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Flavio Giurato (foto promozionale)

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Musica

Flavio Giurato, il primo indipendente

Abbiamo intervistato il cantautore romano dopo la (auto-) pubblicazione del suo album 'Le promesse del mondo', per parlare di musica, parole e libertà.

Flavio Giurato è un nome particolare nel mondo della canzone italiana: per molti è sconosciuto, per molti è un guru, per altri è un personaggio curioso, quasi un alieno. Lui, nella sua carriera, ha sempre cercato, forse inconsciamente, di far perdere le tracce, di depistare, di andare oltre se stesso pensando all’unica cosa che avesse veramente senso e che viene prima di tutto il resto: la sua musica. Musica dalla quale emerge anche la sua grande umanità, come testimonia il suo ultimo lavoro in studio, Le promesse del mondo, un disco sul dramma della migrazione.

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Vedo questa umanità in primis nei suoi gesti e nei suoi occhi, quando lo vado a trovare nella sua casa di Roma. Nello studio dove compone una cagnetta riposa sulla poltrona, e per non disturbarla andiamo in cucina. Mi offre un caffè; lui non ne beve da secoli, ma questa mattina vuole fare uno strappo alla regola, cosa che in un certo senso mi onora. Mentre rompiamo il ghiaccio chiacchierando del più e del meno lui sembra sprizzare energia da tutti i pori, e al momento di bere il caffè (il quale a prima vista sembrava di alta qualità) scopriamo che… è una schifezza. Scoppiamo a ridere, e in quella risata c’è l’umiltà di un vero maestro che ha passato tutte le ere, tutti i costumi, tutte le fasi della musica italiana senza farsi schiacciare da nessun meccanismo perché sa che nulla vale quanto la libertà.

Per me oggi è un giorno speciale, perché sono tipo due anni che provo a convincere la redazione di Noisey a farmi intervistare te e mi sono sempre sentito rispondere che "Flavio Giurato non fa abbastanza like". Forse ora le cose sono cambiate perché sei ritornato protagonista nel discorso della musica italiana?
In effetti mi hanno detto che sono aumentati i like, ma io non so nulla di questi sistemi.

E come ti senti in questo periodo? Appagato?
Mi sento molto amato, ed è grazie ai concerti. Perché suscito un calore e un'emotività che mi ritornano indietro, delle quali non sapevo nulla prima di fare questi concerti, sinceramente. Mi ha fatto scoprire un’importanza di me stesso di cui ero completamente all’oscuro. Vedi, tu mi parli del sentirsi al centro: io non mi sento al centro proprio de niente. Però questo calore da parte del pubblico è notevole. Non ti dico da quelli che vengono col trittico analogico, cioè i primi tre dischi, e me li fanno firmare, i fan storici, ma proprio anche i ragazzini di sedici anni. Avere un peso sui giovani per uno come me è gratificante, perché, ecco, io sinceramente non sapevo di avere un seguito, irrisorio quanto ti pare, che non conta nulla, che però c’è ed è appassionato. E allora mi hanno come un po’ responsabilizzato sul fatto che le stronzate che faccio qua nel mio studio in qualche maniera arrivano, non ci sono i grandi numeri però c’è questa vibrazione che è stato molto piacevole cavalcare in giro per i concerti.

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Tu poi lo sai che sei un’influenza fondamentale nel nuovo cantautorato indie? Flavio Giurato è considerato uno dei maestri, perché appunto quando hai iniziato a comporre era una musica particolarmente personale, e che in qualche modo, a mio parere, rivoltava e mescolava i canoni della musica pop dell'epoca come un cubo di Rubik. Tu che ne pensi? Hai sentito questa tua influenza sulle nuove leve? Ascolti qualcuno di questi giovani?
No. [Ride] Mi fa piacere, ma me lo stai dicendo tu.

Beh, è così, basta pensare a Calcutta. Ma la tua influenza va oltre la musica, perché quando sei arrivato in CGD…
Io sono arrivato prima in Ricordi, e devo il fatto di esserci arrivato a "Furia", cantata da Mal dei Primitives. Grazie a quel disco, che ha venduto non ti dico quante centinaia di migliaia di copie, ho potuto registrare il mio debutto. Quello di "Furia" era un disco prodotto proprio dall’ufficio romano della Ricordi, che normalmente non faceva produzione, era soltanto un ufficio di promozione a due passi dalla Rai. Allora mi hanno fatto fare Per futili motivi, che era un disco particolare perché era ambientato ai tempi del fascismo. Un concept che però veniva fuori nel 77, un anno tosto, e rispecchiava quello che vivevamo in quella attualità. C’è anche l’uso del dialetto romanesco dentro. Ci sono molti estimatori di quel disco. La prima cosa che m’è venuta in mente parlando con te è che io a quel tempo, fino a Il Tuffatore, io ci tenevo a fa' er musicista, e questa fase è culminata nel Marco Polo che è stato il mio massimo, ed è stato anche quello che ha sancito la mia rottura con le major.

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D’accordissimo. È anche il mio disco preferito. Perché ci fu la rottura?
Dopo Ricordi passo alla CGD. Alla CGD pubblico Il Tuffatore e Marco Polo. Il Tuffatore è un disco che adesso è nella classifica dei più begli album di sempre della musica italiana, ma il Marco Polo è tutto quello che io volevo realizzare, con me stesso e con quelli che avevo intorno. Ed è stato un disco fatto in tredici giorni di studio.

E il problema con la CGD è nato a causa di Marco Polo?
Sì. Un disco visionario, il più bello che abbia mai fatto.

La copertina è eccezionale, ma a dirla tutta le tue copertine sono tutte magnifiche.
Pensa che avevo gli originali, mannaggia. Le faceva Claudio Lorenzetti, un grafico che era qui del barrio, del quartiere, abitava a cento metri da qua. Il disegno l’ho fatto io a penna, quello delle linee, che hanno un significato. La linea orizzontale, poi quella curva e poi il cerchio.

Sì, mi ricordano quasi una copertina degli OMD. Che significato hanno?
La linea orizzontale è la freccia, ed è l’energia. La linea curva è l’arco, ed è la massa. La linea circolare è il bersaglio, con l'interno e l'esterno. Puoi vederlo come lo spazio racchiuso nell'anello o come l'anello bianco vuoto. Spazio, tempo, energia, massa, spazio, tempo mi ossessionavano e ancora oggi ho una certa passione. Infatti ho scritto il disco La scomparsa di Majorana. La fisica è un mondo che mi affascina, però lo frequento in modo turistico; perché se mi metti poi davanti a una formula non ci capisco un cazzo.

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Ahahah. Però come sentire ci sta tutto.
Le cosmogonie, come minchia siamo arrivati qua? Perché ci siamo solo noi? come è nato tutto? Mi affascinano queste cose e mi portano a seguire delle piste che poi forse riesco a mettere anche su una chitarra o su un pianoforte.

Soprattutto su Marco Polo, appunto.
Tredici giorni di lavorazione in stato di ebbrezza, di visionarietà. E poi doveva essere addirittura più lungo, tutta la sequenza del "tirano le funi…" è stata tagliata perché non sarebbe entrata nel disco fisico.

Quella sequenza è allucinante per l’epoca e anche oggi non scherza.
Con quello avevo avuto, grazie alle multinazionali cui non devo altro che riconoscenza, anche se poi ci siamo lasciati, la possibilità di fare dei lavori che all’epoca costavano una barca di soldi. Come andare a registrare a Londra, con Mel Collins e Ray Cooper, il quale mi disse “sei unico nella roba che fai, it’s not rock n roll”. In effetti era un tratto distintivo il mio, e ho sempre cercato di portarmelo dietro.

Una volta ho portato il direttore artistico della CGD a vedere che stavo facendo in studio e gli ho fatto sentire "Le funi" che allora, senza tagli, durava, che ne so, venti minuti. Questo nun se poteva move [ride]. Era l’epoca in cui la discografia cambiava. Io ho lavorato con dei grandi nomi, delle grosse teste pensanti tipo Crepax o Nanni Ricordi, intellettuali prestati alla discografia. Questo qui che ho tenuto lì a sentire "Le funi" invece era uno che veniva dai surgelati. Cioè l’industria si stava spostando. Loro avrebbero voluto che io facessi dei provini, sentire tutto intorno a un tavolo, discutere… Ma io non faccio provini, faccio dischi in sala. Quello nuovo che sto per fare è tutto appuntato voce e chitarra, però…

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Ah, ne stai facendo uno nuovo?
Sì, sto facendo un disco in inglese, una migrazione linguistica dopo le migrazioni che racconto ne Le promesse del mondo. E a proposito di scrivere nuove canzoni, il passo fondamentale è stato il passaggio dall’analogico al digitale. Mentre nell’analogico c’erano delle costrizioni di tempo che io dovevo tenere presente in scrittura, perché c’era il pezzo che apriva il lavoro e quello che chiudeva la prima facciata, poi la stessa cosa per il lato B, fino al pezzo che chiudeva tutto il lavoro. Tutto questo in una lunghezza che non doveva superare i venti minuti per lato, massima tolleranza a ventidue, ma durata ottimale a diciotto. Poi dovevi stare attento a non mettere frequenze basse nei solchi vicino al centro perché le basse occupano tanto spazio… Insomma c’erano tante cose che dovevo tener presente. Invece col digitale si è aperta una strada: non c’è più la divisione in lati, non ti devi più alzare per tirare su la puntina. E adesso una mia canzone dura minimo sette o otto minuti, per cui devo vedere cosa togliere, se fare tutto o meno. Comunque ho questi pezzi già registrati voce e chitarra e quando sarà il momento giusto, forse in primavera, me ne vado in sala a finirli.

E cosa è accaduto poi nella tua vita artistica a fronte di questo tuo approccio coraggioso alle cose?
M'hanno scaricato, perché sono cominciati i tempi in cui i dischi non si vendevano più; e l’industria che aveva, bontà sua, margini e spazio per fare anche dei lavori il cui ritorno economico non era certo, si è ritrovata che questi margini erano spariti, perché anche quelli che vendevano i dischi non li vendevano più. Quindi sono stato fermo. Ho rifiutato certi compromessi riguardo all’esposizione in TV o ai festival, quindi mi sono tirato già un po’ da parte per conto mio, ho preferito cambiare mestiere. Il che mi è stato molto utile nella vita invece di piegarmi ai voleri industriali perché sapevo, e sicuramente ho avuto ragione, che alla fine mi avrebbe nuociuto. Così ho fatto il regista in Rai, cominciando coi contratti a termine e arrivando fino a sette milioni di telespettatori, poi sono tornato a lavorare con un’editrice musicale mia e ho fatto tre album digitali. Quindi ho un trittico analogico e un trittico digitale.

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Quando inizia esattamente il trittico digitale?
Inizia con Il manuale del cantautore, dopo 23 anni di fermo, nel 2007. Sono uscito fuori con questo disco che non voleva nessuno, ho anche provato a mandarlo a delle major tramite il fonico che ha anche prodotto poi praticamente il disco con me e Franco Finetti che aveva conoscenze ovunque, però l’industria non ne voleva sapere. Fino a che non lo ha pubblicato un’etichetta indipendente. Ed è stata un'esperienza tragica.

Davvero?
Totalmente. Tutti i difetti delle grandi, ma senza i mezzi.

Questa è una cosa che dico sempre anch'io: le etichette indipendenti oggi tendono ad imitare le major, ma male.
Sì, ma poi però non ti danno centoventi milioni per fare un disco a Londra, Milano e Roma. E quindi il disco successivo, La scomparsa di Majorana, l’ho commercializzato proprio io su internet, saltando indie e super indie, e così anche il terzo, Le promesse del mondo, la fine della storia.

Ecco, questo trittico digitale è molto diverso da quello analogico per ovvi motivi anagrafici. Ma un'altra differenza mi sembra sia che prima smontavi e rimontavi l'esterno per capire cose su di te e sulla tua musica, qui invece parti dall’interno, non c’è più bisogno di smontare e rimontare niente, cerchi solo il tuo centro. Come cercare il cuore della terra, che è fuoco.
Bella questa immagine. In un certo senso mi sono placato. Come dicevo prima, non ho più bisogno di farti capire che non sono soltanto un cantautore con la chitarra, ora l’importante è quello che ti dico tramite la canzone.

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Comunque sempre con grande visionarietà, perché per l'ultimo disco io scomoderei il termine capolavoro, anche se non mi piace usarlo perché è abusato.
A me piacciono tutti i lavori che ho fatto, perché sono tutti uno diverso dall’altro. Troppi di quelli che fanno questo lavoro hanno delle formule, sono sempre un po’ uguali una volta trovata la ricetta giusta. Per esempio, io non uso nessun tipo di metronomo, il tempo deve essere il mio; mi suono le cose io e i dischi me li faccio proprio manualmente da solo.

E in effetti i suoni che usi sono lontani dall’idea commerciale. Nell’ultimo disco si affaccia una vena noise rock con chitarre distorte e atmosfere molto dilatate e magmatiche. Non so se tu in passato hai ascoltato roba tipo i C.S.I.: sono forse tuoi figli?
Beh, figli non direi, mi sa più che altro fratelli vista l’età anagrafica [ride]. Tabula Rasa Elettrificata è uno dei dischi che ho amato di più. Poi c’è stata l’esplosione del rap.

Che tra l'altro ha dei punti in comune anche con quello che fai tu, no? L'andazzo recitativo e ritmico, la ricerca del loop.
A me piace tantissimo la musica di oggi, tipo la trap.

Questo è molto interessante. Si sente nel mio pezzo preferito del tuo ultimo disco, "Digos", un pezzone.
Quel brano piace a tutti quelli con cultura musicale, ai patiti di uno strumento solo o a chi scrive di musica. Ha avuto un grosso impatto sugli addetti ai lavori, diciamo. Però il mio pezzo preferito è "Agua mineral", perché chiude l'esperienza del trittico digitale. Ora basta canzone d'autore, si cambia.

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Ma veramente? Ne sei sicuro?
Sai, sono quelle cose che uno dice poi magari non è vero, anche perché io posso fare un disco in due notti volendo. Però vorrei restare con quest’ordine, tre analogici e tre digitali. Avevo delle cose da dire e le ho dette, sia musicalmente che come testo. Con questo ultimo chiudo, perché "Agua mineral" è nata quando avevo otto anni, quando ho visto una bottiglia di acqua minerale a Buenos Aires con mio padre, che era lì per lavoro perché era un diplomatico. Finalmente sono riuscito a concludere il pezzo che ha avuto versioni diverse nel corso degli anni. Finito quello, il discorso è chiuso. Che non significa che non farò più niente, ma voglio darmi al teatro, all'azione scenica, all'opera rock o al cinema.

E in effetti questo ultimo disco è molto filmico. Ma più che altro andrebbe fatto ascoltare al Governo, soprattutto alla luce di questo indegno e vergognoso decreto sicurezza. È raro trovare qualcuno che riesca a dare uno sguardo così oggettivo sul tema della migrazione, usando certe parole, senza diventare stucchevole e strumentalizzabile. Come ti è venuta l’idea di addentrarti in un tema così difficile?
Perché le cose più difficili sono quelle che poi pagano di più, che ti danno più soddisfazioni, e sono destinate a restare. Tra la via più facile e quella più difficile, sempre la seconda. C’è questa realtà oggettivamente pesante, non puoi non pensarci.

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Qual è stata l’ispirazione a livello poetico per l’album? Ci sono dei momenti in cui i testi mi ricordano molto la tropicalia, nel senso che anche loro trovavano il modo di parlare di temi drammatici con un punto di vista distaccato, e senza prendere posizione esplicita.
Riguarda alla tropicalia non sono preparatissimo, però ho avuto un riscontro da uno che ha detto di questo mio disco che è “soul piercing”, cioè che ti buca l'anima. Mi è rimasto impresso. Io scrivo in totale onestà e sincerità, poi persone diverse con culture diverse ci vedranno cose diverse.

Ma per dire, che cosa leggevi nel periodo in cui stavi lavorando ai testi che magari inconsciamente ti ha influenzato?
Non lego Le promesse del mondo a niente. Forse proprio solo al telegiornale. I barconi, il mare. C’è stato un momento in cui è stato addirittura messo in discussione se soccorrerli o no, ma quelle sono leggi ataviche, irrinunciabili, non si può prescindere da determinate regole come soccorrere qualcuno che sta morendo in mare, sennò crolla veramente tutto.

Quindi un disco di cronaca, in fondo.
Però un disco di cronaca che io devo saper tessere, intrufolare nei cazzi miei come la bottiglia di acqua minerale che ho visto da ragazzino. Cronaca filtrata attraverso diversi piani di lettura.

Che è uno dei sistemi più efficaci per neutralizzare la propaganda.
Guarda, non è che io cerchi il consenso o l’affermazione. Sinceramente non me ne può fregar di meno, cerco solo di pubblicare quello che voglio in totale sincerità, però siccome questo disco riguardava determinati temi avrei voluto allargare la discussione e raggiungere più gente possibile.

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Però, come sai, ci sono delle opere che funzionano nel lungo termine, non nel breve.
Il Tuffatore in effetti l’hanno rivalutato dopo vent’anni [ride].

Esatto! Certo, ‘sto tuffatore per te è un po’ ingombrante. Ma che cosa rappresentava veramente per te?
Innanzitutto la solitudine del tuffatore, che quando sta sulla piattaforma è da solo. Poi, il tuffatore che vedo io non è quello che si stacca, volteggia e poi entra in acqua perfettamente; è il tuffatore che rinasce, che torna a galla, come un ritorno dal liquido amniotico.

Secondo te cosa ha cambiato nella testa di chi l’ha ascoltato? Perché oramai è un cult, credo tu lo sappia.
È un discone, per carità. Musicalmente è quello che ho curato di più. Forse i fan ci avranno trovato la semplicità, perché al di là di tutta la difficoltà compositiva, se vai a vedere, la traccia che dà il titolo al disco è voce e chitarra, registrata in diretta. Piero Tievoli suonava la chitarra e io cantavo e dura un minuto in mezzo. È difficile per me capire cosa ha innescato nella gente. Mi ricordo soltanto un ragazzo a Faenza che è venuto e mi ha chiesto se ero io, e mi ha detto: “Ti volevo solo ringraziare per gli LP, grazie di tutto” e se n’è andato. Non conto un cazzo nelle classifiche, né a livello di soldi, popolarità e tutte queste cose… però uno che ti viene a dire una cosa del genere, beh, io ancora me lo ricordo e ancora mi dà gas se ci penso. Io lavoro per gente del genere. Tu mi dici: ”La tua poetica…”, ma io mi imbarazzo, che cazzo ne so, io faccio canzoni.

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E le canzoni sono importanti: musicalmente a questo proposito quali sono i tuoi punti di riferimento, la tua formazione?
Beh, Puccini. Perché mio nonno faceva il regista di opera lirica e mi portava con sé. Pensa andare a sentire la Tosca a nove anni. Da Puccini poi sono passato al Festival di Sanremo, ho visto Modugno, altra grande figura perché ha cominciato tutto, è il padre di tutto. Ho visto "Nel blu dipinto di blu", "Ciao ciao bambina" e "Piove" in diretta. Sono i vantaggi di essere vecchi [ride]. Ho visto i Beatles dal vivo a Roma due volte, una al pomeriggio con mia madre e mia sorella e una alla sera con le ragazze.

Urca! E com’erano dal vivo? Menavano?
Cazzo se menavano. E ho vissuto tutte le uscite degli album, non come può fare un ragazzo adesso che trova tutto in un colpo online. Per me ne arrivava uno nuovo ogni anno. E ogni volta non ti piaceva mai quello nuovo, dicevi sempre era meglio quello vecchio [ride]. Poi dopo un po’ invece capivi che era una bomba. Sgt. Pepper's compreso! Ma tu immagina, all’epoca, il primo ascolto di Sgt. Pepper's! Ecco, quel disco lo puoi mettere tra le mie influenze, come una consapevolezza che tutto è possibile, della serie “allora pure io lo posso fare”.

E invece non sei mai passato alla musica sintetica?
No. Mi ha salvato il fatto di non avere fiducia, perché le macchine come la Dx7 della Yamaha, che andava fortissimo, ti mettono un timbro e ti incasellano in un'epoca. Senti la Dx7 e dici: "Ah, anni Ottanta!". Invece io ho sempre avuto fiducia nella liuteria, mi piace la chitarra perché quella, checché se ne dica, non passa mai. Cioè "Digos" la puoi sentire cinquant’anni fa come fra cinquant’anni e resta sempre quella.

Però mi pare che nei tuoi dischi di sintetizzatori ne usi eccome.
Sì, li usava il grande Toto Torquati, ma lì si tratta di avere capacità di lavoro in sala. Ma la cultura mia reale è legata alla chitarra e al pianoforte.

E la psichedelia?
Sì, certo, i Pink Floyd fanno parte della formazione di tutti. E poi c’è stato Hendrix. E la cosa importante è che l’ho visto dal vivo al Brancaccio, senza pagare, perché alla fine era pieno e ci hanno fatto entrare. Vedere Hendrix dal vivo è una cosa che secondo me nun se pò capi'. Ho avuto l’impressione che non suonasse la chitarra, ma l’albero da cui l’avevano fatta. Era proprio una persona con delle capacità fuori dal comune, tutti lo sappiamo, ma ritrovarselo a cento metri di distanza m’ha segnato. Ho visto anche i Who sia a Roma sia a Londra e poi, minchia, Leonard Cohen.

Penultima domanda: descrivimi in sintesi ciascun disco, dalla trilogia analogica a quella digitale. Partiamo dall’analogica.
Sono tutti concept. Per futili motivi è il debutto: ha tutta la carica, l’energia dell’opera prima. Resta indimenticabile, c’è il dialetto romano, c’è la trama del ragazzo che compie 18 anni il dieci giugno del ‘40, il giorno in cui Mussolini entra in guerra. Sono stati davvero illuminati Maurizio Catalano e Gabriele Varano dell’ufficio di promozione di Roma a proporre una cosa del genere a quei tempi. Il Tuffatore è il punto di arrivo di un periodo in cui ci tenevo a fare il musicista. È la rappresentazione degli anni di Publitalia e di Craxi, vedevo che si andava verso un’ americanizzazione della società italiana. E adesso siamo arrivati addirittura alle pubblicità in inglese, c’è stato questo livellamento culturale per cui, come diceva Pasolini, "non riconosco più l’operaio". Marco Polo è la realizzazione del sogno, è chiudere una fase sapendo di essere arrivato a un punto insuperabile. Quello che si chiede Marco Polo è se la tua storia è scritta, se il destino esiste oppure no.

E invece andando al trittico digitale?
Il manuale del cantautore con un po’ di presunzione direi che nasce quando lavoravo da regista: c'era un ragazzo che lavorava lì e conosceva soltanto il computer, non aveva idea di cosa fosse il montaggio cinematografico, e adesso sta a Londra a fare effetti speciali nelle produzioni Disney. Sentivo che ero diventato un po’ un maestro. Non ricordo chi aveva anche scritto una cosa tipo: “Flavio Giurato, quello che è diventato un venerabile maestro senza passa' per il solito stronzo” [ride] Insomma, sentivo che avevo qualcosa da comunicare, ero anche passato di generazione, ero già in là con gli anni. E allora ho fatto un manuale: "prendete dieci fogli, scriveteci su in modo sparso, poi dovete essere in grado di esibirvi in un locale alternativo da soli". Era un po’ un gioco, insomma, una forma di ispirazione divertente per me. Non mi prendevo certo sul serio, però c’era una piccola didattica scandita in dieci pezzi e ognuno aveva il suo momento che poteva essere legato al titolo.

Molto interessante, in pratica un manifesto.
È stato l’ultimo disco con Franco Finetti, con cui ho fatto tutti i dischi analogici, era un po' come il direttore della fotografia per un regista. La scomparsa di Majorana invece è stato realizzato con Piero Tievoli, che suonava con me da Il Tuffatore, un chitarrista eccezionale che stregò anche Mel Collins. Ci siamo conosciuti perché stavo passeggiando a Porto Santo Stefano, e c’era questo tizio che accordava la chitarra a orecchio, allora mi sono detto: “Ma che cazzo, c’ha l’orecchio assoluto questo?” E infatti è uno dei pochi orecchi assoluti che io abbia mai incontrato in vita mia, un chitarrista dalle qualità celestiali che adesso fa il liutaio. A quel punto, dovendo suonare in pubblico e non da solo, ho avuto anche li un grandissimo bucio de culo, culminato con Le promesse del mondo, di suonare con ragazzi di vent’anni. E forse quel disco l’ho fatto proprio per loro, per farli crescere. Pensare a un disco nuovo senza di loro mi sembra inconcepibile, però devo riportare dentro pure Piero. Una sera ci siamo ritrovati a casa sua nel Chianti, a suonare da soli, una notte, senza nessuna registrazione. Non ti dico che abbiamo fatto… la pelle d’oca. Non era per nessuno e non è rimasto se non dentro di noi.

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