Musica

Abbiamo intervistato CoCo per parlare di malinconia e Luché

'Floridiana' è stata una delle sorprese più belle di questo terrificante 2020 e, visto quanto lo stiamo ascoltando, abbiamo voluto approfondire
Daniele Ferriero
Milan, IT
CoCo
Immagine gentilmente fornita dall'ufficio stampa dell'artista

Nel momento stesso in cui ascolto le prime parole di CoCo, su disco e dal vivo, mi colpisce uno tsunami di luci al neon distrutte dalla malinconia. È una sensazione che mi accompagna anche mentre rileggo i testi del suo ultimo disco, Floridiana, e quelle barre che mischiano incertezze, senso di perdita, e attimi sfuggiti alla presa del presente.

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Non è una posa, né il tentativo di costruirsi un’aura di spleen ad uso e consumo del mercato discografico. Piuttosto, è il riflesso sentito dell’anima dell’artista di Napoli. Suona pretenzioso, ma è il semplice precitato del carattere e dell’esperienza di Corrado, che ha costruito la propria musica in un unico infinito tentativo di sintetizzare e compattare le tante influenze (rap, r’n’b, cantautorato persino) verso un prisma sonoro infinito, ma solidissimo.

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Una traiettoria ben diversa da quella di tanti suoi colleghi che vanno per la maggiore, che però gli ha permesso di costruire una fan base molto solida e un approccio differente dalla media. Una parte delle ragioni sta nel suo background famigliare, “Mio padre era un chitarrista blues e io sono nato circondato dalla black culture, da sempre. Sono cresciuto in una casa ricolma di quadri di John Lee Hooker, Albert Collins e BB King, con in sottofondo dischi di Nina Simone appena aprivo gli occhi. Ho avuto un’esperienza diversa, diciamo anche un bagaglio culturale diverso.”

Ma l’altra risiede nella volontà di mettersi alla prova e farsi spingere dai venti dell’esperienza e della diversità, ovvero la ragione principe per cui CoCo ha vissuto a lungo a Londra, un periodo quasi decennale che l’ha toccato nel profondo. “Per carattere, mi piace portare avanti in autonomia il mio discorso, il mio mondo e il mio immaginario. Sono il tipo di persona che non si è mai sentita radicata in un posto ben preciso. Al tempo stesso, però, non dimentico da dove vengo e mi piace lasciare sempre una finestra aperta su tutto quel che succede nel mondo. Insomma, è naturale che nella mia musica rimangano incondizionatamente influenze napoletane e italiane.”

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“Mio padre era un chitarrista blues e io sono nato circondato dalla black culture, da sempre. Sono cresciuto in una casa ricolma di quadri di John Lee Hooker, Albert Collins e BB King, con in sottofondo dischi di Nina Simone appena aprivo gli occhi.”

“Tra l’altro, io vengo in parte da un background diverso anche nel senso che appartengo a una generazione che ha conosciuto il rap italiano in un'altra fase, quella ‘classica’. Ero un grande cultore e mi ascoltavo tutti i dischi underground possibili e immaginabili. Mi reputo fortunato perché ho vissuto le varie fasi del rap e posso quindi mescolarle con le altre mie influenze generali. Ero fan de La Famiglia, per dire, e poi mi sono innamorato dei Co’ Sang vedendoli dal vivo, molto prima che esplodessero a livello nazionale. In effetti io mi affido soprattutto a un fattore emotivo”, mi precisa, e io non posso fare a meno di pensare a come questo si traduca quando lo sguardo torna a soffermarsi proprio sulla città di partenza, su Napoli.

“Come sappiamo ormai da sempre Napoli è un pianeta a parte, una città che vive di vita propria sotto tanti punti di vista, soprattutto artisticamente. A Napoli abbiamo il nostro mercato, il nostro business e persino i nostri generi musicali e penso che valga almeno in parte persino per la scena rap.” Quando gli chiedo cosa questo comporti, le criticità iniziano a venire a galla: “Questa nuova ondata di trap napoletana, barra neomelodica, barra... com’è che li chiamano? Spagnoletani... a me fa un po' freddo addosso. Ma non per la musica in sé, quanto perché finisce per suonare come una questione di trend. Quanti prima nascevano e si affidavano a sonorità neomelodiche, e quindi si rifacevano ai Pino Giordano, oggi si votano in toto ad altre aspirazioni, altri esempi e personaggi. In effetti, è diventata una vera e propria alternativa a quel suono.”

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“La mia perplessità nasce dal fatto che ci siano dei canoni sin troppo precisi, delle regole ben collaudate. Un tempo appunto ci si ‘ispirava’ a Pino Giordano anche nel look, ma oggi puoi trovare in giro quelli del tutto simili a Geolier, persino nel taglio dei capelli, oltre alle melodie o alle tematiche nei pezzi. In sostanza, si crea un circolo vizioso”, mi conferma. Tuttavia, CoCo insiste anche molto nel delineare gli aspetti più positivi del discorso, ovvero che questa wave è comunque ben radicata nel territorio, nella fortissima identità artistica di Napoli, con la sua crudezza e il background così particolari: “Di certo non siamo anonimi. Spero solo che tutte le musiche e gli artisti belli che esistono non finiscano per essere racchiusi in un qualcosa un po’ troppo fine a se stesso, ecco tutto.”

Un rischio che di certo non corre Floridiana, con il suo carico di musiche così particolari, tanto affini al presente di artisti quali The Weeknd—lasciateci l’eresia—, quanto capaci di slanci fuori da ogni tempo, benché sempre eleganti, fragili, bellissime. E proprio questo inevitabile paragone con The Weeknd merita un appunto e la necessità di sottolineare—a riprova della bravura di CoCo—che la “somiglianza” estetica tra i due, nell’uso dei synth, delle batterie e di quel sound “anni Ottanta”, è il semplice frutto di una sensibilità condivisa sotto il profilo melodico e sonoro. Un inconscio collettivo in comune e da cui attingere, in sostanza.

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“Come sappiamo ormai da sempre Napoli è un pianeta a parte, una città che vive di vita propria sotto tanti punti di vista, soprattutto artisticamente. A Napoli abbiamo il nostro mercato, il nostro business e persino i nostri generi musicali e penso che valga almeno in parte persino per la scena rap.”

Il risultato di tutto questo è un oggetto musicale molto, molto personale, a cavallo tra rap e pop, funk cosmico e rallentato, r’n’b modernissimo e sensibilità da malinconica canzone d’autore. “La cosa bizzarra è alcuni mi hanno detto che in questo disco si sentono sentimenti del tutto opposti. Eppure capisco il tuo discorso. La malinconia è qualcosa che fa e farà sempre parte di me, come un motore. Ammetto che alle volte mi piace proprio crogiolarmici e sento l’esigenza di stare da solo, pensare, riflettere, portarmi verso una gamma di emozioni particolari. Cosa che vale ancora di più, chiaramente, per quest’annata così difficile, fatta di vuoti, paure e incertezze.”

Quel tipo d’incertezza che però non può scalfire nemmeno per un secondo l’amore granitico per l’eredità dei Co’ Sang e l’amicizia con Luché. Un uragano che, proprio come la marea di influenze di Londra, ha impattato profondamente sulla vita di Corrado: “A Londra ho veramente chiuso i ponti con tutto quello che c'era prima e mi sono fatto avvolgere da nuove sensazioni, mood e influenze. E non a caso è un’esperienza che ho fatto proprio con Luca, che per me è praticamente un fratello; abbiamo un rapporto indissolubile. Io ero fan dei Co’ Sang, totalmente folgorato da loro, sono stati i primi ad aprirmi una finestra sul mondo, la prima vera realtà internazionale partita dall’Italia. Li ho scoperti vedendoli dal vivo e ne rimasi sconvolto.”

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CoCo _ Eredità.jpg

Sconvolto in maniera letterale, visto che l’amore lo portò ad acquistare direttamente da Luché due o tre pacchi di dischi dei Co’ Sang, prima di lanciarsi in un esagitato tentativo di conversione dei suoi compagni di scuola, a botte di dischi regalati nei corridoi, come promoter figlio soltanto d’amore. “Sono passato da essere un vero fan a considerare Luca il mio miglior amico. Una guida sotto tantissimi punti di vista. E ovviamente un’ispirazione.”

Mentre me lo racconta, resto colpito dalla sincerità delle sue dichiarazioni, nonché dalla complessità dei ragionamenti e delle emozioni che sono celate nelle sue parole. È davvero il riflesso dell’uomo e dell’artista, lo stesso identico approccio che troviamo nelle canzoni e che gli permette di ammettere con altrettanta scioltezza quanto Floridiana sia parte di un discorso più grande, di una ricerca ancora in fieri: “Ad essere onesto, faccio fatica a considerarlo un vero e proprio disco ufficiale, è nato in maniera strana rispetto a come lavoro di solito. Ovviamente la pandemia e il lockdown ci hanno messo del loro.”

“Ho lavorato in maniera un po’ più spensierata del solito,” continua, “senza obiettivi, traguardi o aspirazioni particolari. Nella mia testa sarà sempre un side project, un ponte per il secondo disco ‘ufficiale’. Chiaramente ci sono sempre dentro io, al cento per cento, però  rispetto ad Acquario c'è stata meno riflessione. Ci ho lavorato con più leggerezza e più per il gusto di lavorare a qualcosa. Potrebbe essere un'ottima soluzione, certo, ma se non sento quella ‘lotta’ interna che ho di solito quando lavoro alla mia musica, faccio fatica a considerarlo del tutto ok.” Perché una cosa è chiara: le dolci e sublimi musiche che Coco ha prodotto sino ad oggi sono solo una parte del suo suono, un traguardo provvisorio alla ricerca delle prossime dimensioni. Una ricerca di cui non vediamo l’ora di ascoltare il frutto.

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