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Musica

Recensione: Björk - Utopia

Per definizione, se si parla di Utopia, non può essere un disco perfetto.

Insomma, lo sapete oramai tutti, è uscito il nuovo disco di Björk. Sfido io, lo promuove dall’agosto scorso se non da prima. Il pubblico si divide in due gruppi: c’è chi grida al capolavoro, così ho fatto un paio di domande a costoro per capire quale fosse la chiave del successo e la risposta è stata: "Ci sono i flautini". I flautini??? E che cazzo, dico io, ma si può giudicare un disco per un elemento solo e non per l’insieme delle cose? Cioè mica ci suona Gazzelloni o Fabbriciani in questo disco aò, svejateve. Da qui l’idea che ‘sto disco fosse un capolavoro è sfumata immediatamente. L'altro gruppo è quello dei detrattori, che ci sono eccome. I detrattori dicono che è una merda perché "la voce è 'na lagna, se veste sempre da pupazzo" e al primo minuto schiacciano stop perché affetti da narcolessia. E che cazzo, fatelo 'no sforzo per sentire la musica, no? Mica dev’essere tutto immediato, che c’avete il deficit d'attenzione?

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Tutto ciò mi fa pensare che la verità, se non sta nel mezzo, sicuramente sta a tre quarti. E quindi veniamo a come la pensa il sottoscritto (per quanto gliene possa fregare a pubblico e critica, tanto Björk vende comunque e volendo me se compra pure). Il sottoscritto, grande fan di Björk dai tempi degli Sugarcubes, divide in tre parti la sua carriera. Il pre Matthew Barney, il periodo Matthew Barney e il post Matthew Barney. Alla prima parte, che finisce con Homogenic, non ho niente da dire. Alla seconda, che parte con Vespertine, posso dire solo che lentamente i dischi diventano una specie di delirio egomaniaco teso all’inseguimento dell’avanguardia tecnologica a tutti i costi, alle collaborazioni hype, al cantato esageratamente drammatico, alla pomposità fine a se stessa, tanto che Volta e Biophilia sono tutto sommato due pasticci che potevano funzionare meglio abbassando un po’ la cresta.

Ma poi finalmente sparisce quella zavorra di Barney ed ecco Vulnicura. Un discone, che finalmente ritrova non le solite nenie vocali ma delle canzoni, è perfettamente dosato, c’ha il fuoco, il rodimento di culo, la vendetta, c’ha tutto quello che mancava dagli Sugarcubes - addirittura la sintesi! E poi finalmente si vede in lei la verità dei fatti e non la fatina delle favole (sarà che siamo entrambi scorpione). Per me fino ad adesso è il disco migliore dei suoi anni Duemila.

Perché escludo il nostro Utopia, nuovo di zecca? Beh, il titolo dice tutto: non può essere un disco perfetto se si tratta di utopia, è chiaro. E il problema invece è che sembra fatto con la tensione tipica di chi vuole fare il disco del secolo, cosa che automaticamente gli annulla ogni potenzialità. Ma andiamo al sodo: il concept, massiccio nei testi, è quello di ritornare ad amare dopo la botta subita, quindi costruire un mondo diverso in cui la donna si riprende la natura, ragion per cui i suoni evocano mondi ideali, con Arca al comando che se nel precedente lavoro era in qualche modo bilanciato dalla presenza seppur parziale di Haxan Cloak, qui invece spadroneggia con la sua tendenza al melodramma - e la cosa purtroppo appesantisce tutto.

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Gli arrangiamenti sono la cosa migliore: sono curatissimi, raffinati, con cambi di paletta, strumenti tradizionali digitalizzati e l’ambizione di costruire una vera e propria opera neoclassica, cosa che in effetti è. Ma questa precisione da sound design annulla i pezzi, diventa anche ridondante. Cioè io sento più l’arrangiamento che i brani in sé, che se li suonassi con una chitarrina farebbero cacare. Se levi la voce di Björk e le sue melodie vocali, eccoci davanti al possibile capolavoro, molto new age tra l’altro; non ci strappiamo i capelli per la novità ma se uno vuole sviaggiare e sentirsi flautini ogni dieci secondi va benissimo (ma anche due palle, se devo dirla tutta).

Non credo però sia questo l’effetto che volevano i nostri eroi. Forse Arca crede davvero di poter scrivere per un’orchestra, ma così facendo a volte pare Roger Waters alle prese con Ça Ira, cazzo: perché chiariamoci, un ibrido fra opera classica e canzone non è che ti viene bene alla prima, devi deciderti. Poi non aiuta il fatto che ogni tanto ci butti degli "iau" tipo hip hop che non c’azzeccano un cazzo, chissà perché?

Il disco poi è davvero prolisso e non se ne comprende il motivo, bastava tagliare qua e là, per dare maggiore respiro a questa utopia che invece appare soffocante, senza uscita, ottenendo l’effetto opposto di quello che vorrebbe esprimere. Di momenti belli ce ne sono a pacchi: "Courtship", "Claimstaker" o "Future Forever", davvero deliziose proprio perché sono le meno cariche e le più dirette senza rinunciare alla complessità. È un peccato che debbano essere sepolti sotto coltri HD ('ste mode del cazzo alla nostra Björk sfuggono di mano) che cercano di colmare le lacune compositive.

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È un disco che non può avere veri ascoltatori. È un dialogo autobiografico fra Björk e Arca. Asteniamoci tutti dall'esprimerci, perché qui si va oltre il discorso musicale; è un’opera esistenziale e la cosa va rispettata e basta. Sono Ponzio Pilato? Può essere. D’altronde Gesù ha fatto tante belle cose dopo. O no?

Utopia è uscito il 24 novembre.

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