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Musica

Com'è avere una band quando sei in carcere

È dura trovare la strumentazione e i partner giusti per fare musica, ma i The Institution ci sono riusciti.

Illustrazione di Dessie Jackson

Fare il musicista in prigione non è così romantico come sembra. Ok, Gucci Mane ha trovato il modo di far uscire gran parte dei suoi migliori lavori mentre era al fresco, ma per detenuti normali è alquanto difficile fare musica, specialmente se hai una band.

Tanto per cominciare, la strumentazione non è delle migliori—non che ci si aspettasse di avere a disposizione il miglior studio di registrazione di sempre, né di essere circondati da gente con più di venticinque anni di condanna con in braccio una chitarra che intonano "Stairway in Heaven." Generalmente, gli amplificatori fanno schifo—ma questo dettaglio emerge solo quando per le fredde celle del carcere passano musicisti che hanno voglia di comporre musica e fare jam, cosa che, come immaginate, non è così scontata. In più, nonostante spesso esista uno spazio adibito alle prove, bisogna considerare che molti residenti rimangono lo stesso poco amanti delle cover marce dei Black Sabbath, quindi buona fortuna.

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Anche se la prigione sembra il posto meno adatto per antonomasia a ispirare la mente umana alla produzione di arte anti-autoritaria, mettere su una band in queste condizioni è un processo più unico che raro. A fine anni Duemila, mi hanno chiuso nel penitenziario Loretto, in Pennsylvania, dove ho conosciuto tre musicisti che si sono rivelati le eccezioni alla regola di cui sopra.

Il cantante/chitarrista Jason Scott, il batterista Pete Markovina, e il bassista Johnny Dunlop sono un trio rock chiamatoa The Institution. Si sono conosciuti quando erano tutti ancora dentro per casini con droga, ma la band che hanno formato è sopravvissuta ben oltre le sbarre di quel carcere. Si descrivono "melodic e progressive rock," sulla scia di Deftones o Soundgarden, i The Institution hanno registrato dozzine di canzoni nel pieno ventre della bestia, usando un registratore VHS per buttare giù dei demo.

Nei primi cinque anni dopo il loro rilascio da Loretto, la band ha fatto oltre trecento concerti, si è autoprodotta un full-length contenente materiale composto in prigione, e al momento sta ultimando un EP acustico e un secondo LP in uno studio vero.

Ho parlato con il leader, Jason Scott e il batterista Pete Markovina su Skype. Mi hanno raccontato com'è formare una band quando sei in cella, come la reclusione influenza il processo creativo, e come hanno fatto a portare avanti il progetto anche al di fuori del carcere.

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Noisey: Quando avete formato la band avete mai immaginato che sarebbe durata ben oltre gli anni di detenzione?
Jason Scott: Sono tornato a casa a fine 2008 e la band esisteva da tre anni. Abbiamo iniziato a parlare di tenerla su già nel 2006. È sempre stato nei nostri piani: "Un giorno usciremo e faremo questo sul serio." Abbiamo solo rispettato la scaletta ed eseguito quanto avevamo deciso. Pete è uscito nel 2010 e John nel 2011. Si è trasferito subito a San Francisco, dove abitavo. Pete era già lì. Il mondo reale ha colpito molto John, il nostro bassista, con una violenza così inaudita che si è perso per un paio di anni. Ma poi è tornato più forte che mai.

Pete Markovina: All'inizio, non riuscivamo a credere che, con l'uscita di Jason, io e John avremmo dovuto abbandonare quel microcosmo che avevamo messo su nell'orribile contesto carcerario in cui ci eravamo trovati per tutti quegli anni. Ma dopo cinque anni siamo tutti usciti e siamo ancora qui.

Quanto ha influito questo diversivo nella vostra esperienza di reclusione? L'ha resa migliore o peggiore?

Jason: Lavorare a materiale nuovo, inedito, è stato ciò che ci ha tenuti in vita mentre tutti gli altri nel tempo libero giocavano a carte, o comunque cercavano di sopravvivere come potevano. La musica ci ha tenuti concentrati e attivi. Era quasi come essere liberi.

Pete: È ciò che si ottiene quando si decide di utilizzare il tempo in prigione in qualcosa che non sia guardare la TV, avere un lavoretto nel weekend, o cazzeggiare. Tutto questo è stato fondamentale per il risultato finale. Amavamo quello che stavamo facendo e ce la mettevamo tutta per riuscire a provare, ogni settimana. Jason è diventato un maestro della chitarra, avrà fatto qualcosa tipo diecimila ore di prove da solo. Conosce tutte le note, gli accordi, le strutture, e la teoria che c'è dietro. Il carcere può darti anche questo; ti fornisce tempo illimitato per fare pratica.

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Hegemony, il vostro primo full-length, contiene tutte canzoni scritte e composte in carcere, giusto?
Jason: Tutte tranne una. Le abbiamo scritte quando ancora eravamo chiusi a Loretto. Pete lavorava in biblioteca e aveva accesso a un registratore VHS. Se la portava giù in sala prove durante il giorno e noi potevamo registrarci i demo. Poi Pete trasferiva quelle registrazioni sui DVD forniti sempre dalla biblioteca, e da lì riuscivamo a upparle sui computer e metterle su Myspace. La nostra musica, registrata illegalmente nell'istituto, era così diffusa nell'etere.

Pete: Siamo usciti da Loretto con circa quarantadue canzoni complete. Le chiamiamo le "Loretto Sessions", tra di noi. Erano delle mine. Non avevamo altro modo di registrare se non con i VHS, perciò la qualità è poverissima. Una volta trasferito tutto sui DVD ce le siamo ascoltate, e devo dire che nonostante gli stridii e i suonacci da due soldi, spaccavano.

Siete mai stati redarguiti o puniti per aver formato una band in prigione?
Jason: No, mai. L'unico casino è stato quando abbiamo fatto la cover di "Killing in the Name" dei Rage Against the Machine. Stavo cantando la parte che fa "Fuck you, I won't do what you tell me," e questo poliziotto addetto alla sorveglianza è sceso da noi e ci ha intimato di smettere, gridando come un pazzo.

Com'è cambiato il processo di composizione della musica, ora che siete fuori?
Jason: È più dura adesso, perché dobbiamo stare in piedi da soli. Ci sono milioni di cose da fare e il giorno dopo anche di più.

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Pete: La grande differenza è che quando eravamo dentro, avevamo tutto programmato, tutto già prestabilito. Avevamo i nostri giorni di prova individuale, e quelli collettivi come band. Comporre era molto più facile e continuativo in prigione perché Jason si trovava in questo incredibile flusso creativo che gli permetteva di uscirsene con riff e melodie sempre nuove, a cui si dedicava ininterrottamente. Lui e John erano davvero in grado di fare capolavori e, riassemblando insieme il materiale, tutto funzionava meglio.

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La lineup.

Conoscete altre band che come voi si sono formate in prigione?
Jason Scott: Una cosa che forse ci ha contraddistinto da subito è che abbiamo suonato sempre e solo noi. Molti in carcere si creano gruppetti eterogenei di persone che suonano, ma non si tratta di band appunto. Non ho sentito di altri che come noi si sono messi insieme con lo spirito da band, per ora. Quando siamo usciti, l'ultima cosa che volevamo era far sapere da dove provenivamo. Non volevamo farci conoscere come la band di prigione, ed essere così stigmatizzati a vita, a prescindere da cosa suonassimo. Adesso ci va di dirlo in giro perché crediamo che riflette un po' chi siamo. Il tempo ci ha permesso di riabbracciare la nostra storia in un modo mai visto fino ad ora, visto che ormai abbiamo i piedi ben saldi per terra e stiamo spaccando.

Per ascoltare e ordinare il primo LP dei The Institution, Hegemony, visita il loro sito o ascoltalo in streaming su Spotify.