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L'Itatube è il Sonar dei minorenni

Siamo stati a Itatube, la prima convention italiana espressamente dedicata al mondo degli youtuber, per conoscere le star nostrane e le fan che piangono alla loro vista.

L'Itatube è stata la prima convention italiana espressamente dedicata al mondo degli youtuber, con una manifestazione durata due giorni all’Alcatraz di Milano.

Capisco che la notizia possa generare un certo scetticismo in chiunque fosse qualcosa in più di un embrione durante la caduta del muro di Berlino, ma la realtà è che gli youtuber e i loro fan esistono, sono tantissimi, pagano biglietti da 40 euro per ritrovarsi tutti insieme e hanno un’aspettativa di vita decisamente più lunga della mia. L'organizzazione ha radunato ospiti principalmente americani e italiani; io arrivo nella parte finale della due giorni e il grosso del programma pare ci sia già stato. Tuttavia una ragazza che non conosce ancora il significato del termine “menarca” ci tiene a rassicurarmi che sono in tempo per TYLER, che lei pronuncia in caps.

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TYLER, capisco immediatamente, non può essere nominato senza piangere/urlare/tremare ed è sostanzialmente il motivo per cui tutti sono qui, dove “tutti” sta per ”ragazze pre tampone e i loro amici maschi dalla sessualità incerta.” Tyler è lui:

Forse è perché è il primo video di Tyler che vedo nella mia vita, o forse come primo impatto è stato un po' troppo forte per i miei limitati mezzi intellettuali—tuttavia, sentirlo elencare le sue media partnership col tono di chi risponde a uno spam sull’allungamento del pene e scopre che funziona mi ha fatto l'effetto di un lungo status passivo aggressivo che mi prendeva a bastonate di rivalsa. Al suo posto avrei molto apprezzato l'elenco dei medicinali per il controllo dell'umore e dell'attenzione che possono rendere una persona così entusiasta e che, sospetto, avrebbero occupato tanto spazio quanto questo riassunto del 2013.

In ogni caso qui Tyler è amato almeno quanto i militanti 5 Stelle amano l’appiattimento linguistico e eclissa tutti gli altri partecipanti a livello di aspettative delle fan, le quali piangono al solo annuncio della sua presenza nella struttura.

La sala non è esattamente strapiena, ma se si è abbastanza fortunati sarà possibile assistere in prima persona a uno dei fenomeni più qualificanti dei servizi di Lucignolo, ovvero degli adolescenti che parlano da soli in direzione di una macchina fotografica.

Se questo non fosse evidente, dappertutto ci sono cartelli che ricordano ai presenti che saranno oggetto di riprese. Vagando ci si accorge che il pubblico è davvero internazionale—mica come il Salone del Mobile—e ci sono ragazze che hanno preso degli aeroplani provenienti da altri Paesi, per essere presenti. Il Sonar dei minorenni. Ci sono Dana e le sue amiche, arrivate dall’Inghilterra, o Noah e Vas, che sono rispettivamente russa e americana e hanno entrambe 14 anni.

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Nessuna di loro ha la seppur vaga idea di chi siano gli Youtuber italiani o di una qualsiasi altra cosa che non comprenda le parole “Tyler” o, evidentemente, “smalto glitterato”. Mi spiegano che questa convention è una novità assoluta a livello europeo e che è una delle pochissime occasioni che hanno per vedere dal vivo le star americane. Ecco perché c’è un sacco di gente che arriva da ovunque.

In un certo senso è la prima cosa che mi colpisce in senso positivo, perché a quell'età è interessante incontrare coetanei con diverse abitudini fonetiche e alimentari. Immagino li aiuterà a diventare degli adulti più preparati e tolleranti, uniti nella comunione universale dell’amore per Tyler.

Mi ci vuole un po’ per trovare degli italiani, ma poi incontro Alessandro e Veronica, di 16 e 15 anni, e li avvicino. Anche loro, però, mostrano un certo disinteresse per le celebrity nostrane: sono qui nella speranza di incontrare gli youtuber americani e non seguono granché la “scena” italiana.

Mi dicono scazzati che forse qualche italiano è ancora in giro, ma loro non sono interessati. Insisto—"Quindi di italiani che conoscete non ce ne sono proprio?"—e Alessandro mi dice che sì, magari qualcuno c’è, ma lo fa uno sguardo di schifo misto pietà che mi fa sospettare che l’argomento sia penosamente fuori luogo, e che probabilmente ci sono determinate parole, come “youtuber” appunto, che pronunciate da un apparato orale di più di diciassette anni vengono fuori strane e imbarazzanti.

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Mentre la gran parte degli ospiti si dispone sotto uno dei palchi in attesa delle prossime esibizioni, gli altri si mettono in fila per il meet and greet. I partecipanti se ne stanno generalmente in grumi sparsi attorno alle persone famose e per lo più vagano per la sala piangendo d’emozione, telefonando o piangendo d’emozione e telefonando.

Riesco finalmente a trovare lo spazio dedicato agli italiani. È una stanzetta laterale, e quando arrivo è in corso un infuocatissimo panel a tema il nulla, in cui i ragazzi interagiscono col pubblico e rispondono alle domande. Temevo non sarei riuscita a distinguere le star dai loro fan, ma si trattava probabilmente dell’unica ansia davvero immotivata che abbia mai attraversato il mio cervello. È chiarissimo al primo sguardo che, a meno che non sia in corso un contest del tumblr Lesbians who look like Justin Bieber, sono arrivata nel posto giusto.

Il look esibito dai nostri, infatti, è una rivisitazione della chiave stilistica Boyband/Monsanto che tanto piace ai minorenni miliardari di area anglofona, però immaginata da una costumista Rai, dunque un tripudio di quadrettoni e acconciature dolorosamente giovani.

Nonostante sia l’area dedicata a loro e il pubblico se la stia ridendo parecchio anche qui è difficile trovare veri fan. L’unica che ammette di conoscerli è Diletta di 16 anni, che però cambia idea appena la fotografo e comincia inopinatamente a sostenere che sia il suo fratellino di 11 anni a seguirli. Lui nega tutto.

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Parlo con Frax, Dread e JustZoda, che vengono tutti dal gaming. Sono su youtube da più o meno due anni e hanno cominciato seguendo alcuni utenti di Call of Duty. Frax mi spiega che non sono ancora riusciti a capitalizzare in nessun modo la loro popolarità perché la situazione “a livello di media partnership è molto critica. Le grandi aziende non investono su YouTube Italia e quando lo fanno è solo per contenuti mirati a scopo pubblicitario. Chiaramente noi organizziamo i nostri eventi per monetizzare il minimo. Io ho 20 anni e vivo con i miei, con i soldi che ricevo grazie a YouTube posso comprarmi al massimo un paio di scarpe, ecco.”

Frax.

In ogni caso Frax spera che presto la situazione diventi più simile a quella americana, e che sia possibile attirare in Italia maggiori investimenti delle aziende. Vorrebbe evolversi dal gaming verso altri tipi di contenuti, tipo un cortometraggio.

JustZoda ha 18 anni e mi dice che adesso per loro è diventato un lavoro e la parte live degli incontri ha assunto un certo rilievo. Dread, che di anni ne ha 20, me lo conferma prima di mettersi a far foto e a firmare autografi con la scioltezza di Jovanotti e Anna Maria Franzoni.

JustZoda.

L’idea che dei ragazzi molto giovani eleggano le proprie celebrità e i propri modelli in maniera totalmente indipendente dalla proposta televisiva, mediatica o ideologica non è affatto spiacevole in sé, e rende discretamente tollerabili anche le isterie svenevoli. In questo caso poi, la situazione è così priva di alcol, sorridente e innocua che sembra filtrata attraverso il cervello di un brand manager Coca Cola in atto di concentrarsi fortissimo sui teenager.

Eppure sembra che questa indipendenza sia esclusivamente formale e non serva in nessun modo a far emergere contenuti e personaggi che non siano biscottosi, rassicuranti e funzionali su codici estetici brutalmente televisivi.

Gli americani sono nettamente più inseriti a livello economico e di investimento della propria immagine rispetto agli italiani—che conservano una componente spontanea molto più evidente—e costituiscono un buon esempio delle possibilità economiche e occupazionali dello youtuber di successo, una figura che qui è riferita ancora a pochissimi casi isolati che comunque hanno poi spostato le loro carriere in ambiti più tradizionalmente televisivi o cinematografici.

Non producono necessariamente contenuti sponsorizzati, ma apparentemente non riconoscono un linguaggio diverso da quello pubblicitario anche in riferimento al sé, viziando l’idea di libera espressione ancora prima che un brand decida di considerarne le potenzialità e adattarla a un discorso commerciale. Molto spesso non c’è un effettivo prodotto artistico dietro di loro, ma solo una serie di desideri molto forti e molto monetizzabili. Perché in fondo non hanno bisogno di "vendersi" e di essere assorbiti dal "sistema", essendone ormai permeati a livello sostanziale.

Segui Laura su Twitter: @lautonini