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Musica

Una discussione con Vincent Moon su cultura, spiritualità e identità

Abbiamo parlato con il regista, etnografo, ricercatore e musicista nomade, autore del monumentale progetto audiovisivo 'Híbridos: The spirits of Brazil'.
Sonia Garcia
Milan, IT
Foto via Tumblr.

Il trentottenne Mathieu Sarau, meglio conosciuto come Vincent Moon, ha alle spalle una decennale carriera come fotografo, regista, etnografo, ricercatore, musicista, che non accenna certo ad arrestarsi. La sua arte si manifesta sotto svariate forme, e tende a trascendere la dimensione “terrena”, prediligendo sempre l’approccio olistico, spiritualmente connesso con gli elementi della natura.

La musica è il territorio nel quale ha iniziato la sua carriera come regista/film maker, dapprima di video più o meno convenzionali per gruppi indie-rock, per tutti gli anni 2000, dopo i quali ha sentito il bisogno di approfondire livelli ulteriori di coscienza, di cui il contesto culturale occidentale era carente. A partire dalla sua Parigi si è così “nomadizzato”, e ha fatto di questa ricerca la sua ragione e forma di vita: nei suoi innumerevoli viaggi ha raccolto materiale video, sonoro, fotografico, etnografico in cui protagonista è proprio la natura più ancestrale e, ai nostri occhi, nascosta della musica. Perlopiù affascinato da quella tradizionale di una vasta moltitudine di popoli e culture non-occidentali, Moon raccoglie da anni i suoi field recordings con il minimo indispensabile—portatile, camera e microfono—e carica tutto sulla sua piattaforma/label Petites Planetes. “Incontro la gente locale sul posto,” aveva raccontato in questa intervista per Lifegate nell’ottobre dello scorso anno, “non professionisti, e gli propongo di ospitarmi per la notte in cambio di un momento di cinema”.

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Hibridos: The spirits of Brazil è l’ultimo lavoro di Moon, in collaborazione con Priscilla Telmon e Fernanda Abreu, un progetto multidisciplinare nato dal “desiderio di esplorare le svariate forme ritualistiche del Brasile, la loro musicalità e movimenti.” Inizialmente pensato in forma di lungometraggio (che è comunque stato realizzato), si è poi evoluto in una costellazione molto più complessa di registrazioni audio e video svoltesi nell'arco di tre anni sul territorio brasiliano.

Il film, come del resto la totalità dei suoi lavori, è contemplativo ed evidenzia l’aspetto “poetico” della ritualità ancestrale brasiliana, è privo di dialoghi, e lascia totale libertà di immaginazione allo spettatore. Se da un punto di vista qualitativo trasmette un senso di armonia e profonda connessione con la spiritualità locale, in termini di valore sociale la questione si complica. È impossibile non individuare delle problematicità in un scambio unidirezionale tra realtà socio-economiche così distinte da quella dei paesi del nord globale, che per l’appunto sono quelle da cui Moon attinge per i suoi lavori. Siamo tutti concordi sulla necessità che nord e sud del mondo hanno di incontrarsi e fondersi, senza omettere che il nord sia ancora politicamente, economicamente, socialmente e culturalmente influente sul sud. In che modo l’artista, nel caso di Hibridos e in generale, si rapporta con le diversità che poi ri-racconta nei suoi progetti? Come inquadra il suo lavoro, considerando le dinamiche di potere che sorreggono le società in cui nostro malgrado viviamo e ci muoviamo, e che responsabilità proietta sull’arte in questo quadro? Ho provato a sviluppare l’argomento con lui via Whatsapp, in occasione della proiezione del film al festival di cinema Seeyousound a Torino, tenutosi al Cinema Massimo dal 26 al 4 febbraio.

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Noisey: Definisci ‘invisibile’ la dimensione spirituale insita in ogni aspetto del reale, resa spesso invisibile, appunto, agli occhi dei più. Perché però lo chiami così, se è una condizione che è sempre esistita, e probabilmente sempre esisterà?
Vincent Moon: È il modo in cui tante ‘tradizioni’ si riferiscono a questa forza, non chiamandola con nomi di divinità, ma accettando il fatto che esistono forze più forti e impossibili da leggere, per noi uomini. Forse non le puoi vedere, ma sicuramente le puoi sentire… puoi percepirne gli effetti. Trovo lo stesso che questo ‘invisibile’ sia estremamente poetico e sfidi l’ottusità del pensiero materialista occidentale medio… non può che essermi d’ispirazione, specialmente perché lavoro con le immagini.

La tua ricerca dell’unità con l’invisibile avviene secondo lo schema dell’”arte per l’arte”?
No, non credo nell’”arte per arte,” fine a se stessa. Ti farò l’esempio di Maya Deren, una delle registe sperimentali più incredibili del XX secolo. Era bravissima, e allo stesso tempo molto impegnata socialmente e politicamente, molto intellettuale. Stabile a New York, è diventata un’icona del femminismo, molto radicale anche nei confronti di Hollywood e dell’establishment statunitense. Lei aveva il suo personalissimo modo di fare cinema, completamente DIY, senza fondi economici. A un certo punto della sua vita, decise di girare le spalle al mondo artistico in cui viveva, e di cui era una sorta di sacerdotessa, per dedicarsi allo studio dei rituali voodoo ad Haiti. Ai tempi nessuno capì la sua mossa, e tuttora in molti si chiedono il perché di una simile scelta. Io invece capisco bene. Mi rivedo molto nel percorso spirituale che ha intrapreso, e l’ho realizzato io stesso dopo aver partecipato a così tanti rituali e sentire che vogliono approssimare il più possibile il potere dello spirito. Non è qualcosa che posso spiegare a parole, come ho già detto più volte. Lei, come me, ha colto l’aspetto ritualistico della vita. È la forma d’arte più pura, nonché la più bella che abbia mai visto in vita mia.

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Questa arte si trova nei rituali ancestrali, siano essi in Amazzonia, o tra i Sufi, non importa. Non è semplicemente “arte per arte”, ma “per coscienza”. È l’unico modo di fare arte che conosco e concepisco. È l’unico modo per raggiungere un livello più elevato di coscienza. Ultimamente sono ossessionato dallo stato di trance: ho vissuto diversi tipi di trance, in molti rituali a cui ho preso parte, ognuno dei quali mi ha portato a interrogarmi profondamente sul mio rapporto con la realtà. Quello che cerchiamo di fare col mio cinema e col nostro lavoro, in particolare quando ci occupiamo di live cinema o installazioni che possano coinvolgere lo spettatore di più, pur rimanendo un contesto non intellettuale, è riportare nella nostra società l’elemento della trance. Tutto questo perché è uno stato naturale fantastico che dobbiamo tornare ad assumere, per progredire.

La nostra società globalizzata è afflitta da un’altra piaga: quella della proprietà. La visione spirituale della vita, invece, prevede al contrario che tu non possa possedere nulla. Semmai sei posseduto dagli spiriti. È molto interessante, perché secondo me entrambe le cose lavorano insieme. Questo perché la spiritualità non ha diritti d’autore. Tutti i miei lavori, vecchi, presenti e futuri, sono “copy free”, svincolati da alcun nesso con ipotetici “proprietari” o “brevetti” Perché? Perché non è possibile essere proprietari di niente, è sbagliato credere il contrario: la natura è nostra proprietaria, basta. Mi piace l’idea di non possedere niente: ho con me sempre il minimo indispensabile, che nello specifico sono due borse. Non voglio possedere niente, voglio essere posseduto. Mi concentro sullo switch di mentalità: da proprietario a proprietà di qualcosa. È eccitante, emerge questo aspetto giocoso della nostra realtà che al vero centro del mio lavoro.

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In quanto membro attivo di una società collocata in una parte di mondo geopoliticamente privilegiata, mi risulta un po’ complicato vedere del “giocoso” nel rapporto tra contesti così diversi in termini economici e politici. Il pubblico occidentale però sembra che oggi non chieda altro: essere suggestionato da alcuni aspetti della vita dell’”altro”, per trarne ispirazione. Hibridos a mio avviso è un po’ sospeso a metà tra queste due interpretazioni: è visivamente appagante e bello, “poetico”, ma mi chiedo: in che modo giova alle comunità che hai ripreso e con cui sei entrato in contatto?
Qualsiasi interpretazione intellettuale dei miei lavori può chiaramente generare reazioni forti, ma quello che abbiamo tentato di fare con il film è stato invocare una sorta di preghiera. Credo fortemente che le vibrazioni possano oltrepassare ciò che le persone recepiscono tramite l’intelletto. Sono interessato a sapere cosa sogna il pubblico, dopo aver visto il film. Cosa genera il loro subconscio, e in fondo sono sempre contento quando genera reazioni così intense. Fintanto che proviamo ad aprire nuovi percorsi sperimentali nell’arte verso l’invisibile, io sono entusiasta!

Detto ciò, mi piace che tu metta davanti il contesto sociale, è un altro modo di dipingere la realtà. Tuttavia credo che sia una chiave di lettura fuorviante, che porta a fraintendimenti. Anzi, è proprio la concezione della realtà più occidentale di sempre. Il mondo occidentale vuole convincere tutte le altre cosiddette ‘culture’ che la politica, il sociale, l’economico sono aspetti dominanti del nostro quotidiano, che quindi prevalgono nella realtà. Anche io ho questo background, vengo da una famiglia francese totalmente non spirituale, che si è sempre rifiutata di accettare l’esistenza dell’invisibile. Quando ho iniziato a lavorare e quindi a viaggiare, ho realizzato che questa visione ristretta della realtà non era ciò che provavano queste altre persone. Ti faccio un esempio pratico. In Brasile, ho avuto modo di conoscere il capo (o cacique) della tribù dei Yawanawá, che vivono al confine con il Perù—la mia esperienza con loro fa parte del progetto Hibridos, nonché del film. È un uomo incredibilmente saggio, che ha viaggiato tantissimo per il mondo per comprendere la mentalità dell’uomo bianco. È tornato nella sua piccola tribù per far evolvere quel pensiero, ma in un modo molto intelligente. Una volta mi disse: "Accogliamo spesso molti ricercatori occidentali, qua tra di noi. Hanno tutti un sacco di cose in mente, scrivono molto, pensano molto. Stanno un po’ di mesi, poi se ne vanno, e ci mandano i libri che scrivono sulla nostra cultura e tradizione. Leggo il libro e penso che sia davvero un bel lavoro, ma rispondo sempre che è la loro prospettiva sulla nostra realtà, non la mia. La nostra cultura indigena è impossibile da descrivere a parole, o da raccontare per iscritto. Non può essere inquadrata così". Questo esempio, secondo me, dice molto più di qualsiasi mia giustificazione sul cinema che faccio.

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Però la domanda è lecita: come costruisco un mondo migliore? Ecco, secondo me per rispondere a questa domanda non c’è bisogno di enfatizzare gli aspetti sociali, economici e politici della nostra realtà. Investiamo troppa energia su questa narrazione. Basta guardare il cinema statunitense: i registi sono al 95% ossessionati con lo storytelling. Impazziscono per raccontare storie da un punto di vista estremamente materialista… è triste. Credo sinceramente che mettere così tanta enfasi su questo tipo di sguardo verso il reale sia dannoso, perché mette in disparte quello poetico, la poesia della vita. Sono anche convinto che in qualsiasi manifestazione poetica del reale ci sia già insito un messaggio politico ben preciso, che parla da solo. Abbiamo perso il senso della bellezza, guardando il mondo con questi occhi, e interagendo col prossimo con così tanti costrutti mentali legati al concetto di identità. Il prossimo non è un’altra identità.

Quello che abbiamo provato a fare è stato interrogarci su quali siano i veri strumenti del cinema, per approssimare al meglio i processi spirituali dei popoli indigeni, e di chiunque sia vicino a questa dimensione. Visto da chi è interno all’ambiente, quindi anche dalle persone delle stesse comunità, è visto come qualcosa di positivo. In molti mi hanno chiesto come avessi fatto, perché capisci, non si tratta più di intelletto ma dell’invisibile.

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Che confine vedi tra ispirazione e appropriazione, quando si tratta di rapportarsi con culture “altre” dalla nostra? Come ti poni nei confronti del pensiero post-coloniale, che auspica a una progressiva decolonizzazione della società?
Mi viene posta spesso questa domanda, che personalmente trovo incredibile. La gente è davvero ossessionata con il post-colonialismo. Secondo un mio amico—ma anche secondo me—è un po’ retaggio dell’antico senso di colpa giudeo-cristiano, che ci sta distruggendo. Il nostro rapporto con la storia è complesso, non possiamo mai andare troppo a fondo e indietro nel tempo. Quando dici che non possiamo comparare comunità indigene con quelle in cui siamo abituati a vivere noi, per queste fantomatiche “differenze” socio-geo-politiche, ti risponderei subito che non è vero. Molte realtà indigene sono più occidentalizzate di quello che pensi, ed è sbagliato pensare che non dispongano degli stessi strumenti e opportunità che abbiamo noi. Tanta gente con cui ho avuto a che fare è su Facebook, anche se magari non ha l'elettricità in casa, né nel villaggio. Si collegano ogni volta che trova la connessione, magari andando nel villaggio vicino che ce l'ha. Il mondo è cambiato tanto velocemente negli ultimi dieci anni, così come il concetto di identità.

Le cosiddette "identità" si sono andate fondendo, ed è proprio questo che mi affascina della nostra era e della nostra società. Sappiamo tutti che veniamo dall'unità: perché non torniamo indietro alle origini della storia? Sappiamo che l'homo sapiens è nato in Africa, quindi siamo tutti africani in fondo. Se andiamo ancora più a fondo scopriremo che siamo tutti polvere di stelle. Quanto è bello questo pensiero? Al posto di essere tante razze o popoli diversi, ne siamo uno solo, quello della natura. Trovo meraviglioso questo tipo di ragionamento, e mi impegno perché torni a far parte del dibattito moderno. Questo perché credo che l'era digitale odierna sia una porta aperta verso la riconnessione con l'unione originale del tutto. È chiaro? A volte penso che essere troppo chiari nei pensieri sia nocivo: preferisco sempre lasciare spazio al mistero. Credo che sia necessario per ognuno di noi avere un nostro tempo e spazio di crescita, perché possiamo intraprendere il nostro personale cammino in pace.

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Quello che mi preme sottolineare, tramite tutto questo, è che l’identità è una trappola. Il modo in cui basiamo il nostro giudizio sul prossimo, tenendo conto dei fattori economici, filtrando tutto attraverso la lente del colonialismo, che ha creato tutte le ingiustizie massicce, etc… è un trappola. È tutto parte di un meccanismo fondato sul senso di colpa che è perfettamente rappresentato dal pensiero postcoloniale. La posizione postcoloniale non permette al prossimo di fondersi con altre identità. Viviamo in una società che è ossessionata dall’identità, dal difendere le diversità, ma in un modo malsano, per nulla poetico ed esclusivamente politico. Ad esempio la lotta delle donne contro la violenza maschile, la riaffermazione dei diritti dei neri negli Stati Uniti… è tutto molto importante, ma il modo in cui viene fatto ci intrappola. Non abbiamo possibilità di unione, né di contatto ravvicinato l’uno con l’altro se seguiamo questo percorso, composto quasi solo da lotte e scontri. Purtroppo l’arte stessa sta diventando troppo politicamente impegnata, quindi più ovvia e banale. Manca del tutto il mistero. Ciò che cerco negli artisti con cui poi mi piace lavorare, e creare legami più stretti, è il rinnovato interesse nel mistero, che altro non è che una relazione poetica che prevede e genera mistero. Da quel mistero, per me, è possibile creare di nuovo l’unione originaria.

È un tema cruciale questo: il postcolonialismo ai miei occhi è totalmente sbagliato. La verità va ben oltre queste visioni così ristrette della vita. Fra poche ore sarò in India, e mi sto interessando molto all’induismo. È una religione che, al contrario, ha una visione del mondo molto più profonda, è bellissimo! L’induismo riguarda l’unione, che è sia punto di partenza che di arrivo della religione stessa. Per questo l’India è un paese così religiosamente tollerante, e continua far confluire al suo interno così tante realtà spirituali differenti, da tempo immemore. Lì è evidente quanto le differenze non esistano realmente, e siano solo un aspetto superficiale delle cose. In un certo senso ho provato a raccontare questa grande unione intrinseca dei popoli e culture che ho visitato, e quando la gente mi chiede se creda che abbiano davvero qualcosa in comune rispondo che sì, assolutamente, hanno tutto in comune! Siamo tutti uguali, al massimo con qualche lieve variazione. Smettiamola di parlare di queste differenze, diversità, della cultura…

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Quindi sei indifferente all’evidenza che, purtroppo, tante minoranze vengono discriminate per la loro diversità? Che concetto hai di cultura e identità, in questo senso?
L’idea della cultura che ho è strettamente legata a quella di identità, e ripeto, mi intristisce vedere come siano l’ossessione più grande di noi occidentali. La pretesa che la decolonizzazione sia la chiave per il miglioramento della nostra specie mi fa un po’ incazzare, sinceramente. Decolonizzare equivale a rassegnarsi che il pianeta venga congelato in questa visione egemonica occidentale, e lo trovo sbagliatissimo. Stiamo chiedendo a culture non materialiste di ragionare in modo materialista, è questo il postcolonialismo. Ti cito uno dei miei scrittori preferiti, Terence McKenna, tra le menti più brillanti degli ultimi 50 anni. "La cultura è una trama contro l’evoluzione della coscienza. Ci troviamo in una fase dell’evoluzione umana in cui ci dobbiamo liberare del concetto di cultura, che è in realtà una creazione intellettuale. Non è mai esistita. C’è solo la natura”. La cultura nel modo in cui è stata concepita può solo creare divisioni e muri. Dobbiamo reinventarla, cambiare i termini tramite quale definirla. Questi termini sono il rimescolamento, una sorta di remix della versione originale, e la natura è la DJ migliore. La natura, fin dagli inizi dei tempi, ha continuato a rimescolare le sue componenti, per creare nuove entità. Abbiamo molto da imparare da questa lezione: dobbiamo cercare nuove forme di interazioni, sperimentare come possiamo, specie nelle forme d’arte. Solo così, a mio avviso, la nostra società si potrà salvare ed evolvere: riacquistando il profondo attaccamento all’invisibile.

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Chiaro che le lotte politiche sono estremamente importanti. Non chiedetemi però di prendervi parte, perché tutti noi abbiamo un ruolo nella società, e il mio è questo. Bilanciare il rapporto con l’invisibile. Se non rispettiamo le lotte degli altri, non andremo mai da nessuna parte. Dobbiamo armonizzare le nostre visioni, e credo che la chiave sia unirle.

Trovo che sia molto più facile per chi proviene da un contesto socio-culturale dominante perseguire questo stile di vita, decontestualizzando totalmente la spiritualità dai restanti aspetti—economici e politici—della realtà. La stessa coesistenza di diversità culturali, il modo in cui tanti si preoccupano di preservarle/difenderle, non è da interpretare come ossessione malata dell’uomo moderno, ma come forma di sopravvivenza delle stesse. Tutto perché il mercato globalizzato in cui questi processi hanno luogo non rappresenta e/o reprime qualsiasi voce non detenga abbastanza potere/valore politico. Se le innumerevoli comunità indigene del mondo cessassero di difendere ciò che è, ed è sempre stato loro, e non si confrontassero in termini politici con il mondo occidentale—che è poco sensibile alla loro causa—non staremmo neanche qui a parlare di com’è stato entrare in contatto con la loro spiritualità. Il tuo approccio alle identità e al multiculturalismo, hai già detto prima, che è “giocoso”. Pensi che sia sostenibile, nello spazio e nel tempo, questa volontà di non interferire con gli aspetti “materialisti” della realtà?
Per me assolutamente sì. La realtà è giocosa di per sé, e non sono io a dirlo. Non è vero che non puoi divertirti se ti ci rapporti, anzi, devi. È così che sono concepite le culture. La vita è un gioco, un’illusione, qualcosa di soggettivo. È pura immaginazione, e dobbiamo solo essere più bravi a elaborarla nella nostra mente. La nostra società è macabra: ossessionata con la morte, la sparizione e la sopravvivenza delle culture… una volta però uno sciamano mi disse: “Non ti preoccupare. Smetti di essere così drammatico su tutto. Gli spiriti non scompariranno. A volte si addormentano per periodi lunghissimi, ma poi si svegliano sempre”. Ecco, gli spiriti si stanno svegliando, ora. Madre Natura sta tornando a mostrarsi, e in un modo più che intenso. Non si fermerà presto. Faremmo meglio a riacquistare solo più umiltà, quando ci rapportiamo al pianeta, e la spiritualità è l’unica via secondo me.

Riguardo le comunità indigene capisco bene il tuo discorso, e credo che dobbiamo sì stare attenti a come “proteggiamo” la loro cultura. Non penso che tutti i processi di questo tipo siano invano, in fondo, però penso anche che viviamo in una società estremamente conservatrice, ed è l’opposto di come queste conoscenze si sono evolute. Non esistono le tradizioni, ok? Sono solo costruzioni intellettuali elaborate in un certo momento storico. Sono interessato ai più piccoli “errori” di trasmissione delle stesse, nelle tradizioni orali tra culture e generazioni diverse. Le macchine e l’era digitale fa parte di questo processo, se vogliamo sopravvivere come specie, ed è per questo che parlo spesso di “mistero” o uso lo schema dell’improvvisazione quando creo. Per evitare ogni perfezione.

Il cinema e i documentari moderni sono privi di mistero, ne sono profondamente convinto. Non lasciando che ci sia libertà d’interpretazione, non permetti al prossimo di essere soggettivo. Per questo nel modo in cui facciamo cinema, non vogliamo mai lasciare tutti gli indizi e le motivazioni riguardo ciò che abbiamo fatto. Non vogliamo ficcare nelle teste del nostro pubblico nessun tipo di messaggio, sarebbe manipolazione. Voglio creare uno scambio fondato sul mistero. Anche ora, mentre tento di spiegare questo concetto, sto specificando troppe cose e non mi piace. A volte però devi saperti difendere, tramite la chiarezza.

Capisco. Se da una parte trovo interessante la spinta oggettiva verso la ricerca spirituale nell’arte—ma anche nell’individuo—dall’altra ritengo che svincolarla dal suo valore sociale, arrivando ad affermare che non esistano culture o tradizioni, specie quando queste non sono dominanti globalmente, possa essere problematico. So che la pensiamo diversamente, ma è stato importante affrontare il discorso in prima persona e ti ringrazio.
Lo stesso vale per me! Ti ricito McKenna, che ha veramente lasciato il segno in termini di vera decolonizzazione del nostro pensiero in relazione al cosiddetto “diverso”. Non esiste niente di simile alla cultura, se vai a fondo in essa. La nostra ossessione è solo frutto del lavaggio del cervello capitalista, che in realtà è più che superficiale. Se si va veramente a fondo, si ritrova l’unità originaria delle cose, come tutte le tradizioni spirituali già sanno.

È buffo come i discorsi sulla spiritualità spesso evitano il tema della trascendenza, e rimangono fissi sulla formula religiosa del capire la distanza tra Dio e credente. Penso sia davvero un segno indelebile del trauma giudeo-cristiano. Ti ringrazio anch’io, un saluto!

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