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Musica

Perché i Pet Shop Boys sono il miglior gruppo inglese di tutti i tempi

È uscito il nuovo album di Neil e Chris. Quale momento migliore per chiedersi che cosa li rende speciali?

Foto prese dalla pagina Facebook dei Pet Shop Boys.

Non c'è scampo: se la tua vita è almeno in parte noiosa quanto la mia, prima o poi ti troverai seduto dentro un pub un martedì sera, a cullare la tua seconda pinta di lager quasi andata a male, in attesa che una ciotola di patatine fritte scaldate al microonde venga depositata sulla superficie appiccicosa del tavolo che ti sta di fronte, e ti verrà in mente di tentare di bucare la membrana della conversazione chiedendo: "Qual è il miglior gruppo inglese di tutti i tempi?" Seguirà silenzio, mentre il tuo amico, o i tuoi amici, fanno finta di pensarci. Non diranno nulla, gli occhi piantati sul menù malconcio, bagnato e strappato. Starà a te sventolare la bandiera e impegnarti a svoltare una chiacchiera da pub perlomeno accettabile. Li guarderai negli occhi e pronuncerai le seguenti parole: "Ve lo dico io qual è. Ve lo dico io qual è il miglior gruppo inglese di tutti i tempi. Il miglior gruppo inglese di tutti i tempi è i Pet Shop Boys". I tuoi amici borbotteranno e tu darai inizio a un soliloquio che durerà tutta la notte. E avrai ragione. Perché è vero. I Pet Shop Boys sono il miglior gruppo inglese di tutti i tempi.

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Tuo padre ha sentito per caso la conversazione al pub e mi ha detto che mi sbaglio. Dice che sono i Clash che sono il miglior gruppo inglese di tutti i tempi. Va avanti a blaterare dell'importanza del punk nella Gran Bretagna thatcheriana e ha una goccia di salsa tartara che gli cola lungo il mento. Tuo fratello si inserisce nella conversazione, dicendo che non sono i Clash e di sicuro non sono nemmeno i Pet Shop Boys, i migliori sono gli Oasis. Viene spinto via dal suo migliore amico che consegna le tre band sopracitate al Grande Cassonetto della Storia e argomenta sentitamente per i Beatles. Il fatto è che hanno tutti torto. Di brutto. Certo, "And Your Bird Can Sing" è un buon pezzo, e sì, dopo sei birre "Cigarettes and Alcohol" non è poi così male, e sì, ok, quell'episodio di Daria che finiva con "Lost in the Supermarket" mi è piaciuto, ma ciò non toglie che siano tutti completamente, assolutamente, enormemente fuori strada. E ora ti spiego il perché.

I Pet Shop Boys, Neil e Chris (mai Chris e Neil), si conficcarono nella nostra coscienza culturale collettiva giovedì 5 dicembre 1985, e trent'anni dopo sono ancora lì. Quella sera fu la prima delle loro 58 apparizioni su Top of the Pops, e debuttarono con uno dei più grandi primi singoli di tutti i tempi: "West End Girls". Tecnicamente, la versione davanti alla quale l'intera nazione ha mangiato spam e patatine quella sera non fu il debutto ufficiale del gruppo—questo onore va alla versione di "West End Girls" prodotta da Bobby O—ma si può considerarlo comunque tale. Un singolo perfetto e una performance perfetta, la nascita di un'istituzione.

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I Pet Shop Boys hanno il suono della più bella serata della tua vita. I Pet Shop Boys hanno il suono della peggior serata della tua vita. I Pet Shop Boys hanno il suono di un melodramma hollywoodiano surreale. I Pet Shop Boys hanno il suono di un dramma casalingo. I Pet Shop Boys hanno il suono dell'evasione più pura. I Pet Shop Boys hanno il suono del circolo vizioso di merda della tua vita senza speranza né gioia.

Sono le due del mattino. Mi trovo a Barcellona. Sono più felice di quanto sia mai stato. I miei amici e io ci troviamo tra le prime file di persone davanti al palco principale di un grande festival e ogni tanto allungo il collo e guardo indietro verso il mare di corpi che ondeggia e sembra raggiungere l'orizzonte. In lontananza brillano le luci della città e mi fa male la mandibola a forza di sorridere. Sto guardando i Pet Shop Boys al Primavera. Sono più felice di quanto sia mai stato.

La perfezione è: "Love Comes Quickly", "What Have I Done to Deserve This", "Suburbia", "Domino Dancing", "I Want a Dog", "Heart", "Being Boring", "Left to my Own Devices", "Rent", "It's a Sin", "Always On My Mind", "Go West", "Did You See Me Coming?", "You Only Tell Me You Love Me When You're Drunk", "The Truck Driver and His Mate", "It's Alright".

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Che cos'è, quindi, a rendere i Pet Shop Boys così speciali? Che cos'è a fare sì che ci venga voglia di ascoltare il loro nuovo album, Super, invece di fuggire in preda all'orrore come succede quando sfogliamo Mojo alla stazione e scopriamo che i Rolling Stones o Echo and the Bunnymen o gli Embrace hanno un nuovo album in uscita? Perché mi ritrovo così spesso ad ascoltare Introspective o Actually?

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Ecco perché.

I Pet Shop Boys sono esattamente quello che un complesso musicale—come teoria, come concetto che abbiamo elaborato attorno al 1950, come idea che ha finito per raggiungere la stessa importanza per la nostra cultura di tela e pennello—dovrebbe essere. E cioè: Neil Tennant e Chris Lowe esistono in un livello leggermente superiore alla monotonia della realtà. Il loro è un mondo di oggetti di scena e cambi d'abito, messe in scena elaborate e tour degli stadi. È un mondo in cui fai il tuo ingresso sul palco come un Imperatore Augusto sulle note di "Viva La Vida" dei Coldplay senza un briciolo di ironia, un mondo in cui ci si riferisce abitualmente a una parte della tua carriera come alla "fase imperiale" senza battere ciglio. I PSB non sono interessati a sembrare dei "ragazzi normali" perché non sono "soltanto ragazzi normali".

Rappresentano, invece, un ritorno a un'epoca in cui la fama, o meglio, la celebrità, conferiva un senso di rimozione, una sensazione di distanza. Prima che fossimo in grado di spruzzare ogni nostra cazzo di sinapsi sopra una bacheca digitale che non smette mai di marciare in avanti, gli artisti sembravano diversi, in qualche modo non facenti parte della nostra stessa umanità. Loro creavano e noi apprezzavamo. I Pet Shop Boys danno ancora l'idea di essere leggermente irraggiungibili, come se fossimo in grado soltanto di vedere il paesaggio che hanno dipinto dall'alto.

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Nel corso di trent'anni, i due ragazzi conosciutisi in un negozio di elettronica su Kings Road hanno attraversato molte vesti sonore. C'è il primissimo materiale con Bobby O, che è tutto perversioni Hi-NRG and arroganza da gay-club, e l'esuberanza elettronica dei dischi più maturi come Electric, prodotto da Stuart Price. C'è il pop perfettino e radio-friendly di Yes e il sentimentalismo synth-pop di Release. Amare i Pet Shop Boys significa amare allo stesso modo pezzi pestoni alla Village People come "New York City Boy" e le influenze eurodence di "Red Letter Day". O quasi. Qualunque band con dodici album, sei best-of, quattro dischi di remix, tre colonne sonore, due raccolte di B-side, un paio di live e sessanta singoli è destinata ad avere qualche cagata nel proprio catalogo. Eppure, hanno un rapporto hit/shit più alto di qualunque altra band che questa grigia nazione abbia mai prodotto. Sì, hai capito bene, anche gli Hard Fi e i Bromhead's Jacket non possono competere.

L'estetica dei Pet Shop Boys si pone da qualche parte tra l'edonismo di plastica dell'italo disco, l'esagerazione camp di Broadway e la cupa rassegnazione di Coronation Street. Una larga parte di questo è dovuto alla relazione stranamente perfetta e perfettamente strana tra i due ragazzi. Al di là dell'anomalia occasionale—"Paninaro", per esempio—Neil si occupa della voce e Chris fa Chris: suona le tastiere, indossa copricapi stupidi, quelle cose lì. La divisione creata ad hoc tra i due, messa in scena di sera in sera nei loro imponenti tour mondiali, è ancora, in qualche modo, dopo trent'anni, sinceramente emozionante, e conferisce ai loro dischi un fremito speciale. Per tutto il tempo, però, c'è una palpabile aura di tristezza attorno a loro.

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È quella tristezza, quell'aria vagamente tetra di fallimento in cui avvolgono i loro abiti Oswald Boetang, indossata come dopobarba Issey Miyake, che ha attirato me e tanti altri verso i PSB. Canzoni come la cover di "Always on my Mind", assolutamente gigantesca, una canzone che suona come un giro della vittoria attorno al paradiso, o l'ode totalmente esagerata alla relazione tra omosessualità e l'educazione cattolica che è "It's a Sin"—che in una dimensione parallela è un film di Almodóvar ambientato in una stanza di collegio—sono contemporaneamente trionfanti e sconfitte. La loro opera cola letteralmente un'idea di fallimento. Per ogni spacconata e ogni linea di basso arpeggiata, c'è un sentimento inevitabile di malinconia. È come mangiare patatine in macchina in riva al mare, o vedere il tuo DJ preferito nel tuo locale preferito da solo.

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C'è anche una componente pacchiana nei Boys. Vivono in una strana sfera dove ogni cosa sembra uscita dagli anni Novanta del futuro immaginata dai designer degli anni Ottanta. Ascoltarli e guardarli è rassicurante nello stesso modo in cui lo è, non so, sfogliare uno scatolone di vecchi Beano o guardare le vecchie pubblicità di una tipo di salsicce per bambini che non producono più. Questa ineleganza è, in un certo senso, molto, molto British.

È questa potente combinazione di ineleganza, tristezza e glamour che li rende così perfetti e così britannici. In un'altra vita avevo notato che la Gran Bretagna "sono le coppie tristi che siedono in Burger King di Londra centro; le camminate sotto la pioggia su percorsi fuori stagione; i viaggi sui pullman National Express la domenica sera; gli Orange Wednesday; i Gillette Soccer Saturday; le barrette Mars; Sounds of the Sixties su Radio 2; i divani marroni; le tende di raso; la merda di cane; i vigili urbani; la messa di mezzanotte alla Vigilia di Natale; una leggera malinconia autoinflitta; Adrian Mole; i silo di grano; gli ippocastani; gli autobus sostitutivi della ferrovia; sei lattine per cinque sterline; salsiccia, patatine e fagioli; Television X; le sale da tè di proprietà del National Trust; Dani Behr". E tutto ciò è vero. È questo che siamo, in fondo: una nazione di romantici repressi, che affogano ogni desiderio in una grigia vasca di nulla. Non vogliamo essere visti come niente più di quello che siamo. Siamo risoluti nel non volerci mettere in una posizione per cui qualcuno vedendoci possa pensare: "Tsk! Questo si crede 'sto cazzo".

Neil e Chris si credono 'sto cazzo. Il glamour, l'esotismo e l'artisticità che rendono così esaltante vederli dal vivo, così incredibile, sono inquinati dall'ineluttabile sensazione che sia tutto una recita. Voglio dire, è ovvio che lo è, è ovvio che è una recita, ma non è "soltanto" una messa in scena per il piacere delle orde di paganti. Va oltre. Sono due uomini nati e cresciuti in un Paese che non fa queste cose, che cercano di farle.

Sono romantici sfacciati, esteti senza vergogna e prova provata che la migliore musica britannica non è intrappolata nel mondo noioso del realismo quotidiano. Dopo trent'anni suonano ancora innamorati della musica da club come forma di bellissima liberazione come il primo giorno. Sono sognatori, Neil e Chris, e una nazione che si ostina a macerare in una realtà color bustina di tè bagnata ha bisogno di loro, oggi più che mai.

Ed è per questo, lettore, che i Pet Shop Boys sono il miglior gruppo inglese di tutti i tempi.

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