james senese napoli centrale
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Musica

James Senese è il musicista più importante della storia d'Italia

Figlio di un soldato afroamericano e una donna napoletana, James Senese ci ha convinto che è grazie a lui se c'è il rap in Italia, se esiste Pino Daniele e che i giovani "nun sann' nient".

È un lunedì particolare quello in cui mi accingo a partire per Napoli. C’è un minaccioso allarme maltempo, codice arancione, per cui le scuole sono chiuse e si prevede una bomba d’acqua. Questo però non mi impedisce di motivarmi e raggiungere un preciso obiettivo: intervistare James Senese. Quello che è a tutti gli effetti "il sax di Napoli", quello che molti hanno scoperto grazie alle sue performance nei dischi di Pino Daniele, ma soprattutto un esempio di meticciato nostrano in tempi non sospetti, quando non dovevamo ancora essere bombardati da stronzate agghiaccianti sui "danni dell'immigrazione”.

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James è infatti pioniere, oltre che musicale, anche culturale: contraddizione vivente, spesso chiamato "figlio della guerra", è nato da un soldato afroamericano e una napoletana DOC. Di questi due mondi James conserva l’elettricità e soprattutto una grande sensibilità. Viene dalla strada, James, ed è uno degli ultimi baluardi di resistenza umana. Ogni suo gesto è un concentrato di credibilità, eleganza e rifiuto per tutte le ingiustizie dei potenti. A vederlo sembra una versione partenopea di uno dei suoi miti: Miles Davis.

Senese mette soggezione ma è di un’umanità incredibile e conserva un umorismo e uno spirito che a 77 anni farebbero gola a chiunque. Il suo intercalare è ritmo allo stato puro, è groove. Infarcisce i suoi discorsi di napoletanissimi hai capit', che suonano come degli you know tipicamente americani. A James non lo freghi, te lo dice con gli occhi appena entra in contatto con la tua zona. Per questo ero molto emozionato, tanto che per stemperare il tutto io e il mio braccio destro in questo viaggio ci siamo fatti una pizza fritta completa prima di incontrarlo. Caso strano, ma neanche troppo, quel giorno a Napoli non ci sarà nessun disastro naturale: uscirà l’arcobaleno prima e il sole poi. Con questo buon auspicio saliamo negli studi adibiti all'intervista e rompiamo il ghiaccio con il terzo caffè della giornata, ricordando un film storico in cui lui era assoluto protagonista.

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Allora James, volevo iniziare superando a sinistra Lello Arena nella famosa scena di No grazie, il caffè mi rende nervoso in cui lui ti intervista. Lui dice "Vi faccio la prima domanda" e tu rispondi "Me vuoi fa la seconda dumanna?" Per cui ecco, io inizio direttamente dalla seconda: quand’è che la musica è entrata nella tua vita?
James Senese: Non esiste che uno può sentire di poter suonare, no? Credo che sia un fatto naturale, quello di cercare una strada diversa da quella che uno immaginava. Io ho sentito questo suono di sassofono senza neanche conoscerlo e me ne sono innamorato subito.

E dove l'hai sentito per la prima volta?
Dai juke box. Avevo dieci, undici anni.

Qual è il disco che te l'ha fatto conoscere? Se te lo ricordi.
Il discorso è che allora la musica era tutta da scoprire. Arrivavano i juke box in Italia e la musica sembrava tutta bella. Mi ricordo che tra i primi ad arrivare ci fu Little Richard. Lì ho sentito una parte arrangiata di sax. Questo suono strano, potente.

Quasi tutti i musicisti italiani della tua generazione hanno vissuto il passaggio dagli orrori della guerra alla libertà portata dagli americani, sia a livello sociale che musicale.
Da qui gli americani sono stati quasi i primi a passare, forse pure prima degli arabi. In passato i napoletani erano più americani che napoletani. Non ascoltavamo musica nostra ma i dischi che ci portavano loro. Io ascoltavo i dischi swing di mia madre, cose come Glenn Miller. I primi dischi, che erano poi 45 giri che andavano a 33.

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Le tue prime esperienze in una band sono con i 4 Con giusto? All'epoca ti facevi chiamare James King.
Non proprio. A tredici, quattordici anni io e Mario Musella, con il quale dopo siamo diventati gli Showmen, eravamo molto vicini. Io abitavo a Miano, dove abito tuttora, mentre lui era di Piscinola, a due km di distanza. Poi è venuto ad abitare nel mio palazzo e ci siamo conosciuti. Lui era batterista, non cantava ancora. Ci siamo conosciuti e non ci siamo lasciati più. E abbiamo fatto i primi percorsi per poter entrare nei gruppetti di allora, no? Il mio primo gruppo non sono stati i 4 con, ma Gigi e i suoi Asters.

E che genere facevate?
Ma niente, facevamo le cover, come si faceva allora. Non eravamo compositori, eravamo dilettanti. Poi ci sono stati tanti altri gruppetti di cui non ricordo neanche il nome e poi siamo passati ai 4 con, che si sono trasformati in Vito Russo e i 4 Con. Già lì si sentiva la musica, qualcosa di più professionale, l'inizio della nostra vera storia.

Fra te e Mario c'era quindi una corrispondenza umana e artistica molto forte. Tu sei mezzosangue nero americano, lui era mezzosangue Cherokee.
Io e Mario stavamo sempre insieme. Se andavamo in un gruppo andavamo tutti e due. A un certo punto abbiamo deciso di non andare più a suonare per gli altri ma di fare qualcosa di nostro, e abbiamo costruito gli Showmen.

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All'inizio anche voi facevate cover degli anni Trenta rivisitate in chiave R&B.
Si, sempre cover. Ma erano a 360 gradi, universali. Abbiamo fatto night club in tutta Europa no, hai capito? E da lì abbiamo fatto un provino per l'RCA e siamo stati presi.

Poi c’è stato il successo.
Si, "Un'ora sola ti vorrei" e tutto il cammino che abbiamo fatto.

Ma poi, perdonami il gioco di parole, il successo ha fatto succedere il vostro scioglimento.
Non è andata proprio così. Il problema è che dopo anni di successo il nostro cantante, come tutti i cantanti di ogni gruppo, si è montato il cervello ed è scappato via. Però il gruppo l'abbiamo sciolto solo in un secondo momento. È che nessuno poteva prendere il posto del nostro cantante, capito? Non volevamo ci fosse qualcun altro 'nsomm.. che arrivava bell e buon’... e così abbiamo deciso di andare su un’altra strada. Fu molto difficile lasciare a livello economico tutto quello che avevamo e cambiare direzione. Facemmo gli Showmen 2 per rompere con il passato e poi costruimmo Napoli Centrale. Incontrammo questi due americani, il pianista Mark Harris e il bassista Tony Walmsley, e da lì è iniziata tutta la rivoluzione possibile.

Il disco omonimo degli Showmen 2 a me piace moltissimo. È un'interzona di stranissimo prog-funk prima dei Napoli Centrale.
Quello era un passaggio dovuto. Era la prima volta che si componeva, io e il chitarrista Piero Alonso, che poi è sparito pure lui.

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Il batterista era sempre Franco Del Prete.
Sì, e lui ha sempre collaborato coi Napoli Centrale, anche se non sempre come musicista fisso.

I Napoli Centrale invece sono etichettati sempre come jazz-rock. Che ne pensi?
Eh, non confondiamo. Napoli Centrale è stata una rivoluzione di linguaggio popolare, capito? Chiaramente eravamo più portati sul soul. Io ho messo insieme due linguaggi: quello mediterraneo, napoletano, e quello americano, che avevo dentro naturalmente. Trovare due americani che ci aiutassero è stata una fortuna, altrimenti non avremmo mai potuto fare qualcosa del genere.

Sono d’accordo, io ho sempre visto i Napoli centrale come una sorta di nuova canzone popolare napoletana.
La rivoluzione è stata poi la rottura con la tradizione napoletana. Gli unici che erano d’avanguardia allora erano Renato Carosone e Peppino Di Capri. Dunque noi abbiamo rotto anche questa cosa qui. Abbiamo aperto una strada che non c’era, hai capito? Anche tuttora.

Ma non solo con la musica, anche con le immagini. La copertina del primo disco è iconica, un manifesto, come i testi di Del Prete.
Noi abbiamo sempre cantato in napoletano perché è una lingua importante, di sentimento. E facemmo evolvere anche il linguaggio. Non si canticchiava più la canzone melodica, si andava oltre.

Il contenuto dei testi rispecchiava questa voglia di andare al sodo.
Il contenuto era popolare, apparteneva alla nostra tradizione del sud. Che poi è anche quella del nord! Volevamo difendere una parte del popolo.

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Anche in Showmen 2 percorrevate quella via. "Abbasso lo zio Tom" era un pezzo contro il razzismo potentissimo, ancora tristemente attuale vista la merda che stiamo vivendo oggi.
Esattamente. Vabbuò, ma quando tu stai avanti è sempre attuale, no? Mi sono entusiasmato quando ho risentito Showmen 2, ed è una musica che ho fatto io, mica l’ha fatta un altro. Ho detto "Ma che è possibile che io abbia fatto questo?"

Quando l’hai risentito ultimamente?
Mah, poco tempo fa. Perché c’era una struttura, un arrangiamento tremendo, un0idea illogica. Oggi sarebbe ancora più difficile farlo. Invece l’abbiamo fatto.

I Napoli Centrale hanno poi trainato la scena napoletana verso qualcosa di nuovo.
Si, tutta quanta. Poi da qui sono nati Pino Daniele, Enzo Avitabile. Io ero il maestro di Avitabile, hai capito? E di Pino specialmente, perché lui era un rockettaro allora. Sapeva poco della musica, era un istintivo, non conosceva esattamente quello che doveva fare. E gli ho insegnato molte cose.

napoli centrale mattanza

Prima di parlare di Pino, ti devo chiedere del secondo album dei Napoli centrale, Mattanza. Mi sono sempre chiesto: ma il titolo? A cosa era rivolto, in quel periodo storico?
Noi guardavamo il mondo in modo diverso. Ci volevamo rivolgere a quello che era la Spagna allora. La mattanza dei tori, no? Siamo sempre stati contro queste atrocità tremende, mentre gli altri si divertivano noi invece soffrivamo e abbiamo costruito, appunto, Mattanza.

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E c’è dentro quel bellissimo, commovente, meraviglioso brano che è "O nonno mio".
Quello è un modo come un altro per far valere quel sentimento che in parte abbiamo perso. U nonn', a nonn', mammà, papà. Oggi i giovani tutti scappano da questa realtà, ma come fai a fare a meno dei punti di riferimento? Da lì parte ogni cosa, lì c’è la vita, c’è tutto.

Secondo me Mattanza è l'inizio di una fase più spirituale dei Napoli Centrale. C’è una tensione verso l'alto assente nel primo disco.
La cosa bella sai qual è? Che noi non eravamo dei musicisti chiusi in camera come siamo adesso. Non stavamo nel paesetto. Eravamo a 360 gradi, andavamo a guardare tutto quello che era intorno a noi. Di negativo e positivo. Andavamo oltre a quello che la gente poteva immaginare, ci piaceva esplorare i nostri sentimenti e i sentimenti degli altri.

Il mio disco preferito dei Napoli Centrale del primo periodo è Qualcosa ca nu' mmore. So che tu sei un grande appassionato di Coltrane, e lo sento molto affine al feeling di A Love Supreme.
Hai detto bene, sono stato sempre innamorato di Coltrane. Mi sento vicino a lui a livello sentimentale e non solo tecnico. Da una parte cercavo da una parte di suonare il mio strumento come lo suonava lui, diciamo così. E dall'altra invece poi ci stava il canto, perché la mia voce rappresentava i Napoli Centrale. E avevo cercato di mettere assieme queste due cose, di farle funzionare come un unico corpo. Comunque diciamo che in determinati brani era molto difficile seguirmi.

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Beh, lo immagino.
Perché io sono imprevedibile. Riesco a non essere quasi normale. Il sistema non riesce a dominarmi. Oggi come oggi sono diventato cantante, però quando non voglio fare il cantante lo faccio uguale, mentre gli altri non lo possono fare. La differenza fra un cantante che canta e un cantante James è enorme, perché io posso stravolgere definitivamente il canto. E questa è una dote che c’ho io proprio perché il sistema insomma… me ne futt, me ne sono sempre fregato. Io non cantavo prima, strillavo. Era un modo di liberazione. Non sapevo come fare, allora perché cantare? Nun cantavo, basta. Urlavo, strillavo. Vedi se puoi imitarmi: non ci riesci proprio, non ci puoi riuscire. Anche il cantante "cantante" non ci riesce.

Parlando di cantanti, in quel periodo nei Napoli Centrale arriva Pino Daniele al basso. Questa cosa è curiosa, in quanto lui era chitarrista ma a voi serviva un bassista. E prima suonava con Bobby Solo, che casualmente mixò alcune tracce di Mattanza.
Pino è arrivato normalmente. Mi ha telefonato a casa dicendo, "Ho sentito Napoli centrale, mi fa impazzire e vorrei suonare con te". Queste sono state le sue parole. Ok, vieni a casa, dicett’, fatt averè. È arrivato e mi è stato subito simpatico. Abbiamo discusso un pochettino della cosa, ma lui ha detto che non poteva comprare il basso. Allora glielo abbiamo comprato noi, e via.

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E lui ha suonato in Qualcosa ca nu' mmore?
No! Lui non ha mai suonato nel disco. Ha fatto i live dopo.

E quanto ha portato di suo Pino nei Napoli centrale?
Mah, non è che ha portato molto. Diciamo che da una parte è stato fortunato, perché io gli facevo aprire i concerti oltre a suonare con la band. Lo facevo entrare facendogli fare due brani a lui prima del concerto, e io lo accompagnavo col sax. E da li è nata tutta la storia.

Perché a una certa vi siete presi una pausa? Che cosa è successo veramente dopo il 1977?
Non c’è stata una pausa, il discorso è molto complicato. Avevamo questo manager, questo fetentone, che era diventato anche manager di Pino ma era da sempre stato il nostro. Quando gli facemmo conoscere Pino lui ci disse che non gli interessava. E non lo pagava. Lo pagav’ ie.

Ah, lo pagavi tu?
Eh. Lui non lo pagava. Lui diceva, "Lo vuoi mettere? Mettilo, ma io non lo pago". Non aveva capito niente, in poche parole. Io pagavo Pino sia per quello che faceva nei Napoli Centrale che per le sue aperture. Questa è solo una delle cose che ha combinato quel manager. A un certo punto poi ha cominciato a vedere veramente qualcosa in Pino e si è intrufolato in mezzo. Ha fatto tutto quello che ha fatto, nel bene e nel male. Più male che bene, però.

Poi quindi hai incominciato a fare dischi da solo e con Pino, che non si è mai dimenticato del suo maestro.
In realtà Pino ha lasciato Napoli Centrale perché c’aveva un contratto. Aveva già fatto il primo disco, quello con "Na tazzulella 'e cafè", e si trovò legato a questa casa discografica per tre anni. E poi ho collaborato con lui nei suoi primi dischi di successo, tra cui Nero a metà.

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In cui tu hai un peso specifico notevole in sede di arrangiamento.
Ma non c’era arrangiamento. La sua fortuna è stata che aveva all'interno del gruppo tutto l’iter capito? Tony Esposito, io, a noi non misero niente davanti. Niente partiture. Lui suonava e noi suonavamo. Questa è stata la fortuna di Pino. All'interno del gruppo poi ognuno aveva il suo spazio, ma lo spazio ce lo creavamo noi. Non è che lui diceva suona così o suona colà. Eravamo tutti liberi di fare quello che facevamo.

Poi però c’è il tuo primo disco da solista, nel 1983.
Qui stai sbagliando, io non ho mai lasciato Napoli Centrale. Il problema era che alla casa discografica conveniva scrivere il mio nome perché era diventato più popolare di quello del gruppo. Ma io sono sempre stato il compositore, il cantante e il solista dei Napoli Centrale. Siamo la stessa cosa, capito?

E quali erano le influenze dei tuoi dischi negli anni Ottanta? Si sente l’eco della new wave,dei Talking Heads, dei Weather Report di Jaco Pastorius.
Eravamo un gruppo che conosceva quello che gli altri non conoscevano. Appunto Coltrane, Weather Report, tutta quella musica che qua non c’era, non c’è mai stata e non c’è neanche adesso.

Tu sei anche un grande fan di Miles Davis, giusto?
Esattamente. Tutto quel bagaglio eravamo e siamo tutt’ora noi. La musica per noi è questa gente qua mentre gli altri vanno da altre parti. Forse nun i sann proprio. I dischi di Miles sono tutti belli, perché dipende da come tu vuoi sentire col tuo cervello. A me mi fanno stare talmente bene quelle note, quel suono, quella dimensione.

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Che ne pensi della nuova generazione di musicisti napoletani?
Ma i giovani non sanno neanch’ un cazz. I giovani nun sann' nient… i giovani vanno con la moto. Due e due fanno quattro, questo fanno! Anzi, addirittura 'sto fatto che i giovani conoscono quello che noi non conosciamo perché vanno a cercare delle situazioni, delle musiche dove bla bla bla. Ma è una moda. Sono tutti uguali. A me sembrano 'e formicole, a regina da una parte e tutt’ e formicole appress.

Hai suonato recentemente a Gaeta Jazz con i Nu Guinea e loro si rifanno anche al sound dei Napoli Centrale. Sono giovani, sono considerati il nuovo suono di Napoli. Ti piacciono?
Mah, 'nsomma. Guarda, io sarò anche mezzo pazzo o mezzo fiss, ma oltre la musica americana non riesco ad andare. Perché quella sta a cinquemila anni luce davanti capito?

Tu poi hai seguito gli USA anche quando è uscito l’hip-hop giusto?
Si tutto, ho seguito tutto. Ma tutto, ma prima degli altri capito?

Te lo chiedo perché in "'Ngazzate nire" te la prendevi con Jovanotti e denunci lo sfruttamento semplicistico e commerciale dell'hip-hop.
Diciamo che io sono stato uno dei primi a fare il rap in Italia, mentre oggi tutti fanno 'o rap… ma andate a sentire i dischi dei Napoli Centrale, altro che rap. Il problema è questo, no?

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Mi sono sempre chiesto perché Pino invece ha accettato di collaborare con Jovanotti. Tu invece con le collaborazioni sei stato sempre molto selettivo. Perché?
Perché non mi interessa e non trovo nessuna collocazione. Che mi serve, un cantante che canta? Che cazzo me ne faccio? Io c’ho bisogno di esplorare la musica. Ben venga un grande musicista che io rispetto e stimo. Ma non collaborare cumm fann i cantanti, Bocelli e cos. Quella è una moda.

Parliamo dell'ultimo disco, Aspettanno 'o tiempo. Cade nel cinquantennale della tua carriera ed è un live.
È arrivato perché doveva arrivare, insomma. Dopo una ventina di LP finalmente un live fatto seriamente. Con una parte in studio, di sentimenti.

C’è un brano inedito di Edoardo Bennato, "L'America", che parla di te.
Quello è un regalo che mi ha fatto Edoardo. Nun me l’aspettavo proprie, è stato molto carino. Siamo molto amici, c’è molto rispetto. Anche se ognuno poi ha la sua strada.

E poi c’è anche un altro brano inedito.
Si in realtà ce ne sono altri due. C’è "Route 66", uno strumentale, ma soprattutto c’è un brano brasiliano tratto da Orfeo negro. Una cover che facevo trenta, quarant'anni fa. Ho voluto metterci un testo sopra e mi ha affascinato, mi è uscito un brano bellissimo secondo me.

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E invece l’exploit di "O' Sanghe"? Ti aspettavi che vincesse la Targa Tenco nel 2016?
No non me l’aspettavo, ma è chiaro che tutto arriva. Era giusto che fosse così perché è l’unico disco secondo me originale all'epoca in circolazione, a livello di linguaggio. Io compongo i testi da poco e dunque è stata una grande cosa per me vedere che quelli hanno convinto. Io non avrei mai accettato testi di altri perché nessuno conosce la mia vita. Quindi mi sono messo in proprio.

Come Dalla insomma, quando in Com’è profondo il mare ha preso coscienza delle proprie potenzialità ed è stato un successone.
Esattamente.

Quel disco in qualche modo prevede amaramente la deriva razzista, populista, intollerante e becera di questo governo. Tu non credi che uno dei motivi di tale disastro sia anche e soprattutto dovuta alla mancanza di educazione alla musica, all'arte?
Il discorso è complicato. Tutti guardano le cose come se stessero guardando un film, e poi se ne dimenticano. Io faccio il contrario, assorbo talmente tanto quello che c’è fuori che poi non riesco più a dialogare con te. Quindi mi chiudo in me stesso cercando qualcuno che possa capire che cosa ci sta fuori veramente. Per me domani non è un altro giorno. L'indifferenza fa male, veramente. E poi però si commuovono quando vedono Amici di Maria de Filippi, il Grande Fratello. Quello che si vede con la moglie si abbraccia, piange… sono ridicoli. Mentre ci stanno cose fuori che fanno paura veramente. Lì ci stanno i sentimenti veri.

Sentimenti che poi entrano nei tuoi dischi, mentre non mi pare che oggi come oggi ci sia tutto questo coraggio nel descriverli e metterli in gioco.
Si. Questi fanno delle cose allucinanti, e invece siamo abituati a guardare i film come vogliamo noi. Questi "artisti" sono superficiali. Non vogliono guardare, capito?

Nella musica è invece importante guardare.
È chiaro. Come hanno fatto gli americani. Pensa che coltrane per dare da mangiare alla sua famiglia si vendeva le scarpe, camminava scalzo, a piedi, dormiva in strada. Nessuno lo sa, no? E andava a suonare per quattro o cinque dollari. Se faceva o mazz. Ma per dire, tante cose che la gente non sa. Ma chi è Miles Davis? Vai a vedere chi era Miles Davis, come ha vissuto Miles Davis, come hanno vissuto questi qua. E come continuavano a vivere, anche avendo fatto successo dopo.

E poi tu a livello di origini la senti molto forte questa cosa. Immagino che pure i primi anni della tua vita saranno stati complicati, per usare un eufemismo.
È chiaro. Ma guarda, secondo me quello che mi fa male a me è che io sono mezzo americano e mezzo napoletano.

E questa cosa ti fa male?
Eh si. Perché da una parte soffro, e soffro anche dall'altra. Dunque non posso fare a meno di guardare l'America e guardare Napoli, o sud mio no? Non è che posso estraniarmi. È la stessa cosa quando suono. Una parte aggia suonà Napoli e l’altra parte aggia suonà l'America. Però tu vorresti essere una sola cosa no? Ma non si può fare. Però la cosa bella sai qual è? Che finalmente dopo tanti anni il mio suono è diventato e sta diventando popolare. Cioè quando sentono 'o sassofono di James è Napoli, capito? E nessuno lo può fare. Nessuno.

Ti ricordi quando avete fatto la reunion con Pino, per Ricomincio da 30? Cosa ricordi di quel periodo?
Eravamo tutti con lo stesso manager. Non c’è stata nessuna reunion. Nei primi ottanta siamo stati chiamati per fare Nero a metà e li è nato il gruppo. Ricomincio da 30 per noi era normale, fra noi c’è sempre stato un amore particolare. Quando pino diceva "dobbiamo riunirci", noi eravamo tutti d’accordo. Ma perché era l’unica situazione in cui ognuno di noi si dava veramente. Eravamo una sola cosa, insomma. Se ti chiama un altro da fuori tu ti metti a tavolino e dici ci voglio andare, non ci voglio andare, voglio tot soldi. Invece per noi non era così, eravamo della stessa scuderia.

Ehi c’aveva ragione sulle famose due misure e miezz, tu o Franco?
Io ovviamente! È chiaro. Ci salutiamo, non prima di fargli firmare la copia di Nero a metà grazie a cui l’ho conosciuto musicalmente. Il disco era di mio padre, e in James ne riconosco un altro. Quello della nostra coscienza di musicisti, che devono necessariamente schierarsi contro il potere, l’appiattimento, le mode. E soprattutto contro la questione della razza, perché ne esiste solo una: quella che “sa dove sta”.

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