Chi sono davvero i musicisti dalla parte di Donald Trump?

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Chi sono davvero i musicisti dalla parte di Donald Trump?

L'altra faccia della medaglia: vi raccontiamo chi sono tutti quei musicisti saltati sul carro del vincitore del Presidente Trump, dal cowboy nudo di Times Square a Kanye West.

Sono passate un paio di settimane dal momento in cui ho cominciato a scrivere questo articolo, un paio di settimane dall'elezione di Donald Trump come Presidente degli Stati Uniti. Aspettatevi in tempi brevissimi una cinquantina di saggi pronti a sbarcare sugli scaffali delle librerie di mezzo mondo occidentale, seguiti da centinaia di articoli universitari ed una (parzialmente già prodotta) quintalata di penne giornalistiche pronte a descrivervi il perché e il percome una figura come quella trumpesca sia riuscita a farsi eleggere Presidente degli Stati Uniti d'America. Non è mia intenzione sparare merda sul nuovo Reagan o abbassarmi al livello di homo erectus con un'affermazione del tipo "Almeno LORO lo hanno eletto il Presidente", piuttosto cercare di starmene a meditare sull'incredibile distacco tra elettori e figure pubbliche (o di rilevanza sociale e culturale, mettetela come più vi pare): ha vinto il candidato più odiato dalle celebrità nella storia. Tuttavia è giusto chiedersi, ma chi sono i musicisti e i cantautori che hanno supportato Trump? Se ci fidiamo di Wikipedia sono ben pochi, soprattutto se paragonati a quelli che hanno sostenuto la Clinton. Il rapporto è di uno a cento circa. La Clinton dal canto sua ha una lista immensa che contiene nomi come Trent Reznor, 50 Cent, Pearl Jam e così via, mentre Trump si ritrova con un manipolo di simboli dell'epopea redneck, tipo Robert Burck, un tizio conosciuto come Naked Cowboy. Proprio quello, quello del video di "Rockstar" dei Nickelback (che siano sempre maledetti).

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Il cowboy nudo, tra l'altro, nel 2010 decise di candidarsi alle presidenza, fallendo ovviamente. È davvero difficile diventare Presidente se hai passato la tua vita in mutande per le strade di New York, un po' meno complicato diventarlo se a New York esiste un grattacielo col tuo nome.  Robert Burck è da sempre noto per essere un conservatore, legatissimo ai Tea Party, movimento che esplose con Sarah Palin proprio agli inizi degli anni Duemila e che pareva essere andato a farsi friggere. Un fritto misto di populismo anti-sistema, religioso e fieramente anti-federale (da qui la citazione al Boston Tea Party, epocale evento storico durante il quale i coloni americani dichiararono guerra all'Impero Britannico). Se dovessimo fare un paragone e pensare ad un Burck "italiano", la scelta ricadrebbe senza colpo ferire su Povia. Burck si è innamorato a tal punto del Presidente Trump che, ad un certo punto, gli ha scritto tutta una canzone:

Tra gli anni Sessanta e Settanta nella terra delle opportunità il country era un genere che sfornava successi commerciali e un po' come succedeva al cinema con i film western, rimarcava l'eccezionalità del Paese. Manco a farlo apposta un po' di star passavano dalla pellicola alle sale di registrazione con una certa nonchalance, gente come Kris Kristofferson e Willie Nelson, mentre le classifiche country e pop si costellavano di ballate da saloon. Nel 1970, nel suo show televisivo, Johnny Cash presentò una giovane venticinquenne come "la cantante country più famosa d'America": era Loretta Lynn. "I Know How" e "Coal Mine's Daughter" erano le sue canzoni che dominavano le classifiche, storie sul proletariato raccontato con la voce ed il cuore di una Jane Austen hillybilly. Ora, penserete che a distanza di quarant'anni la Lynn sia finita nei grossi armadi dei soffitti musicali d'America. E invece no: con una media di dieci show al mese l'ex ragazzina del Kentucky (ora 83enne) sforna ancora perle per i cowboy dal cuore ruvido ed è stata, per sue stesse parole, folgorata da Donald Trump: "Trump has sold me – what more can I say?"

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D'altronde la confederazione non è mai stata seppellita per davvero, e so già che saranno centinaia di migliaia i malinconici svaccati sotto le verande delle fattorie della Virginia e dintorni che, in calde serate di Giugno, se ne stanno a sognare il Generale Lee mentre ascoltano la dolce Loretta con occhi gonfi di lacrime sognatrici. Per cercare altri endorsement rimaniamo nel reparto geriatrico e riesumiamo addirittura Pat Boone. Billboard ce lo ricorda come il secondo artista più di successo delle classifiche degli anni Cinquanta, secondo solo a un certo Elvis Presley. Una figura di quelle che non si trovano più: ex alcolista illuminato da Dio, crooner, commentatore politico e, ovviamente, conservatore. Ha accusato di blasfemia il Saturday Night Live, mettendo in dubbio il patriottismo dei Democratici contrari alla Guerra del Golfo ai tempi di Bush.  Boone fa parte di quel gruppo di persone definiti i "Birther", un vastissimo gruppo umano che per anni ha dubitato delle origini statunitensi di Barack Obama e, per questo, l'ha considerato un Presidente "illegittimo". Boone, come dicevamo, è anche un vero nemico della blasfemia, quasi un mancato esorcista. Una volta si è persino preso la briga di di attaccare Obama, colpevole di non festeggiare il Natale alla Casa Bianca come da tradizione. E indovinate chi è un famosissimo Birther? Donald Trump. Pat Boone è stato un supporter di Ted Cruz ai tempi delle primarie, ma il fascino del re dell'immobiliare e delle sue fiere prese di posizione iper-conservative gli ha fatto subito cambiare idea. Alla banda degli eroi del country e dei tempi passati si aggiungono gente come Red Steagall, mandriano, poeta e reaganiano, o Wayne Newton. Ecco, Wayne gli amici lo chiamano Mr. Las Vegas, e sembra proprio una di quelle figure che vedresti bene in un incubo sul sogno americano diretto da David Lynch. Il suo soprannome deriva dalle migliaia di nottate che ha passato nell'immenso parco giochi del Nevada a suonare, sorridere, bere e intrattenere i sognatori. Una carriera fatta anche di concerti su concerti all'estero a supporto delle truppe in missione. Dicevo David Lynch anche perché oggi Wayne Newton è così:

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Non ci sono mica solo rimasugli del glorioso country all'interno dell'elite squad di Trump, ma anche rapper. Young Dro, il principe del West Side di Atlanta se n'è uscito con un apprezzamento: "I'm into politics. I feel good about politics and the way it's going down. I hope Donald Trump do win". La storia del suo endorsement ha una conclusione abbastanza deprimente e malinconica. Un anno fa Dro è stato processato per una rapina e, di conseguenza, è finito ai domiciliari. Ad Ottobre la polizia l'ha beccato con armi e marijuana nell'automobile, cosa che gli ha assicurato quarantacinque giorni di carcere, da scontare proprio durante l'elezione del futuro presidente. 'Sti cazzi, tanto Trump ha vinto comunque. È quasi banale scoprire per chi ha fatto il tifo Riff Raff. Il rapper, nei suoi video musicali, è sempre circondato da una squadra di modelle, montagne di gioielli e tamarragine WASP, ma c'è di più. Le radici di Riff Raff sono fatte di un'infanzia povera e disperata, roba da film di Oliver Stone: mamma cameriera di origini lituano-ebraiche e padre veterano del Vietnam con disturbi da stress post traumatico. Il sogno di bambini del genere è di fuggire dallo stato nel quale affondano, fare più soldi possibili e sbatterteli in faccia: "I'm in America. And I was born in America. And I love money. So why wouldn't I?"

Un endorsement che ha fatto scalpore è stato di quello di Azealia Banks che, per quanto mi riguarda, con le sue affermazioni può considerarsi più interessante come pensatrice che come artista. Della Clinton ha affermato che dava l'impressione di considerare i neri come mocciosi o animali da compagnia. Qualche tempo fa ha dichiarato: "Trump è un coglione ma non è stato assuefatto e programmato da qualche tipo di MKULTRA o roba da da establishment che lo costringa a fare quello che vogliono". Per chi non lo sapesse, MKULTRA è un Progetto realmente esistito della CIA che durante gli anni della Guerra Fredda testava, attraverso esperimenti spesso di natura oscura, pseudoscientifica e con tutta probabilità inefficace il controllo della mente. La Banks raccoglie così l'unico spirito interessante dei Trumpiani. In senso più ampio l'endorsement della Banks è l'unico che è stato, in qualche modo, giustificato con un ragionamento, per quanto sommario e non così illuminante: "Lo sono anche io che Trump è razzista! Lol. Il razzismo è cucito sulla pelle della nostra nazione. Tentare di essere perennemente politically correct e fingere di non essere razzisti non è un bene per la cultura. La censura è noiosa. La censura è immondizia. Ecco perché la televisione e film sono noiosi. Nessuno può dire più nulla." È davvero difficile andare oltre questo manipolo di coraggiosi e, per farlo, bisogna addentrarsi nei meandri di YouTube. Con qualche keyword azzeccata riesco a imbattermi nei sei milioni di views delle Freedom Girls.

Posso dirlo? Per quanto mi riguarda c'è qualcosa di disturbante in queste pre-adolescenti che ballano, con quei sorrisi tiratissimi, quasi come se fossero sotto l'effetto della droga del Joker di Batman. Mi hanno ricordato un po' quelle scene di certi film americani che, strano a dirsi, oggi non esistono più. Roba come Gummo o i film di Todd Solondz. Ma forse non sono loro ad inquietarmi, povere bambine, quanto gli sguardi del pubblico lì dietro. Provate, guardate il video, fissatevi sul signore con la barba e il cappello bianco, tanto per dirne uno. E c'è ancora più tristezza se si scopre della bagarre che è nata tra l'avvocato delle tre bambine e chi ha organizzato la parata repubblicana, a causa di pagamenti mancati nei confronti delle Freedom Girls. Evvabbè. Della risicata lista di Wikipedia non ho citato il nome più succulento: Ted Nugent. Per chi non lo conoscesse, Tedè la dimostrazione che si può essere degli ottimi musicisti e allo stesso tempo delle grandissime teste di cazzo. Oltre che al suo contributo alla definizione del genere hard rock, Nugent è noto per interviste fuori dal mondo in cui insiste sulla sacralità del diritto di portare liberamente armi da fuoco quando si va a spasso. È membro della National Rifle Association e, come se non bastasse, è contro la liberalizzazione delle droghe, di tutte le droghe. Nel 2012 ha descritto Travyon Martin, ucciso in uno scontro con un poliziotto, come un gangster razzista: un perverso gioco di parole, in quanto il diciassettenne era di etnia afroamericana. E si è anche difeso dicendo che il razzismo non esiste, e che se proprio vogliamo fare finta che esista, allora è quello dei neri nei confronti dei bianchi. Nella figura di Ted Nugent si rivelano alcune macabre coerenze con altri endorsement nei confronti di Trump. Uno su tutti, quello del Ku Klux Klan. Pensavo di far concludere l'articolo così, con un tono pessimista. Ma la realtà è molto peggio del mio tono pessimista. Oppure no, e allora ha ragione Kanye West. Non che il rapper se la stia passando benissimo, al momento. In un tracollo mentale sempre più evidente e mediatico, Kanye prima ha dichiarato di supportare Trump e poi, in una delle sue sbroccate da palco, ha insinuato che Jay Z lo desideri morto stecchito. Nella stessa serata di quest'uscita, a Sacramento, ha attaccato le radio e i social network tutti, oltre che le corporation tecnologiche come Google. Poi il suo tour è stato annullato e lui è finito ricoverato in un ospedale psichiatrico per riprendersi da un esaurimento nervoso e un tracollo psicotico, che l'aveva trascinato in un tunnel fatto di paranoie. Comunque ora, per fortuna, è uscito e dice che sta molto meglio: