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Fotografia di Jeff Forney

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Musica

Come ho imparato ad amare e odiare i Muse

Ripercorriamo l'intera discografia dei Muse per capire perché i loro più grandi hater sono proprio i loro fan più accaniti.

A cambiare la mia visione della musica è stato un gruppo che mi ha affascinato sin da bambino, quando a otto anni guardavo su MTV quel video con il cantante che cadeva giù per un tunnel spaziale per tre, quattro minuti di fila. Avrebbe continuato ad affascinarmi, ancora con poca consapevolezza delle cose, quando quel video non passava più ma ce n'era un altro in cui tutto il gruppo suonava sopra un tavolo circondato da diplomatici ballerini. Avrei scoperto solo in seguito che era una citazione del Dottor Stranamore di Stanley Kubrick.

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Qualche anno dopo un video dello stesso gruppo mi avrebbe convinto a vendere tutte le mie carte di Yu-Gi-Oh! di modo che potessi comprare il disco che la conteneva, dato che ancora per un anno non avremmo avuto l'ADSL. Quella canzone aveva un sapore un po' R&B e un po' chitarrone e un video in cui tutto sembrava viscido, sfuggevole e grottesco. Si chiamava "Supermassive Black Hole" e il gruppo erano i Muse.

Sono abbastanza sicuro che non ci sia bisogno di presentarli, dato che sono uno dei gruppi più odiati e criticati dal circoletto degli appassionati di musica che non va a vedere i concerti a San Siro e ride dei Coldplay in gruppi Facebook chiusi. Ma non è stato sempre così: è vero, i Muse hanno fatto tutto e il contrario di tutto, ma se oggi sono quelli che sono è per una lunga serie di eventi che si sono concatenati alla perfezione.

I MUSE DEGLI INIZI

Quando uscì l'esordio dei Muse era il 1999 e la musica con le chitarre andava ancora forte. Showbiz era stato prodotto da John Leckie, che aveva già curato il suono di The Bends dei Radiohead. Mettiamoci il timbro vocale del cantante Matt Bellamy e le influenze condivise dai due gruppi e si arriva alla prima, grande critica riferita ai Muse: "Questi sono uguali ai Radiohead". La voce alta e i sospiri al microfono sarebbero comunque diventati una sorta di marchio di fabbrica dei primi Muse, che nel loro primo e intimamente immaturo disco parlavano di quanto fa schifo vivere nei paesini, del divorzio di Mr. e Mrs. Bellamy e di, beh, show business.

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I loro concerti erano già belli pieni, ancora caotici e viscerali. Showbiz li portò ad aprire ai Foo Fighters e ai Red Hot Chili Peppers, esperienza che li avrebbe fatti entrare per la prima volta in contatto col mondo dei grandi concerti. Ma la verità è che i primi timidi passi nell'industria musicale dei tre furono all'insegna del niente di che: roba scritta da ventenni un po' incazzati col mondo che si erano ascoltati qualche disco grunge di troppo.

Se il successo di Showbiz aveva creato delle aspettative intorno ai Muse, Origin Of Symmetry le mantenne e le superò. Non si può non considerare, diciassette anni dopo, che il loro secondo disco è stato il più importante della loro discografia. Rispetto al suo predecessore aveva un suono è più pomposo e ricercato, frutto dell'amore di Matthew Bellamy sia per la musica classica che per le parti più aggressive della musica che possiamo chiamare rock. È più che altro qui che i Muse costruirono le vere fondamenta della loro musica: i riffoni suonati tramite lo Zvex Fuzz Factory, l'uso non canonico di strumenti e non (nel finale di "Space Dementia" si dice sia stato registrato proprio Bellamy che tirava su e giù la zip dei suoi pantaloni), le velleità progressive applicate alla forma della musica pop.

A lanciarlo ci pensò "Plug In Baby", prima vera hit della band diventata grande classico da DJ set ROCK. Le evidenti differenze con i primissimi Muse portarono già allora a una prima rottura con i fan della prima ora, che li vedevano sul punto di vendersi. Anche questa, però, è stata una costante della carriera dei Muse: i critici più grandi della band sono sempre stati i loro stessi fan. Ma in ogni caso Origin Of Symmetry avrebbe cambiato la faccia della band e, sotto molti aspetti, pure quella dell'alternative rock. Se nel primo disco la paranoia di Matthew Bellamy si concentrava più sul suo piccolo, già da qui si allargava verso l'esterno: l'immaginario dell'album si rifaceva squisitamente alla fantascienza ma anche a teorie sull'universo.

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I MUSE DOPO L'11 SETTEMBRE

Un grosso punto di svolta per la carriera dei Muse fu l'11 Settembre. Sì, i Muse sono inglesi. Sì, il World Trade Center stava a New York. Quindi perché dovrebbe essere stato un punto di svolta? La risposta sta in un doppio singolo, Dead Star/In Your World, in cui Bellamy parlava proprio della paura generale di quel periodo. Pensate che un omino di venticinque anni paranoico fino al midollo potesse non essere colpito da uno dei momenti più paranoici della storia contemporanea?

Questo sentimento si sarebbe palesato maggiormente in Absolution, terzo album in studio del trio, prima metà di uno spartiacque nella carriera dei Muse e loro primo successo planetario a livello di vendite. In Absolution si parlava fondamentalmente della paura della morte e di quello che potrebbe accadere dopo. C'era ancora l'influenza della musica classica, c'era ancora il rock pomposo pieno di riffoni distortissimi, ma anche una maggiore spinta al ritornellone da cantare tutti insieme in qualche posto da non meno di diecimila posti ("Time Is Running Out", "Hysteria"). Insomma, Absolution era un primo compromesso tra volontà di conquistare il mondo e voler comunque continuare a prendersi sul serio.

Con lo schizzo alle stelle delle vendite anche i live diventarono più massicci, con i primi schermi moventi, i visual, i giochi di luce. Espressione massima di questa nuova dimensione fu il loro concerto a Glastonbury del 2004, una delle ultime volte in cui in un festival di tali dimensioni ha scommesso su un gruppo giovane e ancora non completamente affermato come gigante della storia della musica. Ad ogni modo fu il primo concerto ENORME dei Muse, che dimostrarono di trovarsi maledettamente a loro agio in quella dimensione.

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Una volta suonato a Glastonbury, i tre del Devon si imbarcarono in un tour americano. Partendo dal presupposto che Origin Of Symmetry non era uscito in America fino al 2005, va detto che il pubblico americano non sapeva manco chi cazzo fossero i Muse. Ma quale sfida migliore se non quella di conquistare pure gli Stati Uniti? Per riuscirci la band creò Black Holes & Revelations, cioè il suo ultimo disco bello e funzionante. C'erano ancora la musica classica e il neo-prog ma anche il rock danzereccio che passavano nei club americani, gli Strokes, l'indie rock e una prima, timida occhiata alla musica da stadio, quella alla U2 o anche alla Depeche Mode.

Black Holes era un disco che si apre con dei synth che esplodono in uno dei momenti più magniloquenti dei Muse ("Take a Bow") e prosegue tra singoloni ("Supermassive Black Hole"), chitarre spagnoleggianti, chitarroni nu metal e roba tipo Ennio Morricone meets Freddy Mercury. I testi erano costruiti su un dualismo vita privata/teorie del complotto. Mettete un cappello di alluminio in testa se ve lo ascoltate: Bellamy era al massimo della sua paranoia, tra invasioni aliene e vita su Marte tenuta nascosta. Ad ogni modo, questa formula fu abbastanza efficace da spalancare davvero le porte dell'America ai Muse.

Parte del merito se lo prese proprio "Supermassive Black Hole", che finì addirittura nella colonna sonora di Twilight: un altro momento da “madonna che venduti” anche se Matt Bellamy dirà poi che pensava trattarsi di un film horror di serie b. Ma grande parte va riconosciuta anche a "Starlight" che, con il suo beat da battimani e il suo testo melenso, fu capostipite di una serie di singoli-ballatone che non pare voglia tuttora finire. Ed è qui che è collocabile il secondo grosso punto di svolta per i Muse: nel 2007 furono la prima band a suonare nel rinnovato stadio di Wembley, due notti sold out in cui la loro pomposità venne sprigionata al massimo. La produzione, mastodontica, richiamava la testa di un alieno ed era pieno di riferimenti al controllo mentale.

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In manco dieci anni i Muse erano passati da mille a sessantamila persone ai concerti. Ma saranno stati soddisfatti? Eh, no.

I MUSE DOPO WEMBLEY

Che brutta deve essere la crisi di mezz'età, eh? Ecco, Matt Bellamy ci è arrivato a trenta anni. Subito dopo aver suonato a Wembley i nostri si rinchiusero nello studio di registrazione messo su dal cantante nella villa a Como comprata per vivere con la psicologa italiana con cui stava da anni. Da queste sessioni di registrazione sarebbe poi uscito The Resistance: un disco presentato come qualcosa di sperimentale, più prog dei precedenti, nato da un rinnovato amore di Bellamy per il romanzo 1984 di George Orwell.

Le hit del disco strizzavano ancora più l'occhio alle masse ("Uprising", "Resistance", "Undisclosed Desires"). C'erano i momenti dedicati al pianoforte, con tanto di cover di Chopin. C'erano nuovi momenti Queen e nuovi momenti U2. Ovviamente c'erano anche i riffoni, ma soprattutto i primi veri episodi di autoscimmiottamento ("Unnatural Selection"). Insomma, The Resistance è stato il primo vero disco meh dei Muse, ma in fondo anche l'ultimo in cui si poteva dire di essere loro fan senza essere perculati troppo.

A lanciare The Resistance ci pensò la già citata "Uprising", una sorta di marcia militare ispirata dal Marilyn Manson più accessibile ma che alla fine sembrava un pezzo dei Goldfrapp. La timbrica di Bellamy si fece più scura, un po' per scelta stilistica, un po' perché l'età avanzava e cantare per anni senza avere una formazione tecnica fa anche danni. Il pezzo parlava delle proteste contro il G20 e le banche, a dare l'addio alla già poca astrattezza rimasta nei testi di Bellamy a questo punto. Ma frasi come "It's time the fat cats had a heart attack” non sarebbero state neanche la cosa peggiore partorita dalla sua penna dal 2009 ad oggi.

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Esisteva, nei tempi pre-social network, un sito di riferimento per i fan dei Muse che si chiamava Muselive. Il suo slogan era perfetto per favi capire l'idea che la community aveva di sè stessa: "Rock for clever people", "Rock per gente intelligente". Ecco, arrivati a questo punto chi si rivedeva in quella dichiarazione aveva cominciato a dubitare di trovarsi ancora nel posto giusto, e mettiamoci anche che dal vivo la band aveva cominciato a suonare solo i singoli dei vecchi album. Ma la fede in Bellamy & co non ha veramente vacillato finché i nostri non hanno buttato fuori The 2nd Law.

Molte cose cambiarono nelle vite dei Muse nei tre anni che separarono l'uscita di The Resistance e quella di The 2nd Law. Il grande successo del disco in America portò Bellamy, separatosi dalla psicologa italiana, a trasferirsi a Los Angeles e a mettere incinta Kate Hudson. Chris Wolstenholme si rinchiuse in una clinica per combattere il suo alcolismo. Il primo pezzo di The 2nd Law a uscire fu "Survival", inno ufficiale delle Olimpiadi londinesi del 2012. Di solito le canzoni ufficiali di eventi sportivi parlano tipo di amicizia, buoni sentimenti, rispetto per il prossimo. Il pezzo dei Muse era invece barocco, cupo e suonava come se un omino estremamente basso stesse suonando una chitarra a sette corde davanti ad un coro.

Sembrava che i Muse, abbracciando definitivamente l'assurdità della loro musica, avessero trovato una nuova dimensione. Invece The 2nd Law si sarebbe rivelato un pasticcio di cose perlopiù senza senso con qualche bel pezzo in mezzo. Più che avere brani che suonano tutti diversi, sembrava che in ogni pezzo i Muse volessero fare una cover fatta male di qualche altro gruppo. C'erano il pezzo in 5/4 à la vecchi Muse (ma anche vecchi Radiohead), i pezzi Queen, il pezzo U2, il pezzo Foo Fighters, la dubstep con qualche anno di ritardo. Insomma, un altro passo falso.

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GLI ULTIMI MUSE

I fan dei Muse sono i più grandi hater dei Muse perché provano una sensazione molto specifica. Quella di essersi sentirsi traditi da qualcuno che prima ti capiva e diceva esattamente quello che avresti voluto dire te, fosse anche solo per carica emotiva più che per scelta di parole, e che alla fine ha deciso che non gliene fotte un cazzo di quello che senti, come se un po' ti avesse manipolato per arrivare ad un fine. Quindi potete immaginare l'esaltazione che Bellamy scatenò in chiusura del tour della band dell'estate 2013, quando suonò due pezzi vecchissimi e di cui in fondo nessuno sentiva veramente la mancanza: "Agitated" e "Yes Please", b-side dei tempi di Showbiz. Al termine dell'esibizione, Bellamy disse le fatidiche parole: "Il prossimo disco dei Muse suonerà così".

Finalmente, dopo aver fatto un sacco di cose diverse, i Muse, i nostri Muse, stavano per tornare a casa! Peccato che non sia andata proprio così. Il primo presagio negativo fu la scelta di affidare a Mutt Lange, cioè il produttore degli AC/DC, la produzione del disco: una scelta non proprio adatta all'anno in cui è stata fatta, cioè il 2015. Drones si è rivelato un disco pieno di cose stupide che cercavano di affrontare temi seri: la guerriglia tramite droni, l'alienazione di chi combatte nell'esercito, la rottura di Bellamy con Kate Hudson. Peccato che Bellamy lo faceva con la profondità di un ragazzino di terza media che doveva scrivere il tema degli esami.

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Ma insomma, non è che faceva tutto schifo. "Dead Inside" è sicuramente un pezzo pop riuscito, carichissimo da un punto di vista emotivo. Il ritorno al passato c'era davvero e si chiamava "The Handler". Ma c'erano anche momenti bassi, come i dieci minuti di "The Globalist" o il singolo "Revolt", che sembra la sigla di una qualche serie tv degli anni Ottanta. Insomma, è qui che anche gli irriducibili hanno perso praticamente ogni fede nei Muse. Sì, la band iniziò anche a esibirsi di nuovo nei club per suonare le vecchie glorie e far battere ancora i cuori stanchi del suo vecchio pubblico, ma da allora i concerti "generali" si sono fatti sempre più statici e meno di impatto, delle baracconate pre-impostate spacciate per grandi innovazioni.

In quest'ultima era i Muse non hanno fatto niente di che. Hanno suonato sempre negli stessi posti più o meno sempre le stesse cose, sembrando pure molto annoiati. Sarà per questo che hanno cambiato idea subito. Oggi i Muse sono tornati a giocare con l'elettronica e i singoli un po' stupidini. Lo dimostra Simulation Theory, loro ottavo album in studio. L'impressione è che i tre si vogliano divertire, parlare di quello che gli pare e farlo suonando quello che gli passa per la testa. Nello specifico, sembrano essersi presi una sbandata per il revival synthwave: musica da videogiochi, serie tv e film pop anni Ottanta.

Il risultato è a tratti sorprendente. È come se i Muse fossero riusciti a ritrovare una parte di quell’ispirazione che nei precedenti dischi pareva scomparsa. Lo si sente nelll’iniziale "Algorithm" e nei suoi synth, nel pop robotico e quasi imprevedibile di "Propaganda" e "Break It To Me", nella solenne conclusione di "The Void", in cui un per niente rassicurante Bellamy ripete che “they’re wrong”. Certo, ci sono pezzi trascurabili e altri pensati puramente per far contenti i fan del gruppo. Ma sono pochi, per fortuna. La sensazione è che stavolta ai Muse non sia fregato nulla di scontentare qualcuno.

Simulation Theory non è un disco della vita. No, se ti fanno schifo i Muse non cambierai idea: anzi, avrai solo altri motivi per avvalorare le tue tesi. Ma finché si divertono va bene così. Noi fan non saremo più uniti come una volta, ma in fondo io gli vorrò sempre bene, come ad anziani genitori che cominciano a fare cose a caso perché non ci stanno più tanto con la testa.

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