Perché la colonna sonora di Shadow Of The Colossus è ancora un capolavoro?

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Musica

Perché la colonna sonora di Shadow Of The Colossus è ancora un capolavoro?

Quando sconfiggi un boss finale i videogiochi tendono a premiarti con musica allegra e fanfare, la colonna sonora di Shadow Of The Colossus invece cerca di farti sentire in colpa.

Un ragazzino dalla lunga chioma e il suo cavallo dalla testa china attraversano una pianura costellata dai ruderi di una civiltà perduta. Scroscia la pioggia, ma la tempesta è nelle fasi finali e il sole pallido filtra tra le nuvole. Sul protagonista e il compagno a quattro zampe imperversa un’epica musica orchestrale, di quelle che rivelano l’incipit di un’avventura d’altri tempi. Il videogiocatore del 2005, pad alla mano e sguardo inebetito verso il televisore, sta ascoltando "Prologue – to the Ancient Land", un brano nel quale risaltano oboe, flauti, clarinetti e strumenti a corda. Un paragone può essere la musica composta dal compositore greco Basil Poledouris per Conan il Barbaro di Milius, ma meno epica e più sognante. La gloriosa melodia si interrompe in sincronia con la pioggia. Il piccolo guerriero è giunto alla fine del viaggio, solo per poterne cominciare uno nuovo, e attraversa il lungo ponte che conduce all'entrata di un edificio antichissimo.

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Tra le software house che hanno saputo lasciare un segno nella leggendaria sesta era delle console—la generazione della Playstation 2, GameCube e del tanto compianto Dreamcast, quella che forse ha saputo portare il medium videoludico in terre allora sconosciute nel campo del game design, trama e impatto artistico—c’è sicuramente il Team Ico. Fumito Ueda nasce nel 1970 a Tatsuno, una cittadina nel Sud del Giappone famosa nel mondo automobilistico per un motivo terribilmente noioso: le pompe carburante. Per forza di cose Ueda se ne va a Osaka per studiare arte all'università, dove apprende gli strumenti che gli permetteranno di far deflagrare il genio che gli gironzolava per la testa. Uso il termine "genio" perché mi sembra l'unico adatto per definire una persona che è riuscita a coniugare la passione infantile per Doraemon, le matite di Katsuhiro Otomo e i dipinti di Giorgio de Chirico, rielaborandoli in una personale e innovativa concezione del videogioco.

Il nome di Ueda fa il giro del mondo con ICO, uscito nel 2001. Più che un groviglio di algoritmi, texture e suoni sorpassati, ICO è ancora oggi una fiaba, o un sogno ad occhi aperti: forse, incapace di invecchiare proprio per questo. È la storia di un bambino, Ico appunto, destinato al sacrificio e fatto rinchiudere da un ordine religioso in un castello infestato da lunghe ombre affamate. Probabilmente Ico è maledetto a sua volta—chissà che cosa significano quelle corna mefistofeliche che gli escono dalla testolina, motivo probabile del suo sacrificio forzato. Ico fortuitamente si libera da quella che sarebbe dovuta essere la sua tomba, e tocca al videogiocatore guidarlo fuori dal castello. Fin da subito facciamo conoscenza di Yorda, una ragazzina che dal proprio corpo una luce potente (magia bianca?), come fosse una fata o un angelo, in forte contrasto con il buio deprimente delle atmosfere circostanti. Il gioco costringe così il giocatore a dover guidare non solo Ico, ma in parte la stessa Yorda, tramite semplici indicazioni.

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Quattro anni dopo è il momento di Shadow of the Colossus, fiabesco quanto il predecessore e con il quale condivide una linea narrativa, al punto tale da potersi considerare un prequel di ICO.

Quando avviene il salto verso la settima generazione cominciano a duplicarsi i casi di edizioni rimasterizzato più o meno necessarie. Nel 2011, con la settima generazione di console agli sgoccioli, fa capolino su PS3 una collezione in alta risoluzione dei due giochi di Ueda. Sappiamo cosa sta succedendo al mercato videoludico in questi anni, ormai afflitto da una potente retromania che le aziende non hanno per ovvi motivi nessuna intenzione di sgonfiare (nel caso siate interessati all’argomento, ne parlo qui). Bisogna quindi saper discernere tra l'utile e il mero ultracapitalismo. Shadow of the Colossus aveva bisogno di un remake? Nì. Il gioco è un capolavoro così com’è, anche nello splendore a 128 bit del primo software, ma d’altronde la curiosità di ri-goderselo con le potenzialità di un salto di due generazioni di hardware è tanta.

La storyline di Shadow of the Colossus è lineare quanto intrisa di segreti e motivi di speculazioni. Il protagonista è Wander, ragazzino viandante mosso da un urgente obiettivo: riportare in vita una persona. Il Dormin, inquietante figura spiritica, arriva con un suggerimento: distruggere i sedici idoli del Sacrario del Culto, incarnazioni che abitano una terra leggendaria e melliflua, all'intersezione tra passato e futuro, reale e irreale. Ad ogni colosso distrutto, linee nere fatte di formule magiche sulla reincarnazione accumulano il mana necessario per il miracolo (o maledizione) della risurrezione. Gli idoli sono immensi colossi, alti centinaia di metri, apparentemente irresistibili se non fosse per dei punti deboli che, una volta colpiti con una spada leggendaria, vengono feriti a morte.

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La musica di ICO era stata composta da un trio guidato da Michiru Oshima. Erano musiche bellissime, capaci di essere inquietanti, malinconiche, perturbanti e difficili da definire: c'erano folk, noise, momenti minimalisti e mandolini dal sapore medievale. Come in ICO le indicazioni di Ueda per Shadow of the Colossus si sono indirizzate verso musiche etniche, ma che non fossero legate a luoghi e tradizioni precise: una sorta di world music suonata da un'orchestra classica. Ai tempi Kow Otani, autore della colonna sonora di Shadow, ha già collaborato su di qualche videogioco, niente di memorabile. Il grosso del suo curriculum parla la lingua degli anime: City Hunter e Mobile Suit Gundam Wing, tanto per dirne un paio.

Otani compie un passo avanti rispetto al trio di Oshima. Non a livello di qualità dei brani, ma di spessore: ma chi ha giocato le avventure di Wander sa che le musiche, nel gioco, hanno un valore interattivo e si posizionano su un piano di immersività. È quella tecnica che viene definita come Adaptive (o Dynamic) Music, per cui la musica e/o gli effetti sonori mutano coerentemente agli eventi che succedono in un videogioco. È una cosa vecchia quanto il medium o quasi: sono stati i videogiochi della LucasArts circa trent’anni fa a perfezionare la tecnica, per poi negli anni maturare ed esplodere nei casi della colonna sonora procedurale scritta anche da Brian Eno in Spore, o in Red Dead Redemtpion, che utilizza la tecnica della vertical re-orchestration per modificare le parti di un brano in base alle azioni.

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In Shadow la musica guida il videogiocatore a livello di trama e lo fa sfruttando le emozioni provocate dai brani. Lo si capisce fin da subito eliminando il primo colosso, Valus. "The Opened Way" è il pezzo che si ascolta già nel primo duello: è il tipico brano epico fatto di decine di violini e tamburi militareschi. Quando il colpo mortale viene inflitto sulla capoccia del povero Valus la cavalcata musicale si interrompe. Passano nemmeno due secondi di silenzio, uno stridio e l’entrata di una musica atipica e spiazzante ci introduce al post-battaglia. Dico "atipica" perché da sempre i videogiochi giapponesi, a partire da Final Fantasy (ma probabilmente da prima) ci hanno insegnato che la soddisfazione del vincere uno scontro sta anche nel godersi la fanfara che risolve a livello musicale i picchi di tensione del brano che la precede. Lo stesso Otani ne parla in questa intervista. Il pezzo che accompagna la morte di Valus si intitola "Resurrection", ed è un requiem con tanto di cori che sembrano usciti da un lontano natale parigino. Simile nelle atmosfere è "The End of the Battle", che si farà sentire più volte, un brano dai toni sacri, una melodia che sussurra emozioni profonde, un pezzo sulla transizione dalla vita alla morte e viceversa.

Shadow è un gioco quasi interamente fatto di momenti esplorativi durante i quali le musiche si fanno da parte e la veste sonora è dominata dai suoni. Il mondo proibito è tutto da esplorare e, a suo modo, parla tramite i rumori della natura. Il rumore dell’acqua che scorre tra gli anfratti, il vento che erode le valli, i richiami degli uccelli dimostrano una cura maniacale per i suoni d'ambiente e la costruzione di un sottofondo sonoro alle vicende di Wander. L’esigenza di Ueda è quella di far immergere la persona, pad alla mano, negli anfratti mitici e mistici della terra dei titani. I suoni ambientali fanno da amalgama, tenendo la colonna sonora unita, come intermezzi ambient infilati in un album orchestrale.

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In vista del remake del gioco, Otani è tornato al lavoro donando nuova profondità e sostanza alla colonna sonora con l'aggiunta di esecutori e archi. Una scusa in più per riprendere in mano uno dei giochi più importanti di sempre in una nuova veste grafica. Per i fanatici e i collezionisti la soundtrack oggi è acquistabile in doppio LP, con tanto di artwork di Nimit Malavia.

Diego è su Twitter: @Dieg8_6.

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