Quando la Premiata Forneria Marconi ha detto addio al prog

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Musica

Quando la Premiata Forneria Marconi ha detto addio al prog

Mettere in dubbio tutto quello che hai fatto non è quasi mai una scelta sensata da un punto di vista commerciale. Con il loro album PFM? PFM!!! Mussida e compagni se ne sono fregati, condannando all'oblio un capolavoro.

«Nel 1984 esce un disco ancora differente rispetto ai precedenti. Qual era la nuova direzione?»
Franz di Cioccio: «Il disco PFM? PFM! in un certo senso era un momento di passaggio molto delicato, perché con PERFORMANCE avevamo chiuso un ciclo facendo un doppio album dal vivo. Volevamo ricominciare in un modo che potesse mantenere la stessa energia di ciò che avevamo espresso negli album precedenti e nello stesso tempo con qualcosa di nuovo che si aggiungesse lavorando molto sui testi. Per fare solo un esempio, c’era "Capitani Coraggiosi" che è un brano formidabile. Quando lo abbiamo eseguito a una manifestazione, credo fosse a Riva del Garda, abbiamo incontrato Billy Idol che quando ha sentito il pezzo è impazzito, tant’è vero che dopo ha inciso una canzone molto simile.»
— Dal blog Rock Celebration

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Ve lo ricordate il prog rock? Sì, dai, quella roba suonata strabene, tutta complicata, pomposa e classicheggiante, a volte eseguita solo per far vedere chi l’ha più lungo senza reali intenti musicali, diciamo a volte fine a se stessa… in poche parole, 'nammerda. Stop! Fermi tutti, che sto dicendo? Ovviamente la mia è una provocazione: molte sono le band prog innovative e degne d’attenzione che al sottoscritto piacciono, per non parlare di quelle italiane che spesso avevano (e ancora hanno) una certa marcia in più fra le realtà europee e mondiali. Ma in questo momento mi metto invece nei panni di chi dal pop finisce a fare roba astrusa, magari per moda, e poi deve portare avanti questo status per sempre pena la stigmatizzazione a vita. Immaginatevi che cosa potrebbe succedere se, chessò, un Cosmo si mettesse a fare prog: i nasi si storcerebbero a bestia, a nessuno fregherebbe un cazzo dell’evoluzione di costui e tanto meno del coraggio di abbandonare acque sicure per un salto nel vuoto delle rapide della vita.

Ecco, questa introduzione mi serve per farvi entrare in quello che potremmo chiamare vero e proprio “caso PFM”. Sì, intendo proprio la Premiata Forneria Marconi, il mitico gruppo prog italiano che in pratica per primo ha esportato la "via italiana al progressive" all’estero. Da poco è uscito, infatti, il loro ultimo disco, Emotional Tattoos , che, contro ogni aspettativa, appena pubblicato è balzato al decimo posto della classifica FIMI. È il segno che il loro fascino non è ancora scemato dopo una carriera lunghissima e dal peso specifico plumbeo, anzi, probabilmente i nostri stanno ripartendo dopo l’abbandono inaspettato dello storico chitarrista, Mussida.

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Ora però il problema è capire il motivo di questo interesse: temo si tratti di mera nostalgia di un periodo che non c’è più da parte della frangia anziana degli estimatori. Periodo che non è stato vissuto dai giovanissimi fans che forse pensano di ritrovare qualcosa di eterno nella sigla di una band acquistandone il disco a scatola chiusa. Ahimè, questo non è vero né possibile. La PFM infatti non è solo quella che bene o male tutti conosciamo, quelli di Storia di un minuto, della backing band preferita di Battisti. Oppure quelli delle tournée mondiali con tanto d’ingresso in classifica in America e in Inghilterra, quelli delle amicizie con Frank Zappa e delle prime sperimentazioni con i sintetizzatori Moog e con gli aspetti virtuosistici della materia in senso italico, quelli che hanno svezzato le prodezze world di Mauro Pagani e flirtato con Fabrizio De André convincendolo in pratica a ritornare in pista.

"Volta la Carta" di De André assieme alla PFM. Eh no, perché a un certo punto la storia della PFM prende una piega che tutti i fan del prog cercano di insabbiare, infangare. Una piega di cui nel novanta percento dei casi si vergognano. Stiamo parlando della fase "urbana" del gruppo, e in particolare del primo disco in assoluto in cui la tecnologia, i sintetizzatori e i campionatori sono usati in maniera massiccia a scapito delle solite chitarre, dei soliti tamburi e delle solite minchiate del prog (con tutto il rispetto). Il suo nome? L’autoironico PFM? PFM!, che già dal titolo ci indica che qualcosa è radicalmente cambiato nella band, tanto da metterne a rischio la riconoscibilità. Italian Folgorati, quindi, vuole scoprire una volta per tutte qual è questa metamorfosi.

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Dimentichiamoci i favolosi anni Settanta dei dischi capolavoro dei PFM, quelli di Chocolate Kings, dove alla corte di Franz Di Cioccio, Alberto Mussida, Patrick Djivas e Pagani vi era la voce a la Genesis del grande Bernardo Lanzetti, ex Acqua Fragile. Dimentichiamoci i precedenti di Photos of Ghosts con i testi di Peter Sinfield e la sua posizione 180 nella classifica di Billboard, dimentichiamoci Jet Lag con i suoi sbuffi fusion. E invece ricordiamoci, appunto, che nel '77 arriva il punk e la Premiata Forneria Marconi muta in un altro tipo di gruppo, che abbandona le atmosfere fantastiche e le metafore politiche per entrare direttamente a contatto con lo spirito metropolitano, che al punk s’ispira e che inevitabilmente si avvicina a quello che è rock, nichilista e senza troppi fronzoli.

Già da Passpartù del 1978 le differenze si sentono. Nonostante perduri un concept semifantastico ispirato a re Artù (vedi il gioco di parole), troviamo dei testi assurdisti opera del cantautore e critico musicale Gianfranco Manfredi che non sono molto distanti dalle allucinazioni del rock demenziale e underground d’epoca (Skiantos, Gaznevada e via dicendo). I PFM vogliono avvicinarsi alle nuove generazioni settantasettine, tanto da affidare la copertina di un mito assoluto di quell’era, Andrea Pazienza. Ma non basta: musicalmente non siamo ancora nella fase rockeggiante, ci troviamo semmai immersi in qualcosa di più acusticheggiante e folk, assimilabile probabilmente a quello che stavano tentando di fare gli Area in quel periodo, prima della fine.

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Diciamo che, in generale, le "vecchie glorie" aderiscono alla novità del rock ma si sentono spiazzati, non sanno come farlo se non in modo inevitabilmente forzato. Lanzetti si accorgerà presto di questa situazione, e se ne andrà. Non perché nostalgico del prog e della tecnica, anzi: se ne va perché il rock nei PFM è meno duro di quanto sembri e infatti nelle sue produzioni soliste il buon Bernardo rivelerà di aver capito meglio dei soci da che parte colpire e come (illuminante il disco Bernardo Lanzetti dell’80, con la produzione di Niko Papathanassious, stesso compagno di merende dei Krisma, così come le collaborazioni ahimè sfumate con Vangelis).

Comunque sia, la PFM continuerà il suo viaggio alla ricerca di un sound di strada più immediato, mettendo in prima linea l’istrionico batterista Di Cioccio oramai voce della band a scapito delle bacchette, cedute a Walter Calloni (motore ritmico dei Decibel di Vivo da Re), con il risultato equivoco e paradossale di attirare più l’interesse del pop italiano che quello del giro new wave. Cocciante, ad esempio, interpreta una cover di "Suonare suonare", dall’omonimo disco successivo della PFM, sull’album Cervo a Primavera, facendo praticamente consumare la miccia, non pago di aver chiamato anche mezzi Perigeo a suonare nel suo disco. La confusione sotto il cielo è grande, per citare una band coeva, i Gramigna. Così però stanno le cose, ed è lo specchio fedele di un'era.

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"Suonare suonare" di Riccardo Cocciante. Nonostante questo con Come ti va in riva alla città i nostri cominceranno a pensare con la testa di una giovane band di disagiati teenager, entrando letteralmente nel personaggio, come se poi alla fine parlare della strada fosse narrare storie di personaggi fantastici stile "La carrozza di Hans". Il lupo quindi perde il pelo ma non il vizio, la distanza fra una band di successo e i poveracci che si fanno le pere per strada è grande, ma la PFM fa sua la lezione di Adam and the Ants (tutto sommato anche loro abbastanza prog nella prova di “Dirk Wears White Socks”) cercando di mescolare vecchio e nuovo anche a costo di prendere strade eccessivamente giovaniliste.

Basti pensare alle colonne sonore per Il ras del quartiere di Abatantuono o Attila flagello di Dio e altre simili amenità: si giocano il tutto per tutto, insomma, asciugando e indurendo qualsiasi cosa e diventando a tutti gli effetti dei seguaci della nuova onda, a partire dai testi di Di Cioccio, mai così immersi nella realtà dei “gggiovani”: "Nel fine settimana / la città non piange / tempo, no, non ne ha. / Le narici bruciano dolore / ed il neon scorre per le strade. / Puoi ballare tutta la notte / per sballare domani / e rimettere tutto in gioco / per la settimana dopo". Non solo: in questo generale cambiamento di costume Di Cioccio trova anche il tempo per suonare un tamburello non accreditato in Stop dei Pooh, sigillando definitivamente l’orrore nei cuori dei progger vecchio stampo che vedono nella PFM oramai una band di venduti. La questione non sta realmente così. Nelle parole dello stesso Mauro Pagani, sempre tratte dal blog Rock Celebration:

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"È l’idea primigenia del progressive che è vincente: c’è curiosità, evoluzione e apertura. E comunque il progressive nasce costruito intorno al concetto di contaminazione, che è un concetto attuale. Per cui è stata una musica molto moderna per i suoi tempi, anche troppo."

Ecco, i parrucconi del prog non hanno mai capito che la PFM provava proprio la contaminazione, l’apertura. Il che significa anche riprendere in mano il formato canzone, l’immediatezza del rock, tornare apparentemente sui propri passi e tentare di farne qualcosa di diverso anche a costo di prendere una cantonata. D'altronde il prog a fine anni Settanta era diventato oramai talmente abusato da diventare la musica dei vecchi, e la PFM di invecchiare non ha punto voglia, giustamente.

E quindi, il passo successivo era quasi prevedibilmente lanciato verso il lato estremo: PFM? PFM! del 1984 è infatti il primo disco della band a vedere più sequencer che esseri umani, radicalizzando il suono verso il technopop—o meglio uno strano “technopoprog” apparentemente più commerciale ma in realtà a volte inascoltabile, atto a evocare un mondo fortemente computerizzato e in un certo senso post-umano. Ecco che in un sol colpo non solo i progger volteranno le spalle completamente ai loro ex beniamini, ma anche i gggiovani rimarranno esterrefatti poiché il rock oramai per la PFM è un ricordo del passato: sembra infatti quasi guardare più avanti di coloro ai quali si rivolge.

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Parlandoci chiaro, l’esperienza precedente alla PFM—cioè i Quelli—era solo pop rock che nella sua immediatezza era quasi punk. E infatti pensiamo che uno dei motivi della svolta sia l’incoraggiamento involontario di Ivan Cattaneo alla band, dopo la sua allucinata versione synthpop de “La bambolina che fa no no no”, a dimostrare che forse è il momento di ritrovare la freschezza degli esordi, ancora attualissima. Vediamo quindi cosa ci racconta questo disco.

L’incipit è affidato al singolo di traino, un vero e proprio missile cruise, probabilmente uno dei capolavori di sempre del technopop italiano. "Capitani coraggiosi"—oltre ad avere dei BPM anfetaminici e un andazzo fra l’epico e il sognante—è una cascata di synth e di arpeggiatori a tratti di stampo Roberto Colombo, con progressioni che sembrano i Matt Bianco in preda allo skip attention e un ritornello dalla melodia praticamente perfetta. Non manca certo la perizia tecnica, che non è fatta di virtuosismi evidenti ma piuttosto di una cura certosina dei particolari, in cui una nota suonata a cazzo fa la differenza. Il brano riscuoterà un certo successo, per ovvi motivi: ha un hook micidiale, all’epoca corredato anche da un video particolarmente scuro e intrigante. D’altronde qui si dice all’“architetto delle stelle” che è fuori come un balcone, strano modo di bestemmiare non trovate?

La seconda traccia è “Sentimentalmente”, un reggae sintetico particolarmente spezzato con bassi altrettanto nervosi, che però hanno anche evidenti influenze italo disco. Poi però tutto esplode in una ritmica serratamente rock per incasinarsi subito dopo in una serie di tempi squisitamente pronk (non prog, avete letto bene). Un brano d’amore metropolitano, in cui, l’unico modo per uscire dal labirinto urbano è il sentimento. In un certo senso è un momento new romantic ben preciso nella storia della PFM, forse insuperato.

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“Marlon Brando” è una botta ritmica con incursioni di violino e un Mussida che opta per una chitarra classica asciutta che sembra quasi un clavinet con quel pizzicare sulle corde di nylon. Una canzone che sembra un inno all'allucinazione notturna, già dai suoi synth serpeggianti e da alcune accortezze che possono ricordare gli XTC almeno per il formato canzone, ovviamente frammentato e mascherato da una serie di ghirigori virtuosistici. D'altronde è lo stesso anno di Franesco Zappa di Zappa e del suo recupero della musica italiana, appunto virtuosa, passata per il synclavier. Non ci stupisce nulla.

“Attimo di musica” inizia con delle marimba sintetiche, bassi che imitano voci di plastica, e poi via con una ballata ariosa e malinconica. Il problema di cuore di cui parla mette in gioco anche un'autocritica sul fatto di trattare l'amore come un lavoro, paragonandolo alla musica nel momento in cui diventa—purtroppo—una costrizione per campare. Chiaro sfogo autobiografico e quasi ferreriano di un Di Cioccio in piena crisi d’identità, forse pronto a gettare la spugna. Inserti di disturbi elettronici e pad ampissimi completamente psicotropi, un po’ come una Katie Gately irsuta. Suoni FM a cannone, "il futuro è un amico fragile": probabilmente previsione affatto campata in aria, visti i tempi che corrono.

Facendosi strada da un arpeggio a cannone di Mussida, “Tigre” ci offre dei synth tellurici e a metà fra i Goblin degli ottanta e uno scalo nella città di Blade Runner. Poi diventa un rocckaccio elettronico supertamarro tipicamente eighties, forse telefonato ma a suo modo necessario in quanto la donna è paragonata a un vero e proprio felino con le strisce. A un certo punto c’è uno stacco solo percussivo che rasenta l’industrial, seguito dal solito compromesso prog: le carte si mescolano. Brano diretto e disimpegnato ma non per questo da buttare nel cesso, appunto per i momenti sopracitati. Pare che per Di Cioccio l’unico modo per ripigliarsi da un mondo di merda sia l’amore, quindi perché non amare anche questo pezzo?

E quindi parte un rock latino al quale sicuramente i Litfiba dei novanta devono molto, “46”, che in qualche modo è un’ode ai passaggi di staffetta fra le generazioni, una serie di svolazzi di archi che ricordano gli Alphaville. Il succo del brano è "il vento deve cambiare". E quindi “Elettronicità nella testa dei figli dell’86”, un messaggio preciso per quelli che vorrebbero la PFM ancorata ai soliti schemi vetusti e che invece sono costretti ad attaccarsi al tram del cazzo. Oltre a scomodare in anticipo sui tempi anche i figli del '96, “una sirena suona l’ora dell’amore nel 2006”: incredibilmente è vero, considerando i vari sexting sui social, scanditi da continue notifiche audio. Di Cioccio si spinge quindi oltre con l’immaginazione e le previsioni, cosa che ci fa capire che PFM? PFM! ha l’ambizione di rimanere nel cuore delle generazioni del futuro. Mica male no?

“Ego telecomunicazione” è un brano desolato fra erezioni mancate e autodafé, un dialogo in solitudine fra un se e un se stesso. Un brano ossessivo, abbastanza schizofrenico nello sviluppo, con un Di Cioccio a cantare in falsetto melodie improbabili. Sembrano quasi i Genesis di Invisible Touch ma tre anni prima e onestamente molto meglio, almeno per la confusione mentale che anima il pezzo. “Segui bene il tempo che verrà", dice il testo: pare un’ossessione del nostro Franz, con un grande botta e risposta di solo fra il violino storpio di Lucio Fabbri e la chitarra di Mussida, che assorbono la lezione della new wave più ostica (soprattutto Fabbri la cui militanza in act del genere è comprovata—vedi i Krisma di Hibernation).

Anche nell'ultimo brano, la solare "Bi Bi Bop", la solitudine è centrale e immersa in un’aria surreale (il bip bip bop incomprensibile non sarà mica un "The Reflex" duraniano versione PFM?). La base è quasi vicina ai Miami Sound Machine di "Conga". Forse non è tutto perduto e se la ricerca significa rischiare di essere abbandonati da un pubblico, ebbene sia. Qui dobbiamo trovare il click giusto, mica pipe.

Accompagnato da una copertina in stile fortemente pop art opera dello stesso Max Quinque autore della copertina di Crêuza de mä di De Andrè (in zona onestamente Snake Agent del compianto Tamburini) per sottolineare ancor di più la freddezza dell’operazione, PFM? PFM!!! non sarà capito e cadrà nell’oblio. Sarà ristampato solo nel 2016, rimanendo fino ad allora praticamente introvabile. Nonostante il successo del singolo "Capitani coraggiosi", la svolta tecnologica dei nostri sarà accettata ancora meno di quelle già intraprese dai loro colleghi (ad esempio il Banco e Le Orme). Questo anche se rispetto al successivo Miss Baker, impregnato di umori dance, l’eresia è ancora accettabile: interrogati a proposito, i PFM non si scompongono sulle ragioni di questo flop. Anzi, appaiono molto lucidi.

«Il problema di quel disco, se di problema si vuol parlare, è che non è andato particolarmente bene. Noi avevamo fatto i provini di PFM? PFM! anche in inglese. Ed era straordinario in quella versione. Quindi ancora una volta il testo ha un po’ tradito quello che era il contenuto musicale del disco.»

Piegarsi al pubblico italiano è dunque costato molto alla PFM rispetto a un possibile successo internazionale? Beh, forse si: pensate se l’ultimo Fever Ray fosse cantato in italiano. Probabilmente tutti si comprerebbero PFM? PFM! per riprendersi dallo shock. Ma qui parliamo veramente di capitani coraggiosi: "Stasera c’è uno come me che si gioca la sua pelle”. Auguriamo alla PFM di continuare a giocarsela: a volte, per i posteri, vale davvero la pena.