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Musica

Cosa abbiamo imparato da 15 anni di Moderat

Tre album e un altro infinito tour dopo, raccontare la filosofia dell’impero Moderat significa fotografare un importante capitolo dell'elettronica moderna.
GC
London, GB
Foto via Facebook.

Sono passati 15 anni da quando Apparat e Modeselektor diventarono un corpo unico, riuscendo a concepire un linguaggio che si sarebbe posto come riferimento della techno berlinese prima, di quella europea e mondiale dopo. Se c’è qualcosa che abbiamo imparato, dopo aver visto l’era Moderat imperversare e fiorire in modo così naturale, è che la loro musica ha cristallizzato un’immagine ben precisa dell’elettronica del nuovo millennio.

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Un concetto di musica e d’immagine unica ed estremamente forte li ha resi nell’ultimo decennio i veri e propri paladini della dance “intelligente”, capace di muovere passi concreti nel pop elegante, sofisticato e contemporaneo. Un moderno ed eclettico significato di band, fatto da tre parti provenienti in modo simile - seppur differente - da un background scavato in tutto e per tutto nell’underground, cresciuto e assimilato nei party di fine anni Novanta dell’est berlinese. La loro filosofia, per certi versi distante dall’ordinario modo di pensare delle origini da DJ e raver, li ha destinati a girare per tutto il mondo, raggiungendo venue e festival sempre più importanti come Coachella, Sónar e Pukkelpop.

Già nomi ben stabiliti nella scena berlinese, nel 2002 le strade di Sascha, Gernot e Sebastian si incontrano in studio per la prima volta, dando vita all’EP d’esordio del progetto Moderat, Auf Kosten der Gesundheit, rilasciato l’anno seguente. I primi passi, in realtà, erano stati mossi ampiamente prima, quando Apparat produceva live-show della sua etichetta, Shitkatapult, mentre i Modeselektor venivano presi sotto l’ala protettrice di Ellen Allien e la sua BPitch Control, in tour per la Germania.

Bronsert e Szary iniziarono nelle warehouse berlinesi, promuovendo e poi prendendo parte a rave colmi di acid-house e techno; Ring era un hardware addict che puntava ad affinare la combinazione tra computer music e partiture suonate dal vivo. Per diverso tempo, a partire dal 2000, attraverso incontri costanti agli eventi di ciascuno dei progetti, la curiosità da ambo le parti sancisce una embrionale fase di unione, che porta i tre a realizzare show improvvisati, entusiasti dell’idillio stilistico che si riesce a creare. Il periodo sperimentale dell’esordio trasmette ai Modeselektor una certa infatuazione per il rigore ed il tecnicismo di Apparat, che è già capace di organizzare un live setup elettronico di tutto rispetto, mentre lo stesso ammira un’istintiva fame di coraggio nelle idee e nella direzione artistica del duo.

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Il primo punto di contatto ha molto della natura propriamente BPitch Control e della sua prima generazione: l’etichetta - tramite l’astro nascente dell’underground europeo dei primi duemila, Ellen Allien - stava illuminando un percorso che avrebbe messo la techno di matrice tedesca al centro dei riflettori. Tanto al centro da consegnare ai Modeselektor le attenzioni di critica e rete prima, con l’album di debutto del 2005 Hello Mom, e persino di Thom Yorke poi, che lavorò per loro ad un featuring in Happy Birthday, secondo capitolo arrivato nel 2007 (lo stesso anno in cui i Radiohead tiravano fuori In Rainbows, per intenderci).

Nel medesimo arco temporale, il primo album di Apparat, Duplex, modellava già sapientemente una certa mistura di romanticismo ad un tiro prettamente club, che sarà ripetuto con ancor più maestria in Walls qualche anno più tardi. Nel mezzo, Orchestra Of Bubbles con Ellen Allien, che diventa il manifesto cristallino del nuovo corso BPitch e del modo di intendere la club culture e la musica delle grandi platee come una cosa sola. Con un tour come spalla dei Radiohead, il buon Sascha Ring non aveva da chiedere di meglio alle sue carte nel momento in cui la personalità cominciò a venire fuori sempre più spedita. E, se andassimo a ritroso ad ascoltare in sequenza questi passaggi di crescita, noteremmo molto di quanto porterà con sé nel mondo Moderat, incontrando la vena creativa e spigliata del duo d’attacco Modeselektor, dalle drum-machine artigianali e di vecchio stampo convogliate nel futuro.

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Feticismo per tecnologie analogiche di ogni tipo, un software realizzato appositamente da Apparat per collegare tre macchine a una sola fonte (ai tempi in cui Ableton non esisteva neppure) e un talento comune: la storia è destinata a decollare, nutrendosi di un primo, decisivo capitolo. Non è strano che il secondo - e cruciale - approccio, nella lavorazione dell’album che sancisce l’era Moderat in maniera concreta, suona esattamente come una fotografia di esperienze e sensazioni incline a ciascuno dei tre. Una parte passionale, una istintiva, un’altra cinica e ribelle: gli ingredienti per Moderat, che uscirà nel 2009, consegnano alla scena un prodotto di alto livello, che promette molto bene fin dagli inizi.

Nello stesso anno, durante il primo tour, il trio viene votato come Best Live Act dai lettori di Resident Advisor, a pochissimi mesi di distanza dai veri e propri esordi del prodotto completo. La potenza e la coesione delle tre parti in gioco non passa inosservata: qualità nelle idee, una giusta dose di sensazionalismo, coadiuvato da un grande impatto scenico garantito dalle performance. Già dall’inizio, infatti, la collaborazione col collettivo di visual artist Pfadfinderei (guru dietro l’immagine del progetto Modeselektor anche in precedenza) riesce ad applicare al concept del loro show un marchio persistente, destinato a durare. A livello di composizione, l’impostazione techno, seppur precisa e tangibile, viene smorzata da un’anima buona, limpida e genuina. C’è, dentro il primo lavoro, una costante di quegli elementi che vorremmo trovare quando immaginiamo la dance come il concentrato di emozioni che ci fa preferire un sintetizzatore o una cassa, anche seduti su un divano, con le nostre cuffie.

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La maniera di giocare con pop, downtempo e dubstep apre la strada verso un corpo unico che diverrà segnaposto fondamentale del percorso: " A New Error" e " Rusty Nails", i singoli del primo album, diventeranno nel giro di poco pietre miliari della techno intelligente post-2000. E, nonostante le interviste dell’epoca rimarchino con costanza lo spirito d’improvvisazione e di estemporaneità del processo creativo, quei brani sono realmente diventati inni della dance contemporanea. Tutto ciò, è facile immaginare, non fa che aumentare pressione ed aspettativa per il seguito, quattro anni più tardi, con II (2013).

La tempra emotiva si mescola ancora con le atmosfere dark, uptempo ed ambient giocano costantemente ad alternarsi l’un l’altro, emerge pian piano una ricorrente necessità di dare più spazio alle parti vocali di Apparat all’interno dei brani. In II, che vedrà scatenarsi un’altra grande accelerata stilistica in termini d’immagine (con il video del brano-icona "Bad Kingdom" in particolare) si mette in moto un’orchestra di sensazioni che porta i Moderat a salire un altro scalino, affinando con eleganza sempre più varianti tecniche, verso la consacrazione. Oltre il marchio di " Bad Kingdom", anche la ballata techno " Damage Done" entra in lizza per conservare lo spirito dell’album e delimitare il suo territorio da qui in avanti, fissandosi nell’immaginario collettivo come classiconi dell’electro-pop che domina un certo mercato. "This is not what you wanted / Not what you had in mind". Il testo suona come una dichiarazione d’intenti, come una sentenza. Eppure, è realtà. Siamo arrivati a livelli altissimi, dei quali si accorgono tutti.

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Ciò che pare limpido, da questo momento, è quanto il prodotto sia stato pensato e realizzato alla maniera di una vera e propria band, molto più che nelle pillole ideate da ciascun componente e convertite in brani da studio, che rappresentava il biglietto da visita di Moderat. La storia, a questo punto, ci riporta al presente: il più recente III, datato 2016, ha funzionato da giro di boa non solo per i Moderat, forti di aver ormai coltivato un terreno così personale e duraturo, ma anche per tutti coloro che dal loro impero si sono fatti influenzare al punto di cristallizzare il loro percorso tra le icone del regno club di questo millennio.

I motivi sono sotto gli occhi di tutti: l’ultimo, concreto, passo che la band è stata in grado di realizzare nell’epilogo della trilogia contestualizza tutti gli sviluppi narrati dalla loro storia, passo dopo passo, fino ad oggi. Voce e sintetizzatore sono ormai uno spirito unico, cassa e batteria sono diventati corpi educati e automatizzati a far evolvere pathos, l’implementazione analogica è ancora studiata e percettibile, ma mai invadente. III è, in brani come " Reminder" , "Eating Hooks", "Running", la sintesi necessaria a fotografare un mondo, quello Moderat, che ha preso coscienza di ognuna delle sue specifiche qualità. Le stesse che hanno permesso a noi di imparare come un’entità così fortemente club, così tangibilmente post-rave e incline alla sperimentazione selvaggia si sia fusa in una dance polivalente, dalle sfaccettature chiare e inimitabili.

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Non è affatto un caso che le dichiarazioni incerte sul loro futuro abbiano lasciato tutti di sasso. Non lo è perché, per quanto possiamo razionalmente comprendere e spiegare un fenomeno musicale, non è affatto facile farlo se quel fenomeno viene orchestrato e diretto da una singola forma artistica, da un unico gruppo di riferimento. Questo spiega lo spiazzamento e l’incredulità: i Moderat, se dovessero mancare per un tempo indefinito, ci mancheranno per tutto quello che rappresentano per questa scena, oltre che per quello che la loro musica in giro per il mondo significa, assistendo ad uno show. Sono una bussola che segna esattamente il nostro tempo, dentro la dimensione di un’elettronica così versatile e multi-dimensionale, di cui è difficile fare a meno.

La nostra generazione - ma probabilmente anche qualcuna passata - trova in figure come queste un manifesto di ciò che può significare la connessione tra coesione, passione e dedizione nel spingere la tua carriera ad alti livelli all’interno di questo controverso mondo di genere, così spigoloso eppure così eccitante, come forse pochissimi altri importanti nomi contemporanei stanno riuscendo a fare (i Caribou, Jon Hopkins, Four Tet, tutti vicini per quanto concerne un certo rispetto univoco da parte del pubblico, sono indubbiamente su quel livello). Un manifesto, altrettanto, dei tempi e delle mode che vengono spazzate ciclicamente, ma ai cui vertici rimane tutto ciò che moda, insomma, non lo è affatto. Ed è, e rimarrà con ogni probabilità anche a seguito di questo non precisato “stop” dalle scene, l’aspetto che sicuramente preme sottolineare a chiunque sia vicino al loro modo di intendere la musica. Se volessimo tracciare un parallelo, quello fatto in questi quindici anni dai Moderat non è lontano dall’ascesa e l’inesorabile successo di star del pop mondiale che confermano doti, immagine e carisma a livelli insidiosissimi (e per questo soggetti a populismo e critiche). Nella storia dei Moderat, però, tutto sembra andare come ce lo aspettiamo, creando i presupposti per una dimensione coerente e costante, quasi ineguagliabile nella sua totalità.

Questo ci ha raccontato il loro cammino fino ad oggi, senza fronzoli. Basta fermarsi a cogliere quanto c’è dietro la foto dell’ultimo show del 2 settembre, a Berlino, con i tre incorniciati da un pubblico numerosissimo e consapevole di assistere ad una fetta di storia di questo microcosmo. Per stabilire se questo racconto avrà un seguito bisognerà attendere, con pazienza, ma sempre con altrettanto entusiasmo per ciò che rappresentano.

Giovanni è su Twitter: @storiesonvenus.

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