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Musica

A Berlino la techno è diventata colonna sonora per turisti fattoni

"Mi sono fatto un sacco di feste stupende, solo non nell'ultimo decennio."

Scenario. Foto via Pixabay

Quando mi sono trasferito a Berlino lo scorso autunno, ho preso in considerazione l'idea di ritrovarmi in un posto che fosse un po' come un'enorme periferia di Brooklyn. L'afflusso recente di giovani statunitensi squattrinati mi faceva immaginare che mi sarei trovato intorno molte persone potenzialmente familiari, almeno dal punto di vista somatico. Pensavo sarebbe stato facile passare un anno qua, poi sono iniziate le lezioni di tedesco. Gli insegnanti mi parlavano della posizione dei vocaboli, di terminazioni, di quali verbi richiedessero l'accusativo e quali il dativo. Cerchiavano il sostantivo e il complemento oggetto, assegnando loro dei numeri che indicavano dove dovessero sempre trovarsi nelle frasi, tranne ovviamente nei casi in cui fossero messi da altre parti ancora. Come per qualsiasi altra cosa in Germania, ci ricordavano i nostri insegnanti, esisteva un sistema.

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È solo grazie alla lunga ombra di un millennio di relazioni interculturali tipo, che ne so, le guerre, che l'inglese è diventato così flessibile in confronto. Anche lì c'è un sistema, e più o meno funziona come quando si gioca ai Lego: ok, quel mattoncino puoi metterlo qui, ma sicuro che non stia meglio là? Ad esempio, per chiedere di spegnere la luce possiamo dire "Can you turn off the light?" o "Can you turn the light off?", senza confondere nessuno. Non ci sono differenze di significato, e questa sintassi malleabile è dimostrazione di come fortunatamente l'inglese moderno sia niente altro che una lingua bastarda. (Ah, in tedesco si può chiedere solo nel secondo modo.)

Tutto ciò mi ha fatto riflettere sulla techno qua a Berlino. Se ascoltando Woody Guthrie o Chuck D il liricismo che ne traspare ha un suo determinato peso e impatto, con Drexciya e Robert Hood è necessario un esercizio di traduzione e interpretazione. La techno non ha nessuna narrativa esplicita—almeno non nella musica stessa, che pure è l'arrangiamento musicale perfetto per una città che utilizza una lingua così ricca di regole e vincoli. Ha bisogno del suo bagaglio politico-culturale a cui fare riferimento, che per i ragazzini che credono di trovarsi in una semplice "fase della loro vita" è un ottimo esercizio di mutabilità. Era la libertà d'espressione personale a comunicare con le sensibilità tedesche, almeno fino a quando il suono non si è svuotato del suo messaggio.

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L'articolo di Andy Beta fornisce un ottimo taglio su quello che è il legame tra i tempi d'oro della Detroit techno e i prodotti da esportazione ben più commerciabili di Manchester e Belgio, nonché sulla narrativa tutta bianco o nero che circola adesso riguardo Detroit, che ha finito per dannergiarla, e farmi riflettere sul mio nuovo soggiorno a Berlino. Una volta arrivato qui, ho subito realizzato che gli hi-hat e i rimbombi delle casse occasionalmente accostati a frammenti di house e a brevi stacchi dance, sarebbero andati a costituire, con mia immensa sorpresa, la principale colonna sonora delle mie serate. (Non sapevo neanche nulla su quanto la scena techno fosse un rifugio per gli spiantati della Berlino Est prima dell'indispensabile articolo di Felix Denk e Sven von Thulen Der Klang der familie.) Ma mi andava bene, era l'occasione per aprire i miei orizzonti musicali da dentro quello che era, agli occhi di tutti, il nuovo cuore pulsante della techno.

Le persone qua vanno sulla difensiva se provi a parlare dei caratteri costitutivi della techno, per questo mi sento quasi in obbligo di fare una rapida introduzione alla materia. La techno è una sottocategoria della musica elettronica che condivide alcuni elementi di forma con la house. Se questa si è sviluppata a Chicago e affonda le radici nella musica popolare come la disco e il funk, a Detroit la techno ne invertì la struttura compositiva appoggiandosi su un mitragliatore automatico di rullanti e piatti, e linee di basso. La techno può essere fredda e spoglia, quindi adatta a rimbombare in complessi industriali dismessi/centrali elettriche riadattate a club, e il fatto che fosse sempre altamente ballabile rappresentava un'interessante prospettiva per il sottoscritto, almeno prima che iniziassi a guardarmi bene intorno.

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Se una notte vi mettete ad osservare i DJ dei principali club della città (Berghain, Tresor), ma anche quelli di spazi più piccoli come Chalet o Renate, noterete di certo come prendano maniacalmente sul serio il loro lavoro: testa china, occhi che vanno su e giù lungo l'impianto, come se fare un buon dj set fosse qualcosa che riguarda la posizione di un settaggio o la scelta di un sample. Questa credenza però fa parte dell'ethos locale, e i nuovi arrivati trovano stereotipate anche le semplici conversazioni. Tuttavia è girandosi e guardando in faccia la folla, che ci si accorge di quanto i club techno di questa città—e di tutto il mondo—si siano imbevuti di vuoto e ipocrisia.

I gruppetti di stronzi inglesi imbottiti di coca e md hanno grossomodo gli stessi geni degli zarri dell'Electric Daisy Carnival, così come le ragazzine che ballano la two step meccanica berlinese sono interscambiabili con le loro controparti di Williamsburg, New York. La techno non è più il suono dei regaz ansiosi di scrollarsi di dosso le conseguenze psicologiche della dittatura comunista, ma la colonna sonora della sbronza più economica del mondo.

Fila allo Chalet a Berlino. Foto di R.A.

Il punto è che Berlino è talmente abbordabile economicamente da essere attraente per chiunque possa permettersi un biglietto aereo e raccattare qualche soldo per vivere—o almeno fingere di farlo—come artista o libero professionista. Gli americani hanno novanta giorni per farsi rilasciare il visto di permanenza: gli artisti devono presentare una quantità ingente e convincente di vecchi progetti, avere un minimo di denaro in banca e una propria dichiarazione d'intenti; i freelance invece devono avere almeno un paio di incarichi passati convalidati e rendere conto a un funzionario statale incaricato. Entrambi questi visti sono validi per due anni, ma uno può evitarsi tutto il processo iscrivendosi a una di quelle università della città, a poche centinaia di euro al mese (dovrete comunque lasciare il vostro conto corrente al governo tedesco, così non penserà che in realtà state dormendo regolarmente a Gorlitzer Park.) Berlino ha un tasso di disoccupazione ufficiale dell'undici percento ma le feste da giovedì notte a domenica non conoscono tregua, visto che una serata può venire a costare anche cinquanta euro.

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A molti dei miei compatrioti Berlino sembra davvero una nuova, rosea, Detroit, ma la realtà è che la città sta affrontando un periodo di transizione ben più complesso di quello che le opinioni popolari altrui vorrebbero farvi credere. Ron Fournier, nato a Detroit e colonnista del National Journal, ha scritto che la sua città "non è mai stata brutta come le persone mi dicevano che fosse. E adesso non è bella come si vuole far credere." Ma per tutti quelli che smaniano alla ricerca di nuove e succulente scene musicali, l'idea che Detroit per alcune persone possa essere vista come "casa", è di relativa importanza. Non serve impegnare il proprio pensiero critico nelle zona d'ombra che la città offre, se su di questa l'unica cosa che riusciamo a chiederci è se sia viva o morta.

Queste zone d'ombra sono meno riconoscibili a Berlino. Per molte delle persone che ho incontrato qua la città è fantastica, esattamente come viene pubblicizzata, e i recenti fenomeni di cambiamento sociale e urbano—speculazione edilizia, affitti in rialzo e invasione di turisti che vogliono solo andare al Berghain—stanno via via scalfendo il loro ideale di città. Messo da parte questo contesto, la techno è solo un altro battito nel buio.

Senza prendercela troppo per le loro lacune esistenziali, bisogna rendersi conto che le frotte di ragazzini provenienti dagli orridi aeroporti di Berlino, non sono qui in quanto outsider oppressi in cerca di un mondo che li accetti. Sono qui a vincere una scommessa facile. Gli affitti costano la metà che a New York o Londra, e le feste vanno avanti all'infinito. Le birre e le droghe sono buone ed economiche. È così facile qui essere bohemién.

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Questo mito potrebbe anche iniziare a vacillare. Pur senza replicare il boom di New York, gli affitti stanno crescendo al doppio della media nazionale reinventando un settore del capitalismo ormai dato per perso. Le nuove leggi a protezione dei locatari introdotte dalla regione voglio fermare la crescita del mercato e sembrano la lista dei desideri di un giovane ventenne: tetti sugli aumenti degli affitti e restrizioni ai casi di "ristrutturazione forzata", introdotte nel 2014. Le spese di intermediazione stanno per essere spostate dagli inquilini ai proprietari. (A quanto pare i proprietari sono particolarmente bravi a trovare scappatoie attraverso le quali farsi pagare sempre di più.)

Le nuove regole hanno un obiettivo duplice. Sono fatte per spazzare via la domanda sempre più crescente di abitazioni on demand da parte dei clubber, i quali poi ripiegano su AirBnB, niente più che un portale di hotel temporanei. Inoltre cercano di fermare l'incalzante crisi degli alloggi, in cui la popolazione più anziana e umile viene rimpiazzata da giovani professionisti e speculatori—leggi: gentrification. Anche se la situazione non è quella di San Francisco o New York, il rischio di ghettizzazione è sempre presente. Secondo Andrej Holm, un sociologo berlinese da sempre interessato al fenomeno della gentrificazione, "Il pericolo qui non è che Berlino finisca per diventare Londra, ma Parigi, dove i poveri e gli anziani sono stati relegati fuori dai confini della città."

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Questo tipo di spinte centrifughe sono più note agli stranieri che ai berlinesi, che vedono negli affitti bassi l'essenza identitaria della città. Non sembra neanche troppo strano considerando che fino a venticinque anni fa, settanta miglia di cemento armato delimitavano la sola zona di Berlino in cui esisteva il libero mercato, e molti devono ancora farci i conti. Berlino Est è ancora piena di squat e spazi comuni inutilizzati che non sono tanto relitti del passato socialista della città, quanto un inevitabile effetto della sua assenza. Le persone si sono serrate nella loro libertà di scelta. Per la prima volta dopo decenni non c'era nessuno a dirti dove e come vivere, motivo per cui per molti, la rapida introduzione della mano invisibile del mercato era sì una sorta di ritorno al passato, ma in termini nettamente più leggeri. Ti dicevano dove andare a vivere, ma non c'era nessuno che potesse protestare.

Per coloro che si possono permettere la zona centrale di Berlino, il cambiamento appare come un qualcosa a metà tra la scomparsa delle vie del punk rock DIY di New York e l'ammortizzazione delle sensibilità politiche in quelle dell'hip hop. La musica oggi non è peggio di venti o trent'anni fa, ma le persone stanno vivendo un ambiente completamente diverso da quello in cui è effettivamente nata la scena techno. Ancora oggi nei club epicentri della controcultura negli anni Novanta, si suona una techno senza compromessi rivolta a persone che qualche anno fa non si sarebbero mai sognate di trovarsi lì. La musica non si è annacquata al fine di piacere a un pubblico più vasto, e questo può effettivamente essere un baluardo della resistenza allo sfascio culturale definitivo. Grazie ai freni legislativi, i processi gentrificanti non hanno ancora creato quella sterilizzazione che si può osservare in altre città, e questo è un buon risultato per chi ha paura che la techno possa perdere il suo ruolo dominante, a Berlino.

Ma l'affollamento di ragazzini festaioli e techno bohémien rimane un problema, per i molti che hanno vissuto la Berlino della riunificazione, quando la città veniva associata al degrado urbano e alla povertà. Il ruolo della città, poco più che un campo profughi per la prima ondata di gentrifier cacciati dai propri quartieri trendy ad opera di girovaghi e speculatori, fa immaginare che le differenze culturali qui sono ben più sottili rispetto a Brooklyn o Londra, ma il risentimento è comunque cosa nota. Alla città resta ormai poco del "povera ma sexy". La musica è rimasta orfana del messaggio, che ormai non si veicola neanche più ad essa. Come mi ha detto un veterano brizzolato, con cui mi è capitato di cenare qualche tempo fa: "Mi sono fatto un sacco di feste stupende, solo non nell'ultimo decennio."

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