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Musica

Daniele Luppi ha ridisegnato Milano

Abbiamo intervistato il produttore che con i suoi dischi sta raccontando l'Italia vista da Los Angeles.
Foto via Facebook.

Io non sono di Milano ma ci ho vissuto un bel po’ di tempo e penso che ogni persona con un minimo di spirito d’osservazione riesca a capire come Milano sia una città fatta di palazzoni accecanti, di magazzini, di All You Can Eat, di segretarie e agenti di borsa ma che sia anche la città in cui la passerella delle sfilate, l’ufficio tutto vetri, computer e la cultura hanno dato un bel calcio alla catena di montaggio. Ed è come se tutto il complesso si cullasse su un orgoglio perverso suscitato da un misto di fascino, bellezza, edonismo e capitalismo in grado di causarti un aneurisma.

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Credo che sia esattamente questo che ha spinto Daniele Luppi a dedicare il suo ultimo album a Milano. Per chi non lo conoscesse, Luppi è musicista, compositore e produttore discografico italiano trasferitosi a Los Angeles alla fine degli anni Novanta. Nel corso della sua carriera ha lavorato con un sacco di artisti con i controcoglioni (Jack White, Danger Mouse, Alessandro Cortini per nominarne un po’) e, come compositore, ha pubblicato quattro album di cui tre sono sono dedicati, in un modo o nell’altro all’Italia.

Dopo An Italian Story del 2004, Luppi, infatti, ha scritto Rome—un disco che, in collaborazione con Danger Mouse, era un incontro tra lo smooth jazz e lo spaghetti western per un elogio alla musica di Ennio Morricone e all'iconografia che è riuscito a creare. A questo giro, con Milano, uscito autoprodotto per la sua Monitor Pop, l’obiettivo è quello di raccontare la Milano vissuta da Luppi negli anni Ottanta e Novanta.

Nella recensione che abbiamo pubblicato, il mio collega Giacomo solleva alcuni dubbi sul disco e su come un disco che dovrebbe parlare di Milano abbia un suono così tipicamente americano. Per rispondere a questa e altre domande ho chiamato Daniele Luppi mentre se ne stava a casa sua a Los Angeles con il mal di gola.

Noisey: Ciao Daniele, dopo An Italian Story e Rome, com’è nata l’idea di fare un disco su Milano e come si inserisce in questa sorta di elogio all’Italia?
Daniele Luppi: Diciamo che una sera, mentre ero a casa di amici, ho notato una rivista che parlava del design Memphis club degli anni Ottanta. Così, ho cominciato a studiare questo design che mi incuriosiva molto e ho scoperto che questo, nonostante fosse una tendenza tipicamente milanese, aveva anche conquistato personaggi come Bowie, che a NY aveva acquistato molti di questi mobili. A quel punto ho notato come ci fosse un fil rouge tra questo design e il mondo punk, ed è quello che ho voluto rappresentare nel disco.

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Capito… la stessa copertina mi sembra ispirata a questo genere di design. Sbaglio?
In verità non volevo fare una cosa esclusivamente retrò—volevo anche che avesse qualcosa di contemporaneo. La copertina, infatti, è una foto di una bravissima fotografa che si chiama Alex Prager e lei ha più o meno la mia età. Anche lei ha fatto questi scatti ricreando questo look quasi artificiale e mi sembrava che quella foto avesse colto perfettamente l’immaginario dance degli anni Ottanta. Così le ho chiesto la foto e lei ha accettato.

A proposito del Memphis Design, proprio da poco ho letto sul Guardian un pezzo che sosteneva il ritorno di questo tipo di design. Perché pensi che ci sia questo ritorno?
Secondo me perché oggi come ieri è dirompente di energia. O meglio, è stata una rottura con il passato e oggi probabilmente sta tornando perché veniamo da anni di omogeneità anche troppo noiosa.

Leggendo la tua biografia mi sembra di ricordare che a Milano comunque ci hai vissuto.
Sì, parte della mia famiglia è di Milano quindi sono sempre stato in e out a Milano. Diciamo che sono cresciuto ogni paio di mesi a Milano e solo alla fine degli anni Novanta mi sono trasferito a Los Angeles.

Parlando del disco, l’ultima traccia mi ha colpito particolarmente. Sembra estremamente caotica ma allo stesso tempo mega rigida e matematica. E quello che volevo dirti è che tutto il disco mi sembra giochi su dei contrasti. Per esempio, anche Karen O con un gruppo come i Parquet Courts…
Be’, sì, diciamo che era voluto. Per me era come il design di Memphis di cui parlavamo prima e come alcune scelte della moda, era una scelta estrema dal punto di vista estetico per creare una reazione. L’idea di mettere la voce di Karen sopra una band come i Parquet Courts era sicuramente qualcosa che sulla carta poteva sembrare un po’ strano ma era interessante proseguire e vedere cosa ne uscisse.

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Con loro com’è andata la collaborazione?
Tutto molto tranquillo: quella delle collaborazione, come saprai, è una cosa che faccio spesso. Avevo scritto una ventina di brani per il disco e poi ho contattato la band e ho seguito la realizzazione. Dopo, certo, ci ho messo un bel po’ di tempo per capire quali pezzi fossero per la voce di Andrew e quali per la voce di Karen. Anche con Karen è andata molto bene: le ho mandato i pezzi e lei è rimasta subito impressionata da "Flash", poi l’ho convinta a lavorare anche su altri brani.

Il primo singolo "Soul and Cigarette", mi sembra che si discosti dal concept generale del disco. Lo stesso video ritrae gente ferma in un flusso di abitudinario e standard.
Allora, sì, quel pezzo è sicuramente un forte omaggio alla poesia di Alda Merini e un modo per non parlare solo della Milano della moda, del lavoro e del successo ma anche parlare un po’ della gente che è rimasta fuori. In tutto il mondo in quegli anni c’è stato un cambio drastico e mi interessava rappresentarlo sotto ogni punto di vista. Come in Rome, anche per Milano hai collaborato con altri artisti. C’è qualcuno con cui vorresti lavorare in futuro?
Allora diciamo che vedo Milano come la fine di una trilogia italiana che era iniziata con An Italian Story e Rome, ecco, chiude quello che per me è stata ispirazione musicale in Italia. Per il futuro ho già un paio di dischi a cui sto lavorando. Sicuramente ci saranno un po’ di cose elettroniche però, ecco, di più non posso dirti per ora.

Ci vedrei bene Cortini. Se non sbaglio ci hai pure lavorato insieme…
[Ride] Sì, con Alessandro ho lavorato negli Stati Uniti principalmente per la produzione di un disco di Battiato. Forse è perché proveniamo dalla stessa generazione musicale italiana ma ci siamo trovati molto bene e Alex è un musicista incredibile.

So che abbiamo i minuti contati per questa intervista, quindi solo un’ultima curiosità: come fai a portare il disco in tour? Non è difficile che sia i Parquet Courts che Karen O siano liberi nello stesso periodo?
Eheh, sì, lavorando con altri artisti è dannatamente difficile trovare lo spazio. Quindi non so dirti quando faremo un tour, ma ti dico che preferisco farlo bene e quindi con tutti che farlo da solo.

Leon scrive per VICE e lavora in un negozio di dischi. Seguilo su Twitter: @letweetbenz.

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