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Musica

Odiati dalla critica, amati dal pubblico: 50 anni di Led Zeppelin

Per tutti quelli che hanno scritto ZoSo sul banco di scuola.

Jimmy Page e Jeff Beck erano amici ancor prima di suonare assieme negli Yardbirds, una dei gruppi più avventurosi della British Invasion. Sì, proprio quelli che si vedono spaccare gli strumenti in una famosa scena di Blow Up. Nel 1966 Jimmy vede spesso Jeff e gli dà una mano per "Beck’s Bolero", futuro inno hard-rock; giorni di session in compagnia, fra gli altri, di un certo Keith Moon alla batteria e John Paul Jones al basso. Gli incontri vanno alla grande, al punto tale da far venir voglia ai ragazzi di metter su un progetto musicale. Moon sentenzia che la band “would go over like a lead balloon” ("volerà come una mongolfiera di piombo"), che è un modo per dire fiasco totale. No, un "lead Zeppelin", un dirigibile di piombo, corregge John Entwistle, il bassista degli Who presente alle registrazioni.

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Quel gioco di parole rimane nella testa di Page, quando, due anni dopo, i New Yardbirds dovranno cambiare nome.

Cinquant’anni di carriera per una band che la critica specializzata del periodo ha quasi sempre schifato, ma che di contro ha colto il favore dei giovani di ogni generazione dal momento in cui cominciarono a metter piede su di un palco.

Quando nel ‘69 viene pubblicato il primo album, quello che contiene "Dazed and Confused" o "Good Times, Bad Times", Rolling Stone scrive che Page è un giovane talentuoso ma che ha una scrittura povera e senza immaginazione. Robert Plant viene etichettato come “prissy”, un presuntuoso che ulula. Non convincono, sono ridondanti, monotoni. Era dura cominciare il gioco delle rockstar durante la cavalcata lugubre dei Doors, nei giorni dei Cream e di Jimi Hendrix. La critica pare viziata o dai gusti troppo sopraffini, ma il pubblico la pensa in modo diverso.

Già nei giorni del tour dell’album di debutto cominciano a girare le prime leggende che tanto piacciono agli ascoltatori di Virgin Radio. Non so se avete mai sentito parlare di quell’aneddoto di quando Plant e Morrison si incontrarono su un aereo e finsero di non conoscersi. Beh, probabilmente è una cazzata.

È vero invece che il 27 Luglio del ‘69 al Seattle Pop Festival a suonare tra Santana e Ike & Tina ci sono anche gli Zep e i Doors. La performance del re lucertola è deprimente come gran parte dei suoi ultimi mesi, c’è questo momento durante "Light My Fire" in cui lui cerca di abbozzare una forma di rap e quegli integralisti di rocker maniaci lo fischiano e gli tirano qualche birra addosso. La prestazione si conclude con il gruppo che lascia il palco e Morrison gonfio e stordito immobile davanti al pubblico. Quella doveva essere la serata dei Doors, gruppo all’apice della carriera, ma la parabola di Morrison era discendente e quando i Led salgono sul palco il loro concerto fulmina Seattle. A quanto pare, più che sugli album, la potenza biblica del gruppo era una roba da live.

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“Non sono mai stato a un concerto degli Zep, ma alcuni amici (molti di loro sono il tipo di persona, devo ammettere, che ascolta tutto purché sia in condizioni pietose e a un volume inaudito) descrivono una fragorosa, indistinta onda di marea sonora che non assorbe ma avvolge per impedire ogni tipo di distrazione”, scrive Lester Bangs nella famosa recensione dedicata al terzo album. “Di tutte le band in circolazione, gli Zep sono davvero oggi: la loro musica è effimera come i fumetti della Marvel ma al contempo vivida come un vecchio cartone in Technicolor. Non sfida l’intelligenza o la sensibilità di nessuno, preferisce invece un impatto viscerale che assicurerà ai ragazzi una fama assoluta per molto tempo a venire”.

Negli anni il rapporto con la critica non migliora, nonostante le 23 milioni di copie vendute (solo negli USA) di Led Zeppelin IV. Perché nel 1972 i Rolling Stones di Exile on Main Street sono i cocchini della stampa e loro si ritrovano sempre ad essere bistrattati come “gruppo per ragazzini”? Hype? È quello che si chiede Page, che con Houses of the Holy vuole far capire al mondo che i Led sanno essere ben di più, s'intende, di una band che fa blues per bianchi. Un album che vede un assottigliamento degli assoli e più strutturati all’interno delle canzoni, come nel caso di “The Song Remains the Same”. “The Rain Song” è la ballata lentissima e si dice che sia figlia dei suggerimenti di George Harrison a John Bonham, il quale gli fece notare che il problema della band era che mancavano le ballate. Ironico, se uno ci pensa, dato che "Stairway to Heaven" è tipo la ballata dei DJ rock per eccellenza, eguagliata forse solo da "Nothing Else Matters". Insomma, in Houses c’è spazio per la rickynelsoniana “D’yer Maker” con intromissioni reggae, la soul e “ironica” (per citare Susan Fast, che scrisse un saggio universitario sugli Zep) “The Crunge”, la violenza onirica mellotronica di Jones in “No Quarter”, i cambi di tempo e la coda swing in “The Ocean”, ma, ehi, alla critica non va bene comunque.

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“Limp Blimp”, il dirigibile sgonfio, questo è il soprannome che RS affibbia alla band dopo l’uscita dell’album. Tra l’altro con House, per la prima volta, Plant e compagnia si ritrovano parole critiche anche dal pubblico. Per dirla con il giornalista Michael Walker ( What You Want Is in the Limo), House è un album che è “Terra aliena, incognita e ancora non gentrificata dai bianchi di provincia, quella del dub e del soul”. Insomma, roba troppo fine per l’ascoltatore medio (e anche per il critico?).

Nel 1973 un anno dopo l’uscita dell’album scrive Peter Doggett, noto studioso della pop-culture: “Gli eroi del nuovo decennio, dai Grand Funk Railroad ai Led Zeppelin, non vendevano nulla di più significativo della loro celebrità".

Sarà, ma se i “Rolling Stones erano come i Kings of Leon, dei fighetti, i Led Zeppelin erano roba da working class” (Ross Halfin). Attorno alla band si crea quell’atmosfera esoterica e malvagia che ha alimentato articoli e biografie per anni. Plant e Jones erano la luce, Bonham e Page il buio, ed è davvero inutile stare qui a raccontare di tutte le cose già trite e ritrite sull’aspetto occulto della band, ma è tutto sommato interessante inquadrare la fascinazione nei confronti di Aleister Crowley e della magik da parte di Page e di come gli adolescenti ne stessero subendo per proprietà transitiva; i Led erano il gruppo di riferimento dei minorenni, del proletariato urbano e del campagnolo, allora succubi della fascinazione del male ormai inevitabile dopo i postumi del periodo hippie. Per dirla con le parole del vecchio promoter Bill Graham, gli anni Settanta erano un periodo di anarchia senza causa e violenza maschile.

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Una delle leggende più divertenti sugli Zep è quella riguardante gli squali e le groupie.

A quanto pare è una storia vera, almeno a fidarsi delle parole di Vanessa Gilbert, amica del gruppo che l’ha raccontata su A oral history of Led Zeppelin. Siamo nel ‘69, nonostante siano ancora agli albori, la band è già un circo che va in giro in compagnia di una valanga di droga in corpo, groupies, fontane di whisky, cose così; sostano all’Edgewater Inn e, nella vulgata popolare, in una delle camere d’albergo una groupie viene penetrata (anche analmente) dalla testa di uno squalo. Un WTF che viene ridimensionato ne Il martello degli dei: secondo Richard Cole, il tour manager, è John Bonham che in preda all’entusiasmo appoggia la testa di una sorta di ventresca sul sesso di una ragazzetta dai cappelli rossi.

Dove cavolo avrebbero trovato il pesce? Guardate questa foto, questi sono i Beatles mentre pescano da una camera dell’Edgewater.

Nella versione di Vanessa quella sera c’era una bella atmosfera, lei e Jones stanno fumando una canna quando un Bonham euforico dice loro di venire a vedere qualcosa di incredibile in camera. Nel bagno c’è la vasca piena di questi “mud-shark” di media grandezza che ancora si agitano, tutti pescati dal batterista. Si presentano un paio di ragazze, nei ricordi di Vanessa una delle due ha delle unghie talmente lunghe da farle paura e l’altra indossa una calzamaglia. Vanessa è ancora una bambina. Bonzo e gli altri prendono i dentici e li sfregano su una delle due ragazze, poi la situazione scappa di mano a causa delle droghe e dell’alcool. La camera viene svuotata, tutto viene lanciato dalla finestra, anche i portaceneri; e quando finalmente Bonzo si accorge di trovarsi nella sua camera d’albergo si tranquillizza come un bambino e crolla in un sonno profondo.

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Negli ultimi tempi è venuta fuori una versione piuttosto inquietante, raccontata da Carmine Appice, storico batterista di Rod Stewart che allora suonava nei Vanilla Fudge. Secondo Appice la ragazza si era presentata alla porta degli Zed dicendo loro di voler girare un filmino (qualcuno nei paraggi aveva una Super 8) ed era stordita dalle droghe, a letto, quando Bonham e Cole si sono presentati con lo squaletto ancora vivo. Qualcuno li ha ripresi mentre giochicchiavano con la mandibola del pesce sul sedere di lei e con la coda ancora viva, a schiaffeggiare le parti intime. E a quanto pare, sempre secondo Appice, successivamente avrebbero anche fatto altro, tipo sesso. Il filmino non esiste, ma se esiste, probabile che si trovi nella teca privata di qualche ultramiliardario russo con la passione per i cimeli più strambi. Noi comuni mortali dovremo accontentarci di una canzone che Frank Zappa dedicò alla storia nel 1971, “Mud Shark”.

Page si è preso il pezzo più grosso della torta nella storia della musica rock, contro la volontà dei critici, in nome di “tutti i ragazzini che nel 1975 disegnavano nelle loro camerette l’enigmatico ZoSo”. Parole della dottoressa Donna Gaines, sociologa e storica collaboratrice di Rolling Stone. “Era un simbolo che unificava la suburbia di tutto il Paese. I bambini ZoSo erano la legacy degli Zep. Per lo più maschi bianchi, figli del proletariato affascinato dalla cultura di massa, richiami pagani ed edonismo figlio dei Sixties”.

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E la cosa è andata avanti, sarà perché la loro musica qualcosa di pericoloso, spirituale e oscuro ce l’aveva sul serio. Tipo Physical Graffiti, album che ancora suona così misterico, una composizione arcadica, soprattutto se ascoltato nell’edizione imperfetta degli outtakes. Se dovessimo scegliere un pezzo di quell’album come non citare "In the light", otto minuti che racchiudono un po’ tutta la loro ambigua essenza.

Eh sì, Page si è preso il pezzo più grosso, nonostante le accuse di plagio, a volte evidenti, nonostante le miriadi cover band che hanno sfornato, nonostante i loro album fossero “qualcosa di splendido nel suo insensibile schifo”, nonostante l’aver inventato e venduto lo stile di vita Zep, immaginario dello spreco e del lusso, quello delle limousine interminabili e delle puttane sempre disponibili, marchio di fabbrica del rock edonista dal quale l’America riuscì a salvarsi (per qualche anno) solo con la filosofia straight edge e hardcore della Washington di Ian MacKaye.

A Plant, Page e Jones rendiamo grazie soprattutto una cosa: di lasciarci festeggiare il loro 50esimo anniversario senza patetiche e senili reunion o chissà che cafonate. Al massimo, se proprio non potete farne a meno, potreste seguire il tour di Robert Plant che, con il suo ultimo album, l’elegante Carry Fire, ha dimostrato di non aver mai perso quel suo inimitabile “ululato.” Io non l’ho mai visto live, ma quello che mi dicono amici fidati è che Robert Plant sa ancora incantare tutti, da vero stregone. Gli abiti del dio della musica non può più indossarli, ma la voce è sempre quella. Anzi, semmai è maturata.

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