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Musica

Intervista multicanale a Davide Tidoni

Ho intervistato Davide Tidoni, artista, musicista, sperimentatore, e soprattutto, di Brescia.

Ognuno di noi ha almeno un conoscente bresciano, nello specifico io ne ho parecchi, e da uno di loro—un tizio che stalkerizza i droni nei loro momenti di tempo libero, non uno a caso—lo scorso inizio d'estate, mi è arrivato l'invito per "Up in the Valley" un workshop organizzato e diretto da Davide Tidoni, artista, musicista, sperimentatore. "Il workshop consiste in un percorso esplorativo situato al confine tra esperienza acustica, ascolto attivo e ricerca del proprio potenziale dʼazione (agency power)." D'estate, tra i monti, per una settimana…perché no? Ho inviato l'application, sono stata presa e ho fatto un'esperienza bizzarra e bella da cui ho tratto alcuni insegnamenti preziosi. Innanzitutto ho scoperto che esiste la provincia di Brescia, un po' per modo di dire, a tempi alterni, solo d'estate, perché ci sono interi paesi, non abbandonati che tuttavia si popolano di una manciata di abitanti solo quando non è freddo. Sono luoghi piuttosto selvaggi per i quali si aggirano cacciatori e raccoglitori di funghi, in cui la vocale con dieresi "Ü" è il fonogramma che designa un comune intero, Onodegno—ma forse anche altre cose che non ho capito—e i telefoni non prendono. Sono nata e cresciuta alle falde di un'industria farmaceutica in provincia di Milano che faceva diventare ciclicamente fucsia il prato della mia scuola materna, di conseguenza questo rapporto spontaneo che hanno i locals con la natura mi sembra sempre un po' forzato o quantomeno surreale: mi sentivo in uno spin-off bresciano di Games of Thrones. Poi ho scoperto che si può essere come Davide e abitare il mondo e la selvaggia provincia di Brescia con la stessa disinvoltura apparente, portando entrambe le cittadinanze nel proprio lavoro con eleganza ed entusiasmo. Davide vestito da uno che cerca di parlare con gli alieni intento a tarare il rumore bianco di alcune radio portatili al centro di una pista d'atterraggio per gli elicotteri. Ha qualche problema con la diffusione della sua immagine via Internet una strana malattia per cui in foto esce sempre con uno o più pallini colorati al posto della faccia.

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Durante i giorni di "Up in the Valley" l'ho visto trasformarsi in un folletto del sottobosco che si aggira scalzo nel fango, in un artista sensibile che progetta il suo prossimo lavoro sonoro, in un compagno di paese con cui si raccontano storie in osteria, in un tecnico audio, in un coreografo e in un avventato alpinista a caccia di echi da testare dai picchi più alti (un mezzo tentato suicidio, non fatelo, voi non siete bresciani). La ricerca sonora di Davide si gioca in un territorio ibrido ed è molto difficile da incanalare. Da un certo punto di vista il suo approccio è scientifico: se la fisica del suono definisce alcuni fenomeni testandoli in uno spazio irreale come una camera anecoica, cosa succede riportandoli in uno spazio non neutrale? Da un altro è sociologico: se questa non neutralità fosse non solo acustica ma anche culturale, quali reazioni d'ascolto ci dovremmo aspettare?
Davide Tidoni parteciperà a Radiofonica, festival in programma presso O', a Milano, in collaborazione con The Others, a Torino. L'appuntamento con la sua performance sonora è oggi alle 16.00, nel mentre potete scoprire qualcosa di più su di lui in questa intervista, risultato di conversazioni scritte e orali previo inseguimento mediatico effettuate nell'arco di una settimana. Davide una volta mi parlava dal parcheggio di un supermercato, una volta da una casa in mezzo alla campagna emiliana, una volta da qualche luogo recondito del Friuli in cui non esistono le reti WiFi e una volta, finalmente, da "casa," luogo la cui collocazione geografica tutt'ora non mi è chiara.

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Noisey: Iniziamo parlando della tua formazione.
Davide Tidoni: Nella banda del paese! Avevo questo accordo che se suonavo durante i giorni di festa o le funzioni religiose con la banda non mi facevano pagare il mese delle lezioni, quindi via di bambarabambambam e sono andato avanti così a fare lezioni di percussioni dai tredici ai diciassette anni.

Intendevo anche cose tipo… l'università.
Ah, certo sì! Ho studiato cinema al DAMS ma poi ho portato avanti un percorso molto più individuale, il cinema mi è servito per capire quale fosse per me l'importanza del suono e di quanto la musica potesse essere applicata ad altro. Fino a ventitrè-ventiquattro anni ero molto interessato al sound design, poi ho capito che nel posto dove mi trovavo non c'erano luoghi in cui avrei potuto approfondire la mia formazione tanto quanto desideravo e ho iniziato ad applicarmi e a investire di più su cose solo mie. Poi un giorno sono stato alla KHM di Colonia e vedendo una mostra degli studenti ho capito che potevo davvero trovare qualcuno che facesse cose simili a quelle che mi interessavano, che era un ambito in cui potevo andare avanti. Mi sono sempre interessate le forme ibride, spaziare liberamente tra acustico ed elettronico, a Bologna le persone si muovevano a compartimenti stagni, chi andava al RAUM non si occupava anche di freejazz—quello estremo è un ambiente fighettissimo—e viceversa, avevo bisogno di formarmi in una dimensione in cui le cose si mischiassero in modo spontaneo. Ho cominciato a contattare alcuni docenti inviando loro le mie cose e facendo richiesta di poter andare a frequentare i loro corsi, così ho studiato con Jonathan Sterne alla McGill University di Montreal, con Tia DeNora all'Università di Exeter, in Inghilterra e con Raviv Gachrow al Sonology Institute dell'Aia in Olanda.

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Emerge già parlando della tua formazione la dicotomia provincia / resto del mondo: come la vivi e come le fai fronte?
Patisco un sacco certi provincialismi, alcune realtà fanno cose che io stimo anche, ma devono far passare a tutti i costi un'immagine superinternazionale di sé, anche se non hanno la minima idea di cosa significhi e soprattutto vivono costantemente con frustrazione il loro essere lì e non da un'altra parte. Snobbano quello che c'è, che avrebbero sottomano, ci sarebbero un sacco di potenzialità da cui attingere e invece concentrano le loro energie nel vendersi per qualcosa che non riescono ad essere. Ti racconto una storia a riguardo: una volta stavo provando una performance e avevo la maglia degli Ultras del Brescia,—che tra l'altro è coerente rispetto a una parte della mia ricerca—dopo un po' è arrivato il curatore e mi ha chiesto di cambiarmi. Sullo stesso palco aveva suonato John Zorn con la maglia dei NY Yankees! Nel suo caso era solo ritenuto figo, ma se ci pensi sarrebbe stata la stessa cosa anche se da un punto di vista diverso. Ho avuto un sacco di riscontri positivi all'estero, in Italia se ti interessi allo slang sei contemporaneo, se ti interessi al dialetto sei un ignorante. Ci sarà senza dubbio un certo gusto per l'esotico nell'interesse che gli stranieri hanno per le mie ricerche in cui entra il dialetto, però in generale mi sembra ci sia più apertura, o quantomeno, quello che vedo, è sempre un potenziale, qualcosa a cui attingere che qui viene escluso a priori per snobbismo.

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Piccolo spoiler del lavoro sonoro che Davide porterà a Radiofonica più tardi.

A volte io ho un po' la sensazione che il pubblico della provincia sia un pubblico rifiutato, che nessuno vorrebbe. Come se la frustrazione di cui parlavamo derivasse da un gap di comunicazione che nessuno sembra avere la voglia di superare.
Io credo che questa cosa accada ancora di più con l'arte, con le cose statiche, che per forza di cose sono più distaccate. Con la musica non hai nemmeno troppo quella scusa, ok, ci sono le cose di difficile ascolto che ti vengono buttate addosso così come sono, però di base il materiale musicale è un materiale più sporco, più viscerale. Ci sono le vibrazioni, la fisicità, il canto, il movimento di chi suona, e non si può prescindere dalla presenza. Diventa tutto meno sacro, più umano. Quando devo presentare un lavoro al un pubblico, non mi interessa lavorare con oggetti bloccati, con installazioni statiche proprio per questo motivo: le forme che uso per interagire sono sempre quelle del laboratorio e della performance. Per il mio lavoro sui cori da stadio ora devo trovare un output per quello che sostanzialmente è il grande archivio frutto di una ricerca che va avanti da più di dieci anni. Faccio parte di un programma universitario di etnografia sperimentale in cui per forza di cose dovrò trovare una modalità statica di mostrare l'archivio, ma quella parte non mi interessa affatto: mi interessa l'archivio organizzato, la forma strutturata della mia ricerca, mi interessa avere il materiale ordinato per poi usarlo in un secondo o terzo momento per inventarmi altri lavori. È una fonte, ma mostrarla staticamente così com'è non mi interessa.

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Cos'è il tuo progetto di ricerca sui cori da stadio?
Ho incominciato il progetto spinto dalla motivazione di partenza che ne avevo abbastanza del silenzio in sala durante i concerti di musica di ricerca, contemporanea, improvvisata ed elettroacustica. L'approccio distaccato del pubblico mi stava stretto e mal sopportavo la riverenza e l'eccessivo rispetto con cui veniva vissuto il momento performativo. Ho sempre sentito la necessità di elementi di fisicità e partecipazione e ho ritrovato tutto questo allo stadio: un pubblico vivo che partecipa e crea l'evento. In fondo è molto simile all'approccio del concerto punk dove c'è una sottocultura che si ritrova, che si riconosce in alcuni ideali, che diffonde, che produce e che balla. Lo stadio è il luogo dove ho imparato a cantare. Non vado allo stadio per guardare la partita ma per cantare insieme a un gruppo di persone. Il progetto ha, nelle sue modalità, elementi comuni alla ricerca etnomusicologica e alla documentazione del patrimonio orale antropologico (vedi il lavoro di Alan Lomax, Steven Feld, Roberto Leydi e Paolo Vinati). Il conflitto è un altro elemento chiave, quindi una parte di documentazione audio è dedicata interamente alle manifestazioni e alle attività di lotta e protesta (vedi il lavoro di Christopher DeLaurenti, Ultra Red, Istituto DeMartino). Sto mettendo mano in questo periodo al materiale registrato durante i miei anni di frequentazione dello stadio, dal 2001 al 2014, durante i quali ho lavorato sempre con lo stesso gruppo di Ultra, i 1911. Ho riascoltato tutti i documenti registrati e ne ho fatto una prima selezione. Come ti dicevo prima, non ho chiaro ancora il tipo di output che potrà avere questo progetto, oltre ad una presentazione statica pensavo magari ad una trasmissione radiofonica, preferenzialmente in una radio locale, così che il lavoro ritorni sui suoi attori protagonisti… È un lavoro molteplice, che vuole studiare l'evoluzione del repertorio canoro e delle modalità di condivisione del canto in relazione alle misure di controllo repressivo introdotte negli ultimi 10 anni all'interno e fuori degli stadi, l'effetto emotivo, l'eccitazione e l'impatto fisico del canto collettivo, il canto come espressione dell'identità e dei valori di un gruppo e la relazione tra canto e abitazione di un luogo, ovvero come il canto faccia parte e venga informato dall'ambiente in cui viene prodotto.

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Parlando del tuo suonare invece, come si è evoluto da ricerca musicale a ricerca sul suono?
L'evoluzione del mio modo di suonare si è sviluppata in relazione ai miei ascolti musicali. Ho iniziato con il thrash metal e l'hardcore per poi aprirmi alla cultura afroamericana del free jazz, di lì al noise e all'improvvisazione radicale il passo è stato breve. A diciannove anni ho iniziato a prepare la batteria con oggetti e materiali vari e ad amplificarla con i microfoni a contatto. L'evoluzione lineare del mio approccio allo strumento è andata dalla preparazione dello strumento alla microfonazione, alla cura del suono e di conseguenza all'attenzione per la risposta dello spazio, all'acustica più in generale. La mia ricerca si è sviluppata trasversalmente attingendo dalla musica, dalla performance, dalle arti visive e dalla ricerca etnografica. Ho iniziato a ragionare sul ruolo del pubblico durante il concerto, sulla specificità del luogo del concerto, sul significato della riproduzione e dell'amplificazione del suono, sui supporti di distribuzione della musica e sulla sociologia dell'ascolto musicale. Ho iniziato quindi a lavorare alla scoperta di modelli alternativi al formato del concerto musicale comunemente inteso, includendo le esperienze di Fluxus, della performing art, delle opere site specific, dell'arte relazionale: differenti vie per rinnovare e risignificare il modo di concepire e fruire la performance dal vivo. Il mio interesse spiccato per il suono rispetto alla musica mi permette di entrare in contatto molto più facilmente con quello che ho attorno. Il suono a differenza della musica mi comunica l'intimità e la personalità propria di ogni cosa, persona e situazione in cui mi trovo. Riesco in questo modo a dare una voce a tutto ciò che mi circonda, a dargli una consistenza, una presenza e un corpo.

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Recentemente hai portato un tuo lavoro a Bologna per Catacomb Bomb, di cosa si tratta?

Ho messo in atto

A Slinghost and I

: un tiratore cerca di centrare con un colpo di fionda un microfono posizionato a distanza, l'impatto del colpo sul microfono è amplificato e diffuso ad alto volume da una cassa collocata vicino al tiratore. L'idea è quella di tradurre l'intensità del colpo e rendere manifesto il processo di azione-reazione che si instaura tra tiratore e microfono, la resa sonora del colpo (amplificazione esagerata e diffusione ravvicinata) permette al tiratore di fare un'esperienza fisica della sensibilità del microfono, ovvero trascendere temporaneamente dal sè e mettersi nei panni dell'altro. Si tratta di una performance a metà tra esperienza individuale, condivisione di gruppo e conversational piece: d

opo aver tentato io stesso di colpire il microfono ho esteso l'invito agli spettatori che a loro volta si sono cimentati.

Nei miei lavori dal vivo cerco sempre di toccare corde profonde, in una modalità diretta e trasparente, al punto da diventare paradossalmente a tratti ironico. A volte per scegliere il titolo di un lavoro o la parola di un testo mi servono mesi, mi impegno molto per cercare di essere chiaro e accessibile perché credo sia importante aprirsi ad un pubblico il più ampio possibile. Parlo anche molto del mio lavoro e amo condividere il mio desiderio e la mia passione con altre persone, ho un bisogno infinito di raccontare e confrontarmi.

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A Slinghost and I.

C'è un altro tuo lavoro che ha a che fare con il confronto, un po' parascientifico e di relazione con lo spazio geografico, A balloon for…

In

A balloon for…

lo scoppio di un palloncino cerca di rendere udibile l'acustica specifica di un luogo. C'è un processo di attivazione dello spazio: io scoppio e lo spazio risponde. Quando ho capito che senza lo scoppio lo spazio sarebbe rimasto in silenzio, mi si è aperto un mondo: sono io che posso mettere in moto lo spazio, sono io che posso attivarlo! La percezione dello spazio è in stretta relazione al nostro modo di produrlo, è il risultato di come interveniamo nello spazio: esiste se siamo pronti a riconoscerlo, questo richiede ricerca e consapevolezza. L'altra questione che ho approfondito è l'importanza della mia posizione nello spazio rispetto alla determinazione di quello che ascolto: l'eco dei palloncini che colpisce le mie orecchie cambia a seconda della distanza che ho dalla superficie riflettente. Il punto di ascolto cambia completamente la percezione del suono: costruiamo quello che sentiamo anche in base alla posizione che occupiamo e ogni posizione ha la sua resa specifica, ogni posizione è unica. Comprendendo che non c'è posizione realmente privilegiata capisci quali sono l'unicità e la leggittimità del proprio punto d'ascolto. L'unicità del proprio essere, in quello spazio ed in quel punto. La propagazione del suono nello spazio è un fenomeno affascinante che non smette mai di stupirmi. L'onda sonora ha origine da una vibrazione. Si propaga attraverso un mezzo. Lungo il suo percorso incontra corpi e materiali che la trasformano e la modellano. All'incontro coi materiali risponde in parte attraversandoli, venendo

in parte

riflessa, in parte dissipata. Tutto questo percorso mi parla di una continua interazione e di un continuo cambiamento, un gioco di relazioni, dipendenze e caratteristiche fisiche proprie (dell'onda, dei materiali incontrati e dei mezzi attraverso cui l'onda si propaga). Tutto questo mi sembra la storia personale di ognuno di noi. Tutti noi abbiamo una nostra certa qualità specifica che entra in relazione, si amplifica, scompare e si misura con il contesto in cui si vive. La propagazione del suono per me è come la vita di una persona. Date alcune tue caratteristiche di base, ti trasformi e cresci in relazione a quello che incontri sul tuo percorso.

Come entrano gli altri nel tuo lavoro? Come ti ci relazioni?
Ti porto ad esempio "Up In The Valley" che è l'ultima esperienza di laboratorio che ho fatto: si è trattato di un momento di ricerca, la scorsa estate, in ValSabbia. La mia finalità era quella di provare nuove idee e testare alcune intuizioni da riproporre successivamente in altri laboratori e/o performance dal vivo. Laboratorio di ricerca significa che l'atmosfera è rilassata e non soffro ansie da insegnamento, a volte ho bisogno di sentirmi libero di testare alcuni nuovi esercizi senza dover per forza risultare convincente. Abbiamo lavorato soprattutto con la diffusione del rumore bianco nello spazio e il movimento del corpo. Le caratteristiche che distinguono il rumore bianco sono la dinamica costante e lo spettro uniforme, queste proprietà fanno del rumore bianco uno strumento "rivelatore" ottimale attraverso il quale è possibile esplorare fenomeni acustici quali la riflessione, l'assorbimento, la rifrazione e acquisire così consapevolezza di come il movimento del corpo e della propria posizione influsicono sulla percezione del suono e dello spazio. Negli anni ho condotto diversi laboratori in contesti istituzionali e indipendenti; mi rendo sempre più conto di concepirli come lunghe performance. I partecipanti sono spettatori ma anche sperimentatori, attori protagonisti. Il laboratorio è fondato sulla pratica e la sua dimensione è aperta alla sperimentazione e allo scambio. È un percorso che ha bisogno di tempi dilatati lontani dalle formule della spettacolarità formale. Soundstorming: esplorazioni acustiche del territorio. Dov'è casa tua ora Davide?
Per il momento abito a Riolo Terme, vicino a Faenza, però solo fino a dicembre. Sono sempre stato in giro, ho un rapporto stranissimo con le mie origini, alla fine non sono mai riuscito a decidere di andarmene sul serio, o meglio, di restare in un posto all'estero in pianta stabile. Non riesco a capire ancora qual è la mia esigenza in questo distacco con Brescia, alla fine mi vivo quell'appartenenza in modo molto romantico, ma è un grande irrisolto. Io so che sono al punto in cui devo capire se sono solo paure quelle che mi bloccano, se ho paura di dire "ok adesso quello che faccio da sempre diventa del tutto la mia professione" e di farmi carico di tutto quello che la "professione" porta con sé, di tutti i compromessi, incluso lo stare in un luogo che non mi rappresenta, oppure se veramente voglio restare qui, ma devo ancora capirlo, di sicuro essere in un posto dove ci sono poche opportunità non rende la scelta né il contesto, né la "scena" più semplice. Dove ci sono poche possibilità e a parità di capacità le cose sono molto più difficili rispetto ad altri posti, si tende a diventare cinici per sopravvivere, non ci si deve mai mostrare deboli, manca una certa trasparenza nelle relazioni umane e questo mi disturba. La relazione umana è al centro della mia ricerca—almeno per ora, magari fra un po' cambierò idea—e il mio mezzo per arrivarci è il suono.

Elena potrebbe cadere da una montagna per andare a caccia di riverberi, ma twitta anche dal fondo del burrone - @leraneacide