Quando i Tiromancino erano alieni
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Musica

Quando i Tiromancino erano alieni

Prima di "La descrizione di un attimo", la band romana descriveva scenari allucinanti suonando un indefinibile crossover dai colori acidi.

Roma, esterno notte: siamo circa nel 1995 e la città eterna è avvolta da scrutanti e semichiusi occhi arancioni di luci fumose, sembrano quasi uscite dal film Todo Modo, i sanpietrini umide squame di serpente. A quel tempo avevo circa vent'anni e vivevo svariate vite parallele: una di queste era la militanza in un gruppo acid jazz dal nome Union Art Funk, i cui membri (me compreso) venivano quasi tutti da band dell'underground romano e laziale che normalmente suonavano tutt'altro (non diremo i nomi, ma alcuni erano abbastanza quotati e si spaziava dalla psichedelia allo psychobilly alla musica popolare). Ci facevamo tutti i locali funk/dance dell'epoca, come l'Akab, e svariate serate in qualsiasi locale avesse bisogno di danzare, quindi dalle pizzerie ai club fino alle balere.

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Una sera, finite le prove, ci ritroviamo a casa di un tizio che ora non ricordo più, ma mi pare abitasse in centro, per fumarci degli allegri cannoncini. Mi guardo intorno e nel salone osservo un quadro che mi colpisce particolarmente. "Ma questo è lo stesso che ha fatto la copertina dell'ultimo Tiromancino!" esclamo. La risposta è affermativa, era un quadro di Cristiano Pintaldi che con le sue pitture "pixelate" e i suoi alieni con allucinati occhi vuoti mutuati dal film Il villaggio dei dannati ha senza dubbio imposto l'immaginario di Alone Alieno, il disco dei Tiromancino di cui sto per parlare.

Chissà, magari il padrone di casa era il Pintaldi stesso, nessuno lo sa perché i presenti non si ricordano un cazzo. A ogni modo quelle atmosfere erano in un certo senso la descrizione perfetta della Roma degli anni Novanta: una città ferma che però voleva andare da tutte le parti, piena di alieni ahimè confinati in un paesotto scambiato per "caput mundi". A Roma c'era una tale mescolanza di musica e di roba che confondersi era facile: c'erano l'acid jazz, l'hardcore, la techno, il reggae, il punkettone e tutti gli strascichi degli Ottanta come i vari emuli dei CCCP, il dark e il cyberpunk che flirtavano con l'industrial, il grunge che mieteva le sue vittime di provincia nonostante Cobain fosse ormai morto. In zona pop c'era gente che pensava veramente a Jovanotti come una novità assoluta. Poi c'era una serie di cantautori sfigati costretti a barcamenarsi fra cover band di Rino Gaetano (e quelli resistono anche oggi) e materiale che nessuno si filava, nel bene e nel male.

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La ciliegina sulla torta era un negozietto chiamato Rentun, nel quale potevi affittare musica di qualunque genere, fra le cui mura i giovani pargoli quale io ero riscoprivano le atmosfere sulfuree degli anni Settanta italiani: quelli della Cramps, del Battiato di Fetus, quelli degli esperimenti riusciti in parte che se li ascoltavi dallo stereo suonavano più ovattati di Eno in Discreet Music, ma per questo affascinanti. In pratica era quasi normale che ci fosse una tensione al crossover, inteso sia come genere sia come superamento del genere stesso. Ecco, i Tiromancino interpretarono questo momento storico romano in maniera perfetta: probabilmente inconsapevoli, ne carpirono giocoforza il caos, l'indecisione, la pressione, finanche il senso d'incompletezza e insoddisfazione nel rimanere intrappolati in una città che sta stretta nonostante le tante idee messe in gioco.

Infatti cosa suonavano i Tiromancino? Boh, chi lo sa. Ora una macchina da soldi capace di non arrossire manco con un brano orripilante come "Quasi 40", una volta erano severissimi con se stessi. Nel senso che il primo disco in assoluto, Tiromancyno, del '92, è considerato una gran cagata dai suoi stessi autori—tanto che Zampaglione si vergogna persino di citarlo nella discografia del sito ufficiale, definendolo "uno dei dischi più brutti dell'umanità": per fortuna è sopravvissuto un videoclip d'annata.

Ovvio che Zampaglione voglia conservare una certa "verginità artistica", ma le cose stanno così. E tutto sommato da questi primi Tiromancyno non si è mai schiodato. Lo diciamo anche in senso buono: all'epoca il sound che andava forte era roba tipo i Ladri di biciclette, il funk paraculo di plastica di Zucchero, la fusion secchiona mutuata direttamente dalle scuole di musica romane tutte concentrate sul creare session man e operai salariati del settore spettacolo più che musicisti. Messi sotto contratto probabilmente a caso o tramite conoscenze, come tanti ragazzetti/meteora che da quel momento non hanno combinato un cazzo per tutti gli anni Novanta, penalizzati dall'inesperienza, i Tiromancyno sono stati probabilmente sopraffatti da tutte queste sovrastrutture. Si sciolgono, si riformano ma riportano con sé la passione per il funk e per le bizzarrie, che in un brano come quello di sopra traspare comunque (stacchetti di synth non proprio ortodossi, diciamolo, né tantomeno troppo sensati). In una mossa che nel contempo abiura e recupera il loro passato, come farebbe una fenice nascono quindi i Tiromancino.

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Il primo vagito della nuova creatura è Insisto, 1994. Disco che punta a ripartire da zero, con una nuova line up con l'iconica bassista Laura Arzilli, in realtà è accomunato al precedente per una certa ingenuità di fondo e per il non sapere se puntare a un pubblico mainstream usando l'arma dell'indie rock o viceversa. I suoni sono infatti leggermente distorti, con brani ispirati a volte ai Red Hot Chili Peppers (e torna il funk), a volte ad una semplificazione di Beck; con sfasate psichedeliche controllate, Zampaglione usa spesso uno straniante falsetto. Ma dal punto di vista dei suoni sembra tutto ancora troppo educato, quindi in un certo senso ci troviamo di fronte alla versione "negativa" del disco d'esordio. La cosa più interessante sono invece le canzoni in sé, roba di puro cantautorato storto con dei testi finalmente ficcanti, che sfiorano il nonsense e il paradosso, sicuramente roba che nell'indie italiano oggi se la sognano. La cosa più inquietante di questi Tiromancino è in realtà l'estetica , a partire dalla copertina del disco (con una marionetta e candela virati in rosso che ricordano un film horror) per arrivare alle apparizioni di Zampaglione e co. al Maurizio Costanzo Show con tanto di capelli lunghi color spitfire e andazzo da veri freak mentre suonano l'assurda e rundgreniana Alfredo, che vedete qui sopra..

Il vero salto con l'asta i nostri lo faranno, invece, proprio con Alone Alieno, nel quale queste velleità piacione saranno per un momento dimenticate (piacioneria verso chi, poi? Sinigallia diceva che prima del video con Mastandrea suonavano davanti a venti spettatori paganti a serata), e probabilmente la band si dimentica anche di se stessa.

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Forse anche e soprattutto grazie alla MTV generation, in quegli anni in pieno boom, è possibile rischiare con una musica più dura. Nel 1995 si scatenano le forze dell'elettronica e della distorsione, il trip hop e l'hip hop regnano con i loro fumi di dopa, i centri sociali sono in piena escalation, il mainstream si confonde molto spesso con l'underground. Quindi rischiano anche i Tiromancino, anche se, appunto, su di loro c'è davvero un alone alieno. Non solo prendono di qua e di là come farebbe un UFO prelevando campioni dal pianeta Terra, ma non si sa da dove vengano: non si allineano al coro dei duri e puri che vede nei centri sociali la fucina di nuovi talenti, come faceva anche la miope stampa dell'epoca (abbiamo visto ahimè troppi contratti con le major da quelle parti, una volta fiutato l'affare), ma allo stesso tempo, già accasati con una multinazionale e quindi visti con sospetto da tutta l'intellighenzia radical, non concedono molto in termini di orecchiabilità. Perché stavolta i suoni sono più importanti, sono vestiti tipo da barboni… insomma, non sono pop. È così che si trovano in una situazione che se non è perfettamente in mezzo è sicuramente vulnerabile, e di questa vulnerabilità è permeato il disco.

Ma il disco è permeato anche da fumi drogati, tanto che la partenza "Amore amaro" mette subito le cose in chiaro: i nuovi Tiromancino sono stupefatti, persi nel nulla. Il brano è una litania d'amore poggiata sullo sballo, "accompagnatemi al treno", non capirci più un cazzo di sé, l'amore e l'amaro sono due soggetti distinti che prendono vita propria. Lo spettro dei Portishead aleggia sul pezzo, ma a trapanare i timpani sono anche tastiere e sbuffi sintetici che sanno di colonna sonora da film di fantascienza di serie B (e ben sappiamo la passione di Zampaglione per questo genere di cose, in quanto regista egli stesso di thriller e affini). Bassi profondi e campioni non meglio identificati, tutti storti e "harsh" sono opera del fratello Francesco, fondamentale nuovo acquisto della band la cui presenza dà una svolta secca a tutto il sound (e la darà anche e soprattutto più tardi a livello commerciale portando Sinigallia nella band). Effettazzi di radio fuori sintonia e phaseroni tutti intorno rendono il tutto un tuffo in una piscina di acidi sulfurei. Ma veramente? Sono davvero quei Tiromancino lì, che una volta cantavano "Cappuccetto rosso"?

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Ad ascoltare non si direbbe: si prosegue con un primo "Alone Alieno" (nel disco ci sono ben tre versioni), una serie di effettazzi non meglio identificati, fra suoni simil-UFO, grilli digitali… non so, sembra una roba new age malata tipo la sonorizzazione di una sauna della morte. È l'introduzione a "Conchiglia", in cui la poetica è quella dell'autoanalisi esistenziale: "Se il mare fosse il mio ambiente naturale / potrei toccare il fondo senza annegare". Batterie rallentatissime, chitarrone distorte da fuzz malevoli, aperture elettroniche a sottolineare "mi chiudo come un riccio e sembro pazzo", urla, campionamenti dai King Crimson e la voce di Laura che recita un verso in anti reverse, cioè pronuncia dritta parlando però al contrario: un verso che cita le "federazioni porno" che poi meglio vedremo in quanto manifesto del disco (espediente che nel suo straniamento ci riporta a Pollution di Battiato). È evidente che i Tiromancino sono un gruppo che ha deciso di fare della propria crisi d'identità materia viva e creativa.

Il pezzo che segue si apre con una chitarra acustica lo-fi, sembra una demo ed è, senza alcun ritegno, disturbato di botto da loop malati e da noise totale. Improvvisamente si perdono le direzioni e arriva "Di quello che ho perso", un ibrido fra trip hop, ambient, dub e canzone d'autore italiana, con sintetizzatori e piani oppiacei. "Vorrei poter cambiare l'odore, il colore, la faccia, la voce". I testi si capiscono fino a un certo punto, nascosti a volte dietro il mix, come le tecniche di Anima Latina di Battisti. Sul finale un messaggio in segreteria irrompe nella solitudine del protagonista, il quale non riesce a comunicare con l'esterno, perso in se stesso. Un brano sul tempo che t'inganna, sull'essere un perdente che della vita non ha capito un cazzo ma si è fatto usare, forse anche un brano sull'abuso di droghe psicotrope. Il tutto è condito da un campionamento di mandolino/dodici corde che potrebbe essere preso da Morricone come dai Goblin, da Siouxie and the Banshees o i NIN (influenza subliminale che permea un po' tutto il disco): E INVECE SONO I RESIDENTS!!!!

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A giudicare dalla seconda versione di "Alone Alieno" non andiamo errati: trattasi di un pezzo completamente in reverse che dovrebbe essere crossover ma invece a questo punto è un nuovo genere, il "revossorc", con una serie di effetti speciali ufologici tipo MS20 spinti sugli oscillatori.

L'ennesima allucinazione sfuma e parte "Funko". L'amore per il funk viene recuperato qui con un brano praticamente hip hop che a giudicare dai cori è ispirato ai Cypress Hill e agli House of Pain. "Ho vissuto nell'inferno vero", ammette Zampaglione, mentre la bassista canta "Cado piano, non respiro nemmeno". Insomma, sembra un bel viaggione da assunzione di roba buona. Sfunkettate stile Seventies, clavinet. "Sono sincero, sì / e dico davvero io / ma certo non farò pantomime / nemmeno una / quando arrivo in cima": Zampaglione ha proprio tenuto fede a questa promessa, arrivato in cima? "Un vero regno dentro al sogno", la fuga dalla dura realtà sembra l'unica soluzione possibile, finale con cori simil afro e voci sovrapposte a cazzo.

E poi parte subito il brano più controverso del disco, ovvero "Danneggia l'erezione". Storia di una tresca smascherata, di stress, di paranoie verso qualsiasi tipo di relazione, accusata di uccidere l'eros a scapito della civiltà. Il brano è un tipico esempio di crossover made in Italy, ma c'è una differenza rispetto ad altri esempi come i Bluvertigo o compagnia imitante. Innanzitutto il metro Jane's Addiction, Porno for Pyros, RATM messi insieme, mentre il modello di partenza è ben elaborato verso altri lidi, quelli della melodia italiana. Ma oltre a questo ci sono synth che suonano frasi pseudo atonali e strani campioni di fiati non meglio identificati, quindi il tutto è inserito in un umore psichedelico/industrial poco ortodosso.

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"Mi fanno male tutti i pollici…" "Te voi fermà?" È la versione romanaccia del finale di "Helter Skelter" dei Beatles ("I've got blisters on my fingers!") che dà il via al pezzo punk del disco, anche se forse stilisticamente sarebbe più vicino al noise rock dei Melt Banana, sia per i giri di basso slidati che per il rumore sparso, i riff sparati suonati a cazzo e gli effetti di synth aleatori e malevoli. Sono sorprendentemente simili ai giapponesi, solo che questi ultimi, naturalmente, sono più veloci: si nota comunque la padronanza strumentale dei nostri. Il testo è un delirio di uno che sta per essere gonfiato da due enormi energumeni e mentre questo accade parte un flusso di coscienza su tutti gli inutili sincretismi dell'occidente che portano al fascismo (tristemente attuale): "Due contro di me che poi penso ne bastava e ne avanzava anche uno solamente". Cosa ti fa male, cosa ti fa stare male? Ebbene…

Forse il porno? Nel senso di Pornography dei Cure, quindi proprio l'oscenità dell'esistenza stessa? "Federazione porno" è un brano mutante fra i più significativi del disco: strumentale, parte come un big beat/rock industrial poi parte una batteria elettronica che non ti aspetti e l'atmosfera si trasforma in una roba all'Aphex Twin, crollando letteralmente verso territori Warp con campioni abrasivi e bassi rancorosi, dove la speranza sembra oramai persa in terre di nessuno come da loop finale a "spirale" (downward, ovviamente).

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Tocca correre su questa scala a chiocciola. "Corri", anticipato dallo scricchiolio di un vinile in pieno stile primi Portishead (ma perché no, anche il Caretaker che tanto ci piace), ha una batteria elettronica spezzata che però poi porta all'ennesimo sviaggione trip hop, tutto piani elettrici, profondità elettroniche e voci infilate dentro a Leslie gonfiati dal chorus. Un brano anche in questo senso sull'annientamento delle prospettive, sulla stasi, sull'osmosi fra vivere e morire che a volte sono la stessa cosa. Lavoro micidiale di synth che riescono a portare il brano verso territori drogati spingendo lentamente dai lati, senza imporsi, senza scoattare come avrebbero facilmente potuto fare. Troviamo invece tutto un lavoro di particolari che rende il brano un gioiellino autistico, che molto deve anche a certe sonorità della tropicalia.

L'ultimo brano del disco vede protagonista alla voce (filtrata ovviamente) la bassista Laura: "Resto qui" è un brano ibrido tra la musica leggera anni Sessanta tipo Mina (il testo ricorda gli svacchi della tigre di Cremona) e l'acid jazz lisergico, con ottimi campioni di clarinetto e arrangiamenti di chitarra atti a levigare la pietra grezza della canzone.

Il finale è chiaramente (ma non prevedibilmente) uno sfogo svalvolato: "Alone alieno III" vede un synth a cannone che introduce una base di batteria stile Digital Underground ma anche Howie B, poi un fade allucinante riporta a galla i soliti suoni spappolati che sembrano reel to reel mandati avanti e indietro per minuti interi, finale che mette i Tiromancino in contatto con gli esperimenti della Bla Bla, soprattutto quelli dei progetti nati in due minuti e mezzo solo per far uscire un disco, come Genco e Co. ed Electric Frankenstein.

Insomma, Alone Alieno è in qualche modo figlio degli anni Sessanta della melodia sanremese, dei Settanta della sperimentazione italiana, quella che ci provava a costo di buchi nell'acqua, degli anni Ottanta funk(-adelici) e dei Novanta del meticciato sonoro, mettendo su una sorta di strano suono di "serie B", e si eleva a sintesi che non sembra una mera paraculata, ma genuina curiosità. È il parto di un gruppo cui girano i coglioni, soprattutto perché l'esistenza gli sembra solo andare a tentativi. Sembra sincero nella sua poetica rispetto ai suoi coevi che o calcavano la spocchia o la militanza politica o la caricatura di un modello estero, ma poche volte hanno il coraggio di essere veri. In questo i Tiromancino sembrano aver assorbito meglio di altri l'idea che l'eccesso d'input esterni isola soprattutto da se stessi, che poi è quello che sentiamo nell'album: ciò che si mangia va ricacato.

Il sequel di Alone Alieno sarà ancora una volta spiazzante, spostando l'ago della bilancia verso la musica dance tout court, qualunque essa sia. Per quanto sulla carta l'operazione sembri coraggiosa, all'ascolto di Rosa Spinto ci troviamo invece di fronte a un prodotto che sembra nato per compiacere le "nuove tribù che ballano" più che a cercare qualcosa: quindi accanto a brani più o meno riusciti dal gusto acid e col cassone dritto, troviamo anche imbarazzanti imitazioni del suono Prodigy e pezzi disco "Piotta style" che mal si addicono alla commistione con la canzone italiana. Il disco, penalizzato anche dalla non saggia scelta di dare più spazio alla voce di Laura, in questo caso poco adatta allo scopo, può essere considerato quello che è stato Pop per gli U2—in primis per l'immaginario kitsch, ma soprattutto perché dopo… beh, dopo arriva Riccardo Sinigallia e "La descrizione di un attimo" diventa la descrizione di una band che da weird diventa a tutti gli effetti pop (appunto) italiano di nuova generazione, perdendo la sua cattiveria.

La band si sfalda proprio per questo, ai fumi dell'oppio si sostituiscono quelli delle sigarette del famigerato Locale, divenuto una specie di roccaforte massonica per i cantautori romani "bene" e Federico Zampaglione dovrà andare avanti praticamente da solo cambiando il puzzle dei musicisti, un po' come Pezzali con gli 883 (e la musica, ahimè, comincerà pericolosamente ad avvicinarcisi). Ma mentre Zampaglione oggi coccola le classifiche scrivendo per Giusy Ferreri "L'amore mi perseguita" e duetta da sempre un po' di qua un po' di la (vedi la clamorosa liaison con gli O.D.E.I. e le collaborazioni con Calcutta), cosa rimane dei vecchi Tiromancino? Beh, "L'inferno dei vivi" di Richard Benson. Basta questo per farmi perdonare a Federico qualsiasi cosa.

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