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Musica

La techno morbida e glaciale di Carsten Jost

Abbiamo parlato con il fondatore di Dial del suo nuovo album, per capire perché il black metal e il dancefloor non sono mondi poi così lontani.

Il critico Simon Reynolds dedicò un testo succoso, all'interno della rivista d'arte Frieze, alla spettacolare tetralogia techno che il produttore Wolfgang Voigt pubblicò a fine anni Novanta con il nome GAS (su Mille Plateaux, gli LP original; raccolti nel box set Nah und Fern dalla Kompakt, di cui Wolfgang è co-fondatore). Trattando del desiderio del produttore di "portare la foresta tedesca nella discoteca", Reynolds si lancia nella descrizione dell'affaire tra tedeschi e foreste che corre da Mann a Goethe; da Wagner a Strauss; da Nietzsche a Fanck; e così via, indietro fino al Romanticismo e ai fratelli Grimm.

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Qui ci fermiamo: sia per ricordare che la Kompakt è il vero centro operativo della Dial – etichetta di David Lieske, a.k.a. Carsten Jost che, come vedrete, delega volentieri burocrazia ed operatività a terzi – sia per suggerire che la foresta migliore per il nuovo Perishable Tactics è quella che avrebbe ospitato la casa di marzapane degli sfortunati Hänsel e Gretel: per il senso di pacificazione da zuccheri, per lo spaesamento stregonesco che serpeggia tra gli arrangiamenti, per il gusto di non finito che, in fin dei conti, invoglia ripetuti ritorni.

Perishable Tactics esce più di quindici anni dopo l'esordio di Jost e almeno dieci dopo che il mix di minimal e deep del catalogo Dial (rimandando a volte alla primissima Warp, altre alla sognante 4AD) divenissero, per breve tempo, sinonimo di "techno tedesca". Soprattutto per merito dei notissimi Pantha du Prince e Efdemin, più che i per i pur ottimi fondatori Jost e Lawrence. Ok, lo riveliamo: forse la foresta più adatta non è nemmeno quella di Hänsel e Gretel, ma una specie di versione casereccia e inquietantissima del villaggio replica del telefilm Westworld. Leggete un po'.

Noisey: Amburgo, Berlino, New York. Cos'hanno significato queste città per te?
David Lieske: Amburgo è il luogo dove sono nato. Un luogo sicuro, quieto e grazioso per crescere, ma se mi permettete, citerò un noto ex-amburghese, Karl Lagerfeld: "Amburgo è il cancello del mondo, ma appunto è appena un cancello". Ho incontrato lì i migliori amici Pete [Lawrence] con cui ho creato la Dial Records e, più tardi, la galleria Mathew, oltre che molti dei sodali Dial: Efdemin, Pantha du Prince, Nike.bordom, Pawel. Impensabile che succedesse altrove.

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Berlino è il luogo in cui ho passato la maggior parte dei miei vent'anni. La città mi ha dato soprattutto un bel po' di tempo per bighellonare, esattamente ciò di cui avevo bisogno all'epoca. Raccomando calorosamente Berlino a chiunque abbia bisogno di tempo per sperimentare o sviluppare qualcosa senza bisogno di perseguire uno scopo certo. È una delle ultime città al mondo in cui lo si può fare senza soldi in tasca e con tanti stimoli attorno.

A New York ci vivo. Mi insegna qualcosa di nuovo quasi ogni giorno ed è il posto che mi ha cambiato di più (dopo Tel-Aviv, dove ho vissuto tra il 2008 e il 2010). Sto mettendo ancora insieme i pezzi, cercando la natura politica e sociale del posto. La recente ascesa del neoliberalismo estremista fa abbastanza paura. Non sarei nemmeno riuscito a immaginarlo solo qualche mese fa.

Mi piace il modo in cui il suono di Perishable Tactics stona con la copertina.
L'immagine viene da un editoriale che ho fatto nella località Joshua Tree in California per la rivista 229 792 458 m/s che ho fondato l'estate scorsa con Robert Kulisek. Quella foto in particolare è vagamente ispirata al film giapponese Battle Royale ed è stata nata nelle vicinanze di Pioneer Town, un vecchio set cinematografico, abitato però da spaventosi repubblicani che vanno conciati come nel vecchio West. Abbiamo trovato questo luogo completamente pieno di lattine arrugginite colme di proiettili. Ottimo sfondo per il personaggio distopico, a malapena vestito, che si tiene su un fucile mentre il resto del mondo è in stato di declino. Sembrava illustrare quasi perfettamente i sogni di battaglie epiche che faccio la notte.

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Il titolo Perishable Tactics si oppone, e allo stesso tempo supporta, il senso di kitsch che permea l'immagine. La techno, per come la intendo è una strana costante, una specie di matrice che si comporta in modo prevedibile: può essere arricchita in qualsiasi modo con emozioni, messaggi, riferimenti, texture. La cornice iniziale non cambia e sembra sempre essere un po' fuori tempo massimo, onestamente. Forse l'ho chiamato Perishable Tactics perché le basi suonano un po' secche e questo porta una speciale tensione, una bellezza che mi ha reso gradevole il lavorarci.

Come mai sei tornato al formato LP dopo una vacanza così lunga?
Il mio ultimo album è del 2001. Ho continuato a fare musica regolarmente, ma con una certa lentezza. La maggior parte degli anni, non riuscivo a finire nemmeno una traccia sfortunatamente. Ciò che mi ha ispirato a realizzare un secondo Carsten Jost è stato Deathbridge, il disco che ho fatto nel 2015 con la band black metal [Misanthrope, CA] che ho messo su con il mio compagno. L'anno scorso abbiamo affittato una casa semi diroccata nell'East Hampton e ci siamo presi un mese. È stata un'esperienza intensa. La prima dopo un lunghissimo tempo in cui ho pensato esclusivamente al suono in tempi così ristretti. Quando i miei amici che lavorano a Eckhaus Latta hanno costruito il loro showroom ho deciso di usarlo per finire tracce che avevo, da anni, negli hard disk.

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Il disco è molto coeso, le tracce sono una serie di variazioni su strutture e forme con mood leggermente diversi, quasi una colonna sonora. Quale sarebbe l'accoppiata ideale su Netflix?
Non so molto di Netflix, ma sono sempre stato ossessionato dai film di guerra. Uno dei miei preferiti è Black Hawk Down di Ridley Scott con la nota colonna sonora di Hans Zimmer o i classici Platoon, La sottile linea rossa, Full Metal Jacket e Apocalypse Now.

Purtroppo non ho suggerimenti da esperti, ma sono film che mi hanno attratto magicamente fin dalla più tenera infanzia, credo sia a causa del fatto che i mei genitori erano pacifisti e la mia aspirazione era quella di, un giorno, diventare un soldato.

Vite vendute di Henri-Georges Clouzot, con il suo bianco e nero estremo, sarebbe in ottimo contrasto con la mia musica. Amo le albe dei primi film di Malick e il modo in cui mescolano immagini in movimento, soundtrack e voice-over. È qualcosa che provo a riprodurre con la mia musica. Se mai girassi un film, eliminerei i dialoghi.

Tecnicamente, come hai lavorato alle tracce?
Nell'arco di dieci anni circa in diverse location: è, quindi, impossibile ricondurle a una metodologia unica. Lavoro con un set-up base, di conseguenza faccio tutto con un computer. Non uso alcun tipo di hardware, nemmeno tastiera midi. Alcune tracce in Logic, altre con vecchissime versioni di Cubase. Colleziono suoni nel tempo. Ho usato campioni e registrazioni. Seguo un processo assolutamente intuitivo ed emotivo.

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Lavori come musicista, hai una label (Dial), sei un artista visivo e hai una galleria Mathew (Berlino, New York). Come vivi questi mondi?
Tutte le mie attività arrivano dallo stesso interesse, avere la massima libertà. Dirigere due gallerie significa, per forza di cose, seguire il classico ritmo di vita che va dalle nove della mattina alle cinque della sera. Bisogna essere aperti e flessibili a ogni scenario. La musica e l'arte sono onde che si compensano, normalmente realizzo musica quando la galleria è chiusa in estate (tra luglio e agosto) e a dicembre. È una bella distrazione dagli orari imposti e dalle routine di galleria. A dir la verità, vorrei fare solo le cose che mi piacciono e delegare il più possibile il resto.

In che modo credi che lo stile Dial abbia aperto le porte a scene elettroniche che arrivano dal club?
Mi hanno spesso fatto questa domanda e rispondo sempre allo stesso modo. Posso parlare solo per me perché, quando ho iniziato, ho copiato il suono degli artisti che più amavo e forse le varie atmosfere e attitudini non si legavano completamente bene, come ad esempio il gelo del black metal norvegese con le produzioni di Detroit. In generale non mi sono mai pensato artista innovativo, ma come uno che si avvicina alla musica da fan. Soprattutto, sono invidioso della musica di altri e irritato dalla mia scarsa capacità di perseverare e sviluppare qualcosa di veramente nuovo. Mi piace fare musica per me, non m'interessa molto cosa succede poi.

Ci sono due canzoni chiamate "Atlantis" (contenute originariamente in un 12" del 2007), parola che avevi usato anche come artista visivo. In particolare, riferendoti al fatto che Platone usò il continente sommerso per formulare l'idea di un governo perfetto che, nonostante tutto, era scomparso, fallito per forze naturali.
Mi sono interessato all'uso che Platone fece di Atlantide come cornice per idee molto sofisticate. Ho tentato di fare analogie con i giudizi che si formulano sulle opere d'arte. Spesso sono prodotti attraverso prese di posizione di gusto, piuttosto arbitrarie, da parte di individui di potere che usano sistemi di ragionamento—a volte foschi, altri completamente finti—al fine di renderle credibili o dar loro carattere di premonizione.

Che artisti segui? Intendo, in qualsiasi campo.
Credo sia importante variare la nostra cultura generale, la nostra visione della storia dell'arte e della politica. E lo dico pensando, in primis, a me, perché mi rendo conto di quanto siano generici i miei gusti. Mi piacerebbe cambiarli, ma è difficile allontanarsi dalla socializzazione e dai punti di riferimento che ho ricevuto, perlopiù europei o nordamericani. Credo che i bianchi che, come me, hanno il potere di dare esposizione (o meno) ad altri artisti dovrebbero discutere più di razzismo. Non attendere sempre di essere invitati a farlo da artisti di colore. Metto sempre in pericolo la mia salute mentale quando cerco di capire da dove arriva questo disgustoso desiderio di tutelare i privilegi.

Francesco Tenaglia è su Twitter: @francescoten.

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