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Musica

Spazi di comunione: Space Electronic

A Firenze negli anni sessanta è atterrata un'astronave in pieno centro storico, si chiamava Space Electronic, ed era opera dell'architettura radicale del Gruppo 9999.
Sonia Garcia
Milan, IT

Canned Heat in concerto allo Space Electronic.

Negli anni in cui abitavo in Toscana, Firenze per me non è mai stata la città di riferimento, pur stando a un’ora di treno/macchina di distanza. Le volte in cui ci capitavo la sera, era per concerti o capodanni assolutamente insignificanti, e solo di recente, cioè da anziana, ho avuto modo di cogliere gli stimoli della città con un minimo di coscienza critica. Tradotto, conosco ancora pochissimo Firenze, ma ultimamente almeno sono cosciente di alcune realtà più o meno legate ai miei campi d’interesse che vadano oltre l’approccio da turista. E se ne parlo in questa rubrica è perché anche Firenze è stata la culla di intensi focolai creativi multidirezionali, che coinvolgevano—e sconquassavano—il concetto di arte, ma soprattutto di architettura. Ho maturato un’intolleranza al termine “avanguardia” che probabilmente è solo ridicola, ma l’humus che a fine anni Sessanta si andava formando in città, riguardava trasversalmente tutta la produzione artistica che fosse un minimo lungimirante e aggiornata, rispetto alle tendenze del momento, irrigidite agli stigmi storici a cui la città era ancorata. "Se venivi da una famiglia borghese benpensante e ti interessavi di culture alternative," mi spiega Marco Ornella, autore del libro 9999. An Alternative to One-Way Architecture, "serviva un posto dove aggiornarsi sulle novità del mondo, visto che la città tutt’intorno ne era l’esatta antitesi. Il rinascimento, il turista americano e l’Italia bigotta stavano stretti eccome."

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Lo spazio di comunione in questione si differenzia radicalmente da quelli fino ad ora trattati per lo stretto legame con l'architettura e la nuova etica progettuale a cui deve la sua stessa origine. L'architettura radicale è stato un ceffone in faccia alla mediocrità strategica a cui Firenze faceva ipocritamente riferimento in tutto il decennio dei Sessanta, e di cui il progresso economico era motore. Space Electronic è il nome della prima discoteca di Firenze ad aver assimilato, metabolizzato e provato a diffondere incarnazioni di arte prima di allora autoreferenziali e perciò pragmatiche. "Discoteca" è un termine che naturalmente va interpretato con la dovuta declinazione temporale, e associato quindi a quei nuovi input musicali a cui le nuove generazioni si stavano affacciando. "Tommaso Trini, un fondamentale critico e storico dell'arte che scrive per Domus," va avanti Marco, "usa il termine 'divertimentificio,' che ha senso perché si trattava di veri e propri contenitori, in cui l’architetto andava e riversava liberamente qualsiasi tipo di contenuto artistico. Luce, suono, materia." Abbiamo deciso di ripercorrere la storia di Space Electronic a partire dalle testimonianze di Marco e di Carlo Caldini, uno degli architetti ad averla concepita e realizzata—anche a mano—assieme al Gruppo 9999, di cui è stato membro fondatore. "L’architettura monumentale era morta, e si era trasformata in architettura intesa come serie di stimoli dati da uno spazio, che andava ricreato da zero."

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L'ARCHITETTURA È MORTA: GRUPPO 9999

"Il movimento radicale nasce negli anni Sessanta, perché a un certo punto gli studenti di architettura fiorentini, ma anche qualcuno di Milano, come Ugo La Pietra, o Torino, De Rossi, si trovano a fare lezione in pieno boom di culture underground legate alla musica, alla pittura, e soprattutto ai nuovi media. Le comunicazioni si accorciano, diventano immediate, e questi studenti si trovano a studiare l’architettura con un metodo analitico di vecchissima concezione, legate alla monumentalità e a un modo di vivere la metodologia progettuale molto vecchio, completamente scollegato al mondo moderno, che invece era ultrarapido. Gli studenti reagiscono ribellandosi, e dichiarando la morte dell’architettura, il fallimento del movimento moderno. La libertà di una persona non è calcolabile in metri quadri, quindi bisognava ripensare all’essenza stessa dell’architettura, al suo ruolo sociale, e alla figura dell’architetto. Soprattutto andava rivisto il linguaggio delle forme. Siamo nel ‘64, quindi gli anni di fuoco di occupazioni, proteste etc. Quello che succede a Firenze, che poi, per buona pace di tutto il resto d’Italia, è il centro principale del movimento dell’architettura radicale, tutti i gruppi di studenti come Archizoom, Superstudio, gli Ufo—quelli più politici, e legati alla protesta in piazza—i 9999 e gli Ziggurrat, si conoscono tutti tra loro in università e, grazie a due professori, Leonardo Ricci e Leonardo Savioli, riescono a esprimere questo loro desiderio di riformulare il linguaggio architettonico." [Marco Ornella] Gruppo 9999, proiezioni sul Ponte Vecchio, Firenze 1968, Courtesy Carlo Caldini

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Il Gruppo 9999 era costituito da quattro studenti di architettura fiorentini: Giorgio Birelli, Carlo Caldini, Fabrizio Fiumi e Paolo Galli, che nel contesto appena descritto hanno iniziato a proporre idee alternative allo standard d'insegnamento ancora prima di possedere una laurea. A distinguerli dai restanti radicali era l'approccio multiforme ed apolitico—anche se in sé, la stessa loro esistenza rappresentava un gesto estremamente politico—alle forme di architettura, che andavano riconsiderate a partire dal linguaggio. Gli Ufo realizzavano strutture gonfiabili da lanciare in piazza in protesta alla polizia ed elevava la figura dell'architetto a guida per le masse, Archizoom era costituito da studenti suggestionati da Archigram, e dalle provocazioni architettonico-urbanistiche in risposta al materialismo e capitalismo alle origini del "progresso", ma a livello pratico tutti erano costretti a compromessi col mercato. "Le attività pratiche erano le solite di studio," va avanti Ornella, "produzione di oggetti e vendita a quella stessa borghesia che loro contestavano. Tutti dovevano un po’ scendere a patti con mercato. I 9999 invece no. A loro non interessava il piano politico né il coinvolgimento attivo delle masse, ma la loro propria indipendenza e libertà di azione privata dei vincoli dettati dal mercato. Perciò la figura della discoteca fa presto a diventare archetipo di questa libertà; un luogo in cui poter fare i loro discorsi e discussioni sull’architettura, senza dipendere da nessuno. La discoteca diventa quindi lo spazio effettivo in cui materializzare le utopie, qualsiasi esse fossero."

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SUGGESTIONI, PIPER ED ELECTRIC CIRCUS

"Il professor Savioli teneva un corso chiamato 'Lo spazio del coinvolgimento', che cioè si occupava della progettazione del cosiddetto Piper, luogo di intrattenimento e unione ad utenza giovanile. Ne esisteva già uno, a Roma, e non era propriamente una discoteca, ma un punto di ritrovo per giovani dove ballare, assistere a mostre/spettacoli, fare teatro, etc. I progetti che ne vengono fuori erano tutti molto utopici, ma era evidente che gli studenti utilizzavano linguaggi nuovi, quali la pop art ad esempio, che rendeva questi spazi “consumabili.” Era un’architettura 'aggiornata, l'unica forse per quegli anni'" [Marco Ornella]

In città a mancare erano proprio quei luoghi consumabili che gli studenti, tra cui i 99, avevano progettato. Non tanto spazi indirizzati ai turisti, quanto agli abitanti, a chi riponeva fiducia in un aggiornamento urbanistico che andasse di pari passo con le tecnologie. "La storia della nascita dello Space Electronic però," specifica Caldini, "ha pochi punti di contatto con l'episodio in sé del corso di Savioli, o comunque ne ha pochi rispetto all’esperienza che alcuni di noi hanno sviluppato negli anni ‘67-’68. Il gruppo era già formato e operava con alcuni componenti non ancora laureati. Io mi sono laureato nel dicembre del ‘67, con una tesi condotta insieme a Mario Preti e Walter Natali, sulla progettazione del nuovo campus universitario di Firenze. Assieme a Mario Preti siamo stati coinvolti in un programma di ricerca che ci ha portati negli Stati Uniti per otto mesi, grazie a finanziamenti esterni, per fare studi accurati su quelli che erano i nuovi campus universitari che venivano costruiti in America in quel momento." [Carlo Caldini]

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Tra le tappe di Caldini c'è anche New York, e tutta l'ecletticità di cui pulsava in quella seconda metà di anni Sessanta."Siamo stati quattro giorni nello studio di Paul Rudolph," continua, "che ai tempi aveva già costruito la nuova facoltà di architettura alla Yale University, vari college a Boston, e molto altro. Una sera ci invita a cena a casa sua, in cui vivevano un'architetto indiano e la fotografa Cecilia Moholy-Nagy, vedova di Laszlo Moholy-Nagy. Eravamo giovanissimi in quegli anni e avevamo già visitato il Village, e avevamo avuto contatti con le culture di avanguardia e underground, e quella sera, mentre ne parlavamo, Paul Rudolph ci segnala l’esistenza di un nuovo locale che secondo lui era interessante. Questo locale si chiamava Electric Circus."

Electric Circus

La visita al locale è immediata e Caldini ne rimane folgorato. "Era costruito in un centro culturale polacco trasformato in discoteca. Io e Mario, accompagnato da sua moglie, decidiamo di andare. Una volta arrivati si entrava dentro questo ambiente, si sale la scala al primo piano e troviamo una saletta dove facevano proiezioni e da lì a un altro ambiente. Per me fu un’esperienza scioccante, perché c’era coinvolgimento totale di musica, immagini e azioni. Era eccezionale, perché comprendeva i cosiddetti live show, che includevano proiezioni di liquidi colorati, diapositive, tutto sovrapposto su schermi. C’era una compresenza totale di sensazioni visive e sonore, tra quelle pareti. Rimasi affascinato da questo, e cercai in ogni modo di capire come venisse fatto. Riuscii a entrare nei terrazzini dove i giovani lavoravano con i proiettori di diapositive e film, lavagne luminose etc, e a rendermi conto di come operavano. L’art director del posto era Andy Warhol e al suo interno ci suonavano i Velvet Underground… Fu così importante per me, che ne parlai con Fabrizio Fiumi, un altro membro del Gruppo 9999, ma che in quel momento si trovava a Los Angeles. Siamo andati via da lì con in testa il tarlo di voler fare qualcosa del genere anche a Firenze."

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Nella primavera-estate del ‘68, al loro ritorno, i ragazzi hanno subito iniziato a pensare a come concretizzare quelle intuizioni. "Avevo un amico barman, Mario Bolognesi, e insieme abbiamo cominciato a comprare l’attrezzatura, i proiettori, le pellicole, e tutte le attrezzature che ritenevamo appropriate al caso, niente di troppo tecnologico ovviamente. Quello che volevamo realizzare era un 'multimedia environment', come veniva definito allora, cioè un ambiente multimediale con varie componenti che partecipassero al gioco collettivo riversato nello spazio, in grado di provocare suggestioni diverse ma complementari tra loro."

Non erano i soli a riporre fiducia nella neonata figura della discoteca. "Tutti ai tempi ne hanno progettato una," riprende Ornella, "gli Ufo un ristorante eclettico, kitsch, Ugo La Pietra una discoteca chiamata Bang Bang a Milano, etc. Ai tempi la discoteca era davvero la forma architettonica più avanzata, perché utilizzava i media, la musica, e lo spazio non era quello della balera—fino ad allora c'era solo quella. La discoteca di Superstudio era un semplice locale, alla fine. Le più importanti sono quella di De Rossi, quella dei 9999 e ovviamente il Piper di Roma, perché si faceva anche teatro. Lo Space Electronic però va oltre tutto questo. Non era solo uno spazio dove fare cultura, era qualcosa di diverso: uno spazio in cui attuare le proprie teorie sull’architettura, per sopravvivere e rendersi indipendenti dal mercato."

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SPACE ELECTRONIC, UN'ASTRONAVE IN CENTRO A FIRENZE

"Finalmente nell’ottobre del 1968 troviamo questo locale nel centro di Firenze, che era un’officina meccanica abbandonata dopo l’alluvione. Era piena di fango e detriti, così iniziamo a pulirla. Allora il Gruppo 99 era allargato, ed eravamo in sei circa. Collaboravamo con altri amici, e insieme abbiamo trasformato questo spazio, modificandolo di mano nostra e progettando di volta in volta gli elementi che lo costituivano. Ad esempio un grande ponte che attraversava tutto lo spazio, molto alto, su cui venivano collocate tutte le attrezzature per fare le proiezioni. Poi abbiamo costruito vari palchi su cui si mettevano a suonare le band, e ogni sera ce ne erano almeno sei o sette che si esibivano per mezz’ora circa. Il nostro era un locale vero e proprio, che subiva continuamente trasformazioni ad opera nostra. A volte ci mettevamo dei gonfiabili, a volte inserivamo degli elementi modulari nelle pareti, insomme nell’environment variavamo sempre qualcosa. L’arredamento era molto semplice e spartano, noi andavamo solo ad aggiungerci qualche elemento di distacco." [Carlo Caldini]

Se negli anni Sessanta tutti cercavano di fondere arte e vita, i 9999 si può dire ci siano riusciti appieno, perché funzionavano comunque come una vera e propria comunità. Avevano uno studio sulle colline di Marignolle, dove facevano le loro proiezioni—quelli che ora sono i visual—in cui facevano coesistere natura e sperimentazione, e poi avevano la realtà della discoteca. "Secondo me è interessante che ai tempi, non esistendo tecnologia sufficiente a dare atmosfera agli ambienti," spiega Ornella, "loro se la siano autocostruita con un proiettore da diapositive e oggetti a caso trovati in giro, tipo pezzi di motore messi sopra lavagne luminose, etc. Mi diceva Carlo che hanno inventato un nuovo tipo di tastiera, dieci tasti per dieci dita, con cui creavano luci ad intermittenza. Questi effetti sonori e visivi, nel complesso avevano reso lo Space Electronic un’”astronave”, come la definisce Bruno Casini nel suo libro. Un’astronave nel centro di Firenze."

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Dal punto di vista musicale lo Space diventa rapidamente IL punto di riferimento per l'intera città. "Specialmente per i giovanissimi," spiega Caldini, "quelli che si riunivano nelle cantine per provare a suonare per gioco, seguendo il filone dei Deep Purple, così come quello di Jimi Hendrix. Molti di questi gruppi ci contattavano per chiederci di suonare, e noi al posto di farli suonare sul posto o di farci spedire una qualche registrazione, rispondevamo “Venite domani, piazzate gli strumenti su questa pedana, e suonate da quest’ora a quest’ora.” La dimostrazione dal vivo con la gente era fondamentale. Molti dei musicisti fiorentini che poi hanno intrapreso percorsi di successo, hanno esordito allo Space così, a sedici, diciassette anni."

"È stato un esperimento condotto da noi come gruppo 9999," va avanti, "anche se nella società che poi si è costituita per realizzare questo spazio, c’eravamo solo io e Fabrizio Fiumi. Mentre Mario Bolognesi si occupava più della parte imprenditoriale e commerciale, noi pensavamo a tutto il resto, come ad esempio la programmazione musicale, i concerti importanti, come quello dei Canned Heat, e un’infinità di altri nomi. Io e Fabrizio poi eravamo soliti andare a Londra periodicamente, visitare locali in cui si esibivano nuovi gruppi inglesi e scritturarli. Abbiamo visto i Genesis in un posto chiamato Grey Hund, quando ancora non erano famosi. Anche i Queen avevamo scritturato, ma non sono venuti alla fine. Abbiamo fatto un contratto con la loro casa discografica quando ancora non avevano sfondato, poi però la loro fama è cresciuta a dismisura in pochissimo tempo e non sono più venuti. Andavamo là e sceglievamo i gruppi da far suonare. Non potevamo spendere più di una certa cifra, ma senza dubbio eravamo noi i primi ad essere appassionati di musica."

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Architetti-manager

Dallo Space Electronic è passata tutta la contemporaneità musicale dell’epoca, e stando a quanto raccontato fino a ora, erano gli stessi architetti ad essere sul pezzo in quanto a novità musicali. Si prendevano carico della gestione in toto del locale, ed erano molto attenti alla contemporaneità. "Nel mio libro uso il termine 'architetto manager' proprio per questo," spiega Ornella. "In quel periodo Carlo e Fabrizio hanno inventato una nuova figura di architetto, che si differenziava da quello iperpoliticizzato, o da quello teorico, o artista. Erano dei manager, ovvero gestivano queste discoteche e l’attività culturale/ludica al loro interno, esattamente come uomini di affari. Non facevano soltanto fotomontaggi fini a se stessi, ma il loro fine ultimo era dare vita a un’architettura che fosse performativa, totalizzante." Il risultato è stato che Van Der Graaf Generator, Atomic Rooster, Canned Heat, Quintessence, Area, Nucleus, Rory Gallagher sono alcuni tra i nomi annoverati dallo Space nel corso degli anni in cui ha impiantato a Firenze il germe dell'innovazione, e di cui la città ha saputo—siamo ottimisti—fare tesoro.

ANNI SETTANTA, S-SPACE E SUCCESSIVA DECADENZA

La musica dal vivo era l'attrazione principale dello Space, ma col tempo al suo interno si concretizzeranno altre realtà ancora, come il teatro, e l'arte performativa della scuola di Pierre Cardin, e la sperimentazione architettonica teorizzata dagli incontri S-Space, già negli anni Settanta.

"In occasione della S-Space abbiamo realizzato al piano inferiore una specie di lago, con pesci, verde intorno, e un attraversamento in pietra," racconta . Al piano superiore c’era un orto, con ortaggi veri, ed è stato il modello ufficiale di quello che poi nel ‘72 verrà presentato al Museo di Arte Moderna come progetto della casa-orto. Questo riguarda l’evoluzione degli ultimi anni del Gruppo 9999, molto più vicino a tematiche ambientali e al rapporto con la natura. Si arriva a progettare una casa-orto, al cui interno ognuno produce e coltiva ortaggi, grazie a una tecnologia che allora non c’era, ma che oggi c’è, per esempio. Nel nostro caso la gente ballava su una pedana con a fianco cavoli, insalata, sedani, e quant’altro. Nel progetto questo sarà il living room della casa."

In generale però più ci si allontana dagli anni Sessanta, più la spinta innovativa si riduce. "Il gruppo si è separato nel ‘73," riprende Ornella, "e pian piano lo Space è diventato sempre meno un luogo di sperimentazione, e sempre più un locale commerciale. L’hanno trasformato in una specie di lunapark; se all’inizio le proiezioni luminose e i cestelli delle lavatrici diventate sedute, erano una performance del gruppo, cioè l’autoproduzione del proprio strumento d’indipendenza, dopo è davvero tutto diventato allestimento interno di una discoteca che ogni tanto aveva bisogno di rinnovarsi per profitto."

Le dinamiche di mercato da cui tutti hanno vigorosamente preso le distanze, loro malgrado, hanno permeato appena hanno potuto l'intero tessuto di quell'astronave, che per molte generazioni, senza scadere in imbarazzanti odi al culto del ruock, ha costituito molto più che un semplice locale dove assistere a bei concerti, anche e soprattutto per l'epoca storica in cui va contestualizzato. Ripeto, lungi da me dare giudizi sull'entusiasmo di coloro che elevano lo Space Electronic a "tempio del rock" direi che a suo modo, i 9999 e l'idea dietro a Space Electronic hanno aperto una breccia inconfutabile nella prassi della progettazione architettonica di spazi "di svago", e soprattutto nella mente dei fruitori di tali spazi, che soggetti a nuovi stimoli, non avrebbero più ragionato allo stesso modo. Avrebbero anzi iniziato a maturare esigenze diverse, legate a un'idea di fruizione della musica sempre più completa e complessa, per nulla diversa da quella attuale. Che oggi lo Space sia un posto "in cui ci vanno le sedicenni americane a limonare" è una storia lontanissima da quella raccontata fino ad ora, ma purtroppo o per fortuna non ho avuto interesse nell'approfondirla.

Per saperne di più sul Gruppo 9999, Baruchello, Ugo La Pietra e Piero Gilardi visita Earthrise, "Visioni pre-ecologiche dell'arte italiana" al Parco Arte Vivente (PAV) di Torino, curata da Marco Scotini e aperta dal 6 novembre 2015 al 21 febbraio 2016. Info qui.

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