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Musica

Noche Latina: un tour per le migliori discoteche sudamericane di Milano

Da cui abbiamo banalmente concluso che per la techno, stavolta, è davvero finita.
Sonia Garcia
Milan, IT

Tutte le foto sono di Luca Flebus e Mattia Costioli.

Una delle cose che mi hanno da sempre reso catalizzatrice della vergogna di tutta la mia famiglia—ricordiamo, peruviana—è il non saper ballare alcun ballo latinoamericano. Andando anche più nello specifico, posso affermare senza rimorsi di essere una di quelle persone che non sanno compiere quel movimento sinusoidale dei fianchi in corrispondenza di musica più o meno cadenzata, distinguibile a seconda della ritmica e della provenienza geografica in: salsa, merengue, bachata, cumbia, reggaeton, huayno, saya, chicha e tutte le deliziose varianti del caso. Le due volte e mezzo in cui sono caduta in questa trappola ho sempre fallito su tutti i fronti in cui si poteva possibilmente fallire, vedi andare a tempo, essere a proprio agio, essere sexy, dare perlomeno l'impressione di star ballando.

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Senza divagare ulteriormente, parto con ordine raccontando di quando un mesetto fa ho festeggiato il compleanno in un ristorante peruviano di via Padova, e il dj/vocalist—c'era un dj/vocalist—continuava a mettere le cumbie più irresistibili, alternate a salse e bizzarre versione elettroniche di huaynos andini. Inconsapevolmente era già iniziato il mio ricongiugimento fisico—perché mentale, come dicevo, era in atto da un bel po'—all'Uno sudamericano. Tempo un mese infatti, ed ecco che ho radunato altri tre aficionados de Latinoamerica come me—in ordine alfabetico: Anisa, Luca e Mattia Costioli—per toccare con mano realtà che fino ad ora erano stato solo ipotizzate/fantasticate: un sabato sera in giro per le migliori discoteche latine di Milano era il minimo che potessimo fare per venire incontro queste esigenze.

È però importante a questo punto fare delle premesse. Una comitiva di quattro annientati come noi, vestiti prevalentemente di nero, frequentanti perlopiù posti come Macao in cui "basta muovere un attimo le spalle e sei già considerato un eccentrico" (cit. Mattia), non poteva che essere accomunata dall'handicap sopracitato, cioè la difficoltà motoria e psicologica ad approcciarci alla danza, nonché il generico senso di inadeguatezza che non farà fatica ad emergere dalle preziosissime documentazioni fotografiche a seguire, ne sono sicura. Altro fondamentale dato da specificare è che l'entusiasmo con cui ci siamo approcciati alla serata era in ogni sua manifestazione genuino, sincero, e non pregiudiziale. Evitiamo dunque di bollare il tutto come "Ah quelli di Noisey sono andati nei locali sudamericani per perculare gli sfigati che ci vanno, e la loro musica." No. Esistono evenienze specifiche che hanno portato a credere che fosse giunta l'ora di vivere questa esperienza, in questo specifico momento storico, e anche se non fossero esistite la nostra intelligenza ci avrebbe lo stesso impedito di ragionare come dei salviniani. Una volta un mio amico scrisse da qualche parte "Techno per te è finita," e dopo sabato direi che non esiste frase più vera.

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Il tour comincia in macchina con gli ascolti giusti.

Cominciamo da un posto che è vicinissimo al nostro ufficio ma dal lato opposto rispetto a dove ci trovavamo a cena: il ristorante cubano El Diablito, che la sera, nei weekend, si trasforma in discoteca a tutti gli effetti. Il proprietario Antonello, non appena ci vede, si premura che i nostri intenti siano pacifici e non irrisori—"Eh non si sa mai eh, l'altra volta era venuto un altro giornalista che ha detto che le donne qui sono tutte troie"—e ci fa lasciare le giacche in una sala piena di tavoli. La pista da ballo è in quella a fianco, ed è già gremita di coppie che prendono il ballo molto più seriamente di quello che potremmo mai fare noi nell'intero arco della nostra vita. La musica per adesso è salsa, o quello che perlomeno riconosco come tale, ma siamo appena arrivati e abbiamo bisogno di entrare nel mood. Niente di meglio che investire sedici euro in quattro tequile.

C'è una band che suona dal vivo e il pubblico—a prevalenza cubana, ma bello gremito di italiani—si divide tra chi è seduto ai tavolini/divanetti laterali, chi sta ai bordi della pista ballando timidamente ma con stile, e chi sta in mezzo alla pista, compiendo passi e movimenti così virtuosi da farci rimanere decisamente male. Ci mischiamo alla seconda categoria, mentre riflettiamo ad alta voce su come implementare il nostro appeal e lavarsi via l'inadeguatezza, che dopo una sola tequila a quattro euro, purtroppo, era ancora la prepotente protagonista. Nel mentre mi accorgo che è mezzanotte, è il compleanno di un nostro adorato collega, e decido di fargli il miglior regalo della sua vita registrando i "Tanti Auguri" in spagnolo che la band in quel preciso momento ha dedicato a un'altra ragazza, e mandandoglielo come nota audio.

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Il cantante mentre a sua insaputa fa gli auguri al nostro collega.

Mattia torna dal bagno e ci tiene a ribadire che "visti da dietro fate schifo," ed è questa forse la frase che smuove per la prima volta le nostre coscienze. Nessuno qui fa schifo. Siamo più intenzionati che mai a porre fine a questa condizione, e quindi optiamo per l'aiuto dal pubblico. I balli sono tutti in coppia, meglio se maschio/femmina, e visto che Luca e Anisa lo sono già, io e Mattia decidiamo di trovarci un partner virtuoso a vicenda. Purtroppo veniamo rimbalzati entrambi—una ragazza ha proprio detto "Chiedi a lei che è più brava," tradita però dall'espressione di disgusto/divertimento—e a quel punto la ferita narcisistica era divenuta una voragine. Quando ci riprendiamo un attimo da un tale affronto, avvistiamo un gruppo di ragazzi italiani, da poco piazzatosi su un tavolo nella sala di fianco. Li convinciamo, forse proprio grazie all'importante anti-appeal del momento, a insegnarci a ballare. Finalmente. Ci buttiamo in pista, dove nel frattempo la band ha finito ed è partito un dj set sempre a base di salsa con assaggi di reggaeton. La loro presenza al nostro fianco serve solo a ricordarci la nostra condanna all'ineguatezza eterna—leggi: non abbiamo imparato nulla ovviamente se non sentiti in soggezione di fianco a due persone infinitamente più in grado di stare al mondo di noi. È a questo punto che Mattia si sente dare del "tronco di legno."

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"Eh sei un po' un tronco di legno!"

Il mio partner invece non osa giudicarmi a parole, ma i suoi occhi e pure i suoi movimenti (non mi ha MAI toccato, neanche per sbaglio) parlano per lui: sto sbagliando qualcosa. "È strano, ce lo dovresti avere nel sangue!" mi dice la ragazza. Annuisco gravemente e mi allontano. Il virtuosismo dei ballerini che ci circondano è inversamente proporzionale al nostro entusiasmo, e dopo che Luca è stato scambiato più volte per fotografo ufficiale, stabiliamo che è l'ora di spostarsi al secondo locale, l'Amaranta, in zona Abbiategrasso.

Il secondo locale è più inculato, ma da fuori si presenta come un vero e proprio incubatore di latinoamericanità. Un cassone enorme di cemento con un'insegna al neon gigante in alto, "Amaranta". Saltiamo la fila in quanto VIP e una volta dentro io e Anisa ci avviamo verso la pista, dato che si stava innalzando un ritmo reggaetonesco—e ultimamente devo dire che ci sto abbastanza sotto—mentre i maschi, da bravi patriarchi, si affrettano ad acquistare da bere. Il nostro budget finisce in quel preciso istante, con due mojiti a venti euro. Ci tengo a precisare che la scelta dei mojiti non è casuale. "Al bar ci siamo interrogati su cosa prendere da bere. Alla fine abbiamo convenuto che non avrebbe avuto senso non prendere un mojito. A prendere del gin tonic ci sarebbe sembrato di ridicolizzare l'esperienza sudamericana." Un sentito grazie.

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Le cose che hanno reso la permanenza all'Amaranta decisamente più piacevole rispetto al Diablito, sono state innanzitutto i suddetti mojiti (buonissimi), il reggaeton, la quasi assenza di italiani, l'inspiegabile circolazione di narghilé, un mini buffet al bar, la presenza di specchi, e il calore umano—sì, sudavamo tutti come dei poveri pazzi. Io e Mattia capiamo che non abbiamo bisogno di nessun insegnante e che possiamo cavarcela da soli, così ci appiccichiamo e proviamo a darci un tono in mezzo alla folla.

Noi che ci diamo un tono

A differenza del Diablito, qui la gente sembra fregarsene completamente delle apparenze e se deve darci duro con las caderas ci dà duro sul serio. Inizio a essere un po' sbronza perciò il problema del non essere in grado non si pone. Non so bene come né perché ma più delle volte mi ritrovo a volteggiare tra le braccia del mio cavaliere patriarcale macho (Machia) Costioli, mentre il dj passa hit senza tempo e senza luogo come questa. Non mi sto neanche a chiedere come mai la conosco, la conosco e basta.

I mojiti vengono scolati in tempi irrisori e se prima eravamo tronchi di legno adesso perlomeno siamo degli agili giunchi. Ricordo di aver volteggiato una cosa come dieci volte di fila attorno al braccio di Mattia, con conseguente giramento di testa e disorientamento.

L'autrice in un momento di disorientamento

La scelta dell'abbigliamento scuro ha in qualche modo condizionato la messa in mostra degli effetti fisici della nostra passione nella danza: il sudore. Personalmente so bene di essere campionessa mondiale di sudata in ogni evenienza, ad ogni stagione, ad ogni ora del giorno o della notte, e vedere che in quel contesto TUTTI lo erano e non se ne vergognavano, mi ha fatto sentire protetta, al sicuro. Tanto che un po' mi dispiaceva essermi vestita di nero. Ogni cosa lì era al suo posto, e la sudorazione non costituiva alcun problema per nessuno.

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Quando sono iniziate ad andare le bachate, e quando hanno iniziato a scendere i mojiti, la situazione è un po' precipitata. Ancora belli sudaticci allora decidiamo di interromperla lì, e spostarci alla terza e ultima tappa del nostro itinerario latino: il Roxanne Café di via Ascanio Sforza. L'effetto sorpresa, almeno per me, era nullo perché c'ero già stata lo scorso anno per Progresso, e mi aveva fatto una buonissima impressione. In pratica è un seminterrato ricoperto di specchi ad altezza viso, con tonalità di luce perlopiù rossa e atmosfera super intima. I problemi erano altri però. Avevamo finito i soldi per bere, Anisa è dovuta tornare a casa prima, e l'aspettativa generale per la musica e la danza si era inevitabilmente abbassata. Nessuno se lo diceva apertamente, ma eravamo convinti che non si sarebbero raggiunte di nuovo le vette dell'Amaranta.

Per quanto mi riguarda le cose iniziano a svoltare per il meglio non appena il titolare decide—sempre molto patriarcalmente—di offrirmi un amaro, due secondi dopo che i miei colleghi avevano sborsato dieci euro per un drink. Drink che non era neanche più mojito ma gin tonic, per farvi capire il livello di disillusione.

Ci avviamo verso la pista, che è esattamente come me la ricordavo, con l'aggiunta di una componente olfattiva non indifferente. Non sono la sola a notarlo, e anzi, a un certo punto ce lo comunichiamo proprio in contemporanea tutti e tre.

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Quel momento è stato così divertente che abbiamo deciso di immortalarlo

La prima canzone che sentiamo appena entrati è una zarrata allucinante degna del Cocoricò, e la cosa mi abbatte moralmente peggio di qualsiasi pagina rossobruna su Facebook. Mi sento tradita e ferita. Sorseggio il mio amaro sconfitta, mentre il mio cervello fa rapide associazioni di idee e immagini sociologiche: forse qui è così perché siamo più in centro, la zona è più da fighetti e non c'è bisogno di mettere musica latina in un locale che si definisce tale, perché come sempre è l'Occidente globalizzato ad avere la meglio. Ecco perché i posti in periferia sono più true. Scuoto la testa sconsolata, e raggiungo Mattia, che nel mentre mi ha già sostituita.

Dissimulo con grande abilità la mia totale indignazione facendo finta di interessarmi ai loro discorsi. "Il mio fidanzato è cubano, e qui un tempo c'erano quasi solo brasiliani o cubani. Era meglio di adesso. Ora invece ci vanno anche gli italiani ed è peggiorato. Ballo solo questa musica perché mi annoio, e alla fine non è neanche così caro rispetto al resto dei locali. Se provi ad andare all'Old Fashion costa molto di più e nessuno sa ballare, quindi io e le mie amiche veniamo qui. Mi piace molto, anche se è un po' estremo. E poi i ragazzi sono più belli della media."

Decido di lasciarli soli e torno di là, appena in tempo per udire il vocalist comunicare con calore di alzare le mani per aria "porqué viene el reggaetooooon!" Ho un tuffo al cuore. Partono pezzi indefiniti grevissimi che in nessuno degli altri posti quella sera—e in generale in nessun locale frequentato in venticinque anni—avevo sentito a quel volume, con quell'atmosfera, e con quello Jagermeister in mano. Uno dopo l'altro, sempre più intensi e selvaggi, e lo sconforto iniziale è già diventato fomento assoluto. A coronare questo climax ascendente di gioia, due cubiste seminude a perrear su dei cubi a pochi centimetri dalla mia faccia—il perreo è quella speciale pratica di busto, gambe e braccia messa in atto durante un qualsiasi pezzo reggaeton/cumbiesco.

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Io che ballo con dietro le cubiste

Ritorna la sudorazione dirompente e mi vedo costretta a denudarmi. Abbandono giacca e felpa su un divanetto e mi ricatapulto con Luca a danzare, felicissima della mia vita e incurante dei movimenti pelvici dei miei vicini. Sarà stato l'amaro ma nessuno al mondo mi avrebbe convinta di non essere credibile, in quel momento. Neanche Mattia Costioli. E infatti quando torna dalle sue incombenze di reporter d'assalto non ho dubbi a riguardo: lo afferro e lo costringo a dimenarsi quanto la sottoscritta. Non ricevo proteste e il risultato è un momento di comunione e gioia difficilmente descrivibile a parole. Ci ha pensato Luca a immortalarlo.

Una nota di riguardo va alle cubiste, il cui perreo è talmente perfetto da essere interpretato dalla collettività come sacro. Gli addetti alla sicurezza, infatti, per tutta la durata del set reggaeton rimarranno fissi lì davanti, con il preciso ordine di allontanare in malo modo non solo gli eventuali allupati (nessuno), ma anche chi erroneamente crede di poter avvicinare il proprio corpo o i propri arti a meno di un metro dalla loro postazione. Mi rendo conto della cosa solo quando io stessa, per aver poggiato un piede a circa trenta centimetri dal cubo, vengo prontamente spinta indietro, al mio posto, tra i mortali indegni, pagani e corrotti.

Però l'ho presa sul ridere

La magia prima o poi finisce, e anche qui, come all'Amaranta, quel momento corrisponde alla transizione dal ritmo tropico-tribale del reggaeton a quello languido-sensuale della bachata. Nessuno di noi ha più denari per riacquistarsi da bere, e pure le cubiste sono scese e sparite chissà dove. La pista un po' si svuota, sono circa le cinque e nella sala con il bar alcune luci iniziano ad accendersi. Capiamo immediatamente di essere giunti all'epilogo, e ci avviamo fuori, sudati come asini ma felici. Sfatiamo il mito del Sad America.

Il Roxanne si è rivelato a mani basse il miglior locale della serata, e durante quei sani venti minuti di tragitto a piedi fino alla macchina sono volate affermazioni come "Altro che Macao," "Questa è la sola musica che vorrei ascoltare d'ora in poi," "Torniamoci sabato prossimo." Odio ripetermi, ancora peggio se ciò che ripeto non è neanche una frase mia, ma questa volta per la techno è davvero finita. Era anche l'ora, aggiungerei.

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