetemeli voi i testi, perché io non sono capace… chiaramente poi escono a nome mio, i soldi li prendo io e divento famoso al posto vostro… li scriverei da solo, però purtroppo sono un cretino…". E questi bambini di 2-3 anni: “Tì!”. La conosci la sua canzone "La porta aperta"?

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No.
Dopo ascoltala e dimmi che te ne pare. Anzi, mettiamola adesso.

Stiamo giocando ad un gioco da tavolo, Spyrium . Interrompiamo la partita per cercare la canzone su Spotify ed ascoltarla dagli speaker del telefono. La canzone, che parla di un uomo che viene lasciato dalla sua donna, è effettivamente un capolavoro.

Nota la totale assenza di manicheismo di quel genio che è stato Califano, che prima fa sembrare l'uomo lasciato dalla donna un candido e solo in un secondo momento ne fa emergere le ombre: "j'ho lavato er cervello un po' pe' giorno, decido e lei nun s'è mai ribellata".

Riprendiamo a giocare, cantando nel frattempo qualche canzone di Califano.

Tu hai un'idea molto fisica della musica. Ti ricordi le copertine, i booklet, le date. Secondo te con Spotify e in generale con internet, si sono un po' perse la fisicità e la matericità legate ad un ricordo concreto?
Assolutamente. Io non riesco ad avere la percezione di quel che sto ascoltando se non so di che colore è il disco, se non ho tra le mani il libretto, se non so se l’edizione è in digipak o in jewel. Se la copertina di Pinarella Blues de Il Lungo Addio rappresenta un cielo blu ceruleo da cartolina anni Ottanta, ascoltando quel disco io la musica la visualizzo esattamente di quel colore.

Per concludere: Alice Oliveri, in un pezzo per Noisey, ha scritto che saresti Tommaso Paradiso, un'indiscrezione paragonabile soltanto a quella dell'ultima ora secondo cui Banksy sarebbe Robert Del Naja dei Massive Attack. Te la senti di confermare o smentire?
Quel pezzo è molto divertente e Alice è un macellaio molto bravo, ma purtroppo non ho idea di chi sia 'sto baffino.

A questo punto l’intervista è finita, io spengo il registratore e noi continuiamo a giocare a Spyrium. Alessandro è un grande appassionato di giochi da tavolo, e se lo si fa incazzare, ad esempio giocando in maniera sciatta o andandosene prima della fine di una partita, potrebbe manifestarsi un terribile accesso di rabbia, che ho ribattezzato La Furia di Ale. Dopo aver fatto passare qualche minuto di silenzio, Lo Sgargabonzi decide di regalarmi una ghost-track esclusiva.

Vedi, io penso a quelli tipo Simone Cristicchi, che vanno a Sanremo con la loro brava cravattina e i loro occhialini un po' naif, con questo look da rivoluzionari infiltrati, e cantano la loro canzoncina guardando le almirantiane in pelliccia un po’ dall’alto verso il basso. “Il pomeriggio passeggio con Chaplin / poi gioco a briscola con Pertini / e stasera si va tutti al cinema / c’è il nuovo film di Pasolini!. Penso a tanti musicisti indie che non sanno scrivere un ritornello manco a pagarli e che fanno bandiera del loro essere scarni, orizzontali, elettronici e dire nelle interviste “ci interessava fare tutto un discorso su”. E mi chiedo: queste persone non sono un po' in imbarazzo a proporre il loro setting terapeutico tradotto in note in un mondo in cui c'è gente che ha cantato inni clamorosi come " Don't Look Back In Anger", "Wonderwall" o "Live Forever"? Dopo che Nigel Clark dei Dodgy ha cantato quell’inciso strepitoso prima del finale di "Grassman"?

In un mondo così, arriva questa gente con la faccia da furbettino e la birra in mano e ti propongono la loro filastrocca senza nemmeno vergognarsi un po'! Io le capirei queste persone se non fossero esistiti questi inni del britpop. Syd Barrett che strimpella "The Gnome" nel ‘67 posso anche giustificarlo perché Ian Brown non aveva ancora cantato " I Am the Resurrection", ma oggi come oggi come fai? Il potere di una "Don't Look Back in Anger" è infinito, perché quell'inno è un posto sicuro e accogliente dove stare. Nel momento in cui tu la stai cantando, fosse anche da solo in macchina, non esiste nient’altro, tutte le cose noiose sono lontane. In quel momento lì, per te, non c'è che la felicità assoluta. Felicità assoluta con un cuore di dolore, perché quella canzone ti riporta ad una perfezione che ti si sta sfaldando fra le mani… è emozione allo stato puro, un rito d'appartenenza a una generazione che non potrà essere vecchia nemmeno da morta. E non lo penso solo io perché c’ero, ma lo penserebbe anche Cavour o Francesco Crispi. Perché io ho come l'impressione che chi era giovane fra il '94 e il '97, ovvero i quattro anni del britpop, chi ha passato le estati ingozzandosi di gelati Eldorado e gli inverni frugando nei cestoni di VHS in offerta, non possa invecchiare. Non riesco a immaginare che Peter Freudenthaler, il cantante dei Fool’s Garden, che ormai ha cinquant'anni e tutti i segni dell'età sul viso, possa avere problemi diversi rispetto all'essere innamorato di sua una compagna di classe con la felpa.

Lo Sgargabonzi si esibirà dal vivo a Roma, Firenze e Milano, in uno spettacolo completamente incentrato sulla musica: chi non viene è Scaruffi.
28 gennaio, Roma
6 febbraio, Firenze
25 febbraio, Milano

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