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Musica

Vegas Jones, storia di uno zarro

"Questa messa in scena trap mi fa schifo / Non per altro neanche sanno cos'è un micro". Vegas non ha mai avuto paura di esprimere opinioni forti, e non l'ha avuta nemmeno in questa intervista sul suo nuovo album Bellaria.

"Io sono zarro, zarro, zarro
Con tutto questo oro giallo, giallo, giallo"
— Club Dogo, "Zarro!", 2014.

Ci hanno messo un sacco di tempo, Guè e Jake, a intitolare un pezzo a quell'aggettivo che generazioni di ragazzi, più o meno di periferia e più o meno in mezzo a intrallazzi vari, hanno usato per definirsi. Lo hanno fatto quattro anni fa, un momento prima che il rap italiano cominciasse quel processo di metamorfosi che lo avrebbe reso, sulla scia di ciò che accadeva nel resto del mondo, la cultura musicale che sta definendo questo decennio. Lo zarro che quattro anni fa veniva rimbalzato alle porte dei club oggi appoggia le suole delle sue scarpe su tappeti rossi. Entra in uffici di vetro e metallo e appone firme su contratti che lo rendono ricco. Ha addosso gli occhi della gente, affascinati dal luccichio del ghiaccio che ha addosso.

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"Per l 'ultimo ballo tra tutti tu hai scelto lo zarro", diceva l'anno scorso Vegas Jones in "Pelle toscana". "Lei sa che sono uno zarro", dice oggi in "Mamacita", su cui rappa proprio assieme a Guè Pequeno. Tra i rapper della sua generazione, Vegas è forse quello che più incarna quel sistema di valori in cui si fondono realness, tecnica, audacia e ostentazione. Il suo nuovo album Bellaria è una celebrazione contemporanea di questo approccio alla vita, tanto genuina e spontanea quanto cerebrale e ragionata.

La storia della sua vita è stata già ampiamente raccontata: lavori umili, poi un lavoro della madonna, poi la chiamata di Honiro, poi l'esplosione culminata in Chic Nisello. Questo nuovo capitolo della sua carriera è come teso tra due forze: da un lato l'orgoglio nei confronti del proprio passato, dall'altro l'assalto a un futuro tanto eccitante quanto incerto. E il fulcro su cui si appoggia questa immaginaria tavola del tempo è proprio la sua zarraggine accorata, che si esprime tanto a schiaffi quanto a carezze. I primi, in forma testuale, a chi non sa "che cosa sia il micro", a chi parla di trap a sproposito, agli infami; le seconde alle cose che ama, e quindi il linguaggio, la tecnica e una ragazza. Quella che lo ha scelto proprio perché zarro.

Abbiamo parlato con Vegas in un barbiere in zona Garibaldi a Milano dei testi delle canzoni del suo nuovo album, di soldi e integrità, di melodia e di pop italiano. Qua sotto trovate la nostra intervista, mentre potete ascoltare Bellaria per intero su tutti i servizi di streaming già da subito.

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Noisey: Come ti sei rapportato, crescendo, col concetto di melodia? Lungo il corso della tua carriera si è visto pian piano evolversi in te una sensibilità di questo tipo, ma è interessante secondo me capire come ti ci si approcciato partendo da un contesto molto tradizionale.
Vegas Jones: Da come è sottinteso nella tua domanda, non ho mai abbandonato il lato rap. Non è scontato, tantissima gente non rappa più al giorno d'oggi. Non che sia un male, ma io preferisco rappare. Sto ancora coltivando delle tecniche, sto ancora studiando e voglio migliorarmi ancora. La melodia è arrivata nel momento in cui ho smesso di ascoltare solo roba da Golden Age, qualche anno fa. Era tutta roba dritta, cassa e rullante, e anche i vecchi ritornelli delle mie ispirazioni americane erano tutti rappati alla fine. Però ho sempre fatto ritornelli in cui prendevo il rap e lo mettevo in una melodia. Sempre. Per quanto all'inizio fosse roba più vicina al pop italiano, diciamolo.

"Tantissima gente non rappa più al giorno d'oggi", mi stai dicendo.
Perché è più difficile. Il mio disco c'ha mille parole, ci sono dischi che ne hanno duecento.

E infatti credo che la tua figura possa essere letta proprio come una coniugazione di questi due elementi. Rap, per come lo si è sempre inteso tradizionalmente, e sensibilità melodica.
Infatti è proprio quello che mi contraddistingue. Avrei potuto fare un disco tutto melodia, sai? Tipo, "Bubble Bubble" è del 2015. Solo che era un pezzo troppo fresco. Non l'ho messo in Chic Nisello perché era troppo avanti ed era fuori da quel trip, secondo me. Poi naturalmente l'abbiamo rivisto e rilavorato ma sono tre anni che gira, quel ritornello. Due estati ci ho fatto, ad ascoltarlo. E ho provini che non ho messo su questo disco perché reputo siano di un livello superiore rispetto al lavoro che è stato fatto. Mi piace dare il giusto tempo a tutto quello che faccio. In "Malibu" parli di te stesso come di "Quello che ha baciato il fondo e dopo l'ha tradito". Ed è un concetto interessante da spiegare, credo.
Mi sono fatto affascinare, assuefare dal fondo. Quando ho fatto uscire Oro nero ero davvero carico, avevo aspettative che si sono rivelate più alte rispetto a ciò che è successo effettivamente. Avevo fatto tanta roba melodica già allora. Io stesso non me lo ricordavo, sono andato a riascoltarmelo un paio di settimane fa. Se fossi stato un altro magari la cosa sarebbe andata, probabilmente non era il mio destino. Lì ho capito tante cose. Ho deciso di ripartire dalle due tracce che erano piaciute di più alla gente, le due in cui ero andato rappando. "Onesto" e "Motorello". Ho sfiorato il fondo, ho capito quello di cui dovevo parlare. E poi l'ho tradito.

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Mi ero fatto un mini-viaggione sul fatto che con quel "tradito" stessi parlando di integrità, in relazione allo status che hai raggiunto. Perché i soldi e la major cambiano tutto, no?
Se pensi alla mia vita privata puoi anche pensarla in questo modo. Ho fatto tanti lavori di merda mentre facevo musica e qualsiasi lavoro, per quanto possa essere di merda, è sempre dignitoso. Quindi lo sfiori, lo baci, il fondo. Non lo tocchi. Mentre ero all'autolavaggio che lavavo le macchine, dieci ore sotto al sole a quaranta euro al giorno in nero, mi dicevo "Vabbè, ok. Mi sto mettendo via i soldi, ma è per fare musica. Sto proprio raschiando per arrivare da qualche parte".

"La tua offerta la declino, preferirei essere ricco", dici in "Ice". Stiamo parlando della stessa cosa?
Certo. Preferisco fare come dico io. Tanto quello che mi dici tu non mi fa diventare come voglio diventare io. È tutto collegato.

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Mi sembra che tu sia uno dei pochi, in Italia a usare "trap" nel suo senso proprio, di "trappola". E lo stesso vale per "bando". Qual è per te il valore di questi termini?
Non è scontato. Magari senti i Migos che dicono "Bando, bando, bando". E dici "Boh, lo dico pure io". Ci sta, succede sia in America che in Italia. Poi in realtà non combini niente, nella vita. Conta che tutto quello che dico io è molto naturale e spontaneo: io e Boston George abbiamo vissuto in una casa che era un bando a tutti gli effetti, è stata la nostra prima abitazione. Ed è di questo che parlo in "Cristo". Lì dentro abbiamo vissuto tutto quello che è trap, e ci ha segnati. Lo avevo detto in "Burberry Freestyle": "Il bando non ci lascerà mai in pace, ho fatto un patto come con il diablo". Ogni volta ritorna. Ci guardiamo, come se fossimo in una spirale, e ci diciamo "Minchia, ma ancora 'sto cazzo di bando? Dobbiamo scrollarcelo di dosso". La prima era una crack house. Poi siamo passati al bando. E la casa nuova in cui stiamo è la trap house. Stiamo scalando, capito? Devo dirti che sono contento che si parli della parola "trappola" perché sappiamo tutti e due che non tutti sanno bene dove andare a parare. C'è chi dice che la trap non sia rap, ma insomma: la trap è il rap. Quello stai facendo. I Club Dogo facevano già trap, anche solo come argomentazioni. Ma ora sono cambiate le sonorità ed è giusto che si usi un termine per definire questa wave.

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Nelle tue parole torna spesso il concetto di zarraggine. E mi piacerebbe sapere che cosa ne pensi della strada che ha fatto lo zarro, da quando era considerato uno sfigato di periferia fino ad ora, che affascina anche chi con quel mondo non ha mai avuto niente a che fare.
Penso che sia moda, una conseguenza di tutto il movimento. Dieci anni fa i rapper si vestivano con i carcani. Non erano chicchettoni come possiamo essere noi adesso. Siamo sempre quelli con le scarpe più belle, con i vestiti più belli, i gioielli, le macchine. Ma ti dirò, io ho tirato fuori dall'armadio robe che mi ero preso con le paghette quando avevo quattordici anni. Avevo già il borsello e il cappello di Gucci, la sciarpa di Burberry. Da noi c'è sempre stata questa cosa. Quando avevi due soldi da spendere ti prendevi la tua cintura di Gucci, tipo a Natale, eri preso bene e ti gasavi con i tuoi amici. Oggi mi gaso alla stessa maniera, non è cambiato niente. Il contesto si è adattato a quello che già vivevo. Adesso se hai i pantaloni larghi sei automaticamente underground, non funzioni, per alcuni manco esisti. Il rapper deve essere in tiro, deve essere quasi più vestito bene che fare buona musica.

Chiudere l'album con un pezzo d'amore, "Lisha", invece che con una dichiarazione d'intenti su ciò che fai è una scelta molto forte.
Voglio che passi questa cosa: parlo anche di donne di facili costumi, di quelle che si aggrappano, perché ci sono. Sei un artista, hai le tue groupie e le tue fan. Ma è giusto dare spazio all'amore e farsi un viaggio anche se fai trap. In Oro nero c'era "Sogni d'oro", e nel ritornello dicevo "Pelle toscana e Cartier, come sei liscia". E in queste tre canzoni ho raccontato la stessa musa. Dire in un pezzo "Questa messa in scena trap mi fa schifo / Non per altro neanche sanno cos'è un micro" significa voler lanciare un messaggio molto chiaro.
Non ho neanche detto "scena". Ho detto "messa in scena". Tanta gente parla di cose che non vive. Io, sinceramente, sono uno di quelli che dice sempre il vero. Mi sarebbe piaciuto vivere una situazione di degrado in cui sparavo e roba simile ma no, non è successo. Quindi fantastico, non lo dico. La parte fondamentale di quella barra, però, è "Non per altro". Io non ce l'ho con chi fa trap: però almeno fai il tuo mestiere, impara a rappare. Lo sai benissimo, in America tutti san rappare. C'è chi è più tecnico o meno tecnico ma comunque, p**** diaz, quando senti uno che trappa ti accorgi che ha tecnica. Impara cos'è il microfono e poi dì tutto quello che vuoi. Sennò stai sprecando un beat che potrebbe usare un altro.

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Abbiamo chiesto ai nostri follower su Instagram di farti un paio di domande. Ale_whiteoff_se ti chiede: "Perché hai lasciato un lavoro con un buono stipendio e hai deciso di fare il rapper per tutta la vita? Nessuno ti assicura che potrai farlo per sempre".
Perché mi piace rischiare. Mi piaceva molto la cosa che facevo, quando l'ho mollata. Sarebbe stata il mio destino. Non ho piani B, ma vorrei che quella roba fosse un piano A+. Mi piacerebbe, un giorno, poter lavorare con le macchine mentre faccio musica. Quel mondo mi piace molto, è la mia passione. Quando mi ha chiamato Honiro e mi hanno detto "Ok, ti prendiamo e puoi fare carriera" io ci ho pensato bene. Lavoravo su auto di lusso, andavo al mattino al lavoro e dicevo "Minchia, che figata". Non era una presa male, era un bella roba particolare. Sono i lavori belli! E Honiro mi ha detto di andare a Roma. E ho deciso di seguire la musica. Non avrò mai niente da perdere.

Valvonautag ti chiede: "In una tua intervista ho sentito props agli Oro Grezzo, dicendo come per te è importante che un artista sia real. Credi che sia più importante per un artista essere real o essere artisticamente valido?"
È quello che ti dicevo prima: viene prima l'artisticamente valido, e poi se sei real va bene. Puoi anche essere uno fortissimo a rappare che dice un sacco di minchiate, io non lo saprò mai perché non sono te. Però non posso dirti niente perché sai fare il tuo mestiere. Ma solitamente chi è real sa anche rappare bene, le due cose vanno insieme di solito. Loro sono un esempio, secondo me verranno capiti tra un anno o due perché sono troppo oltre. Guarda i Migos, ci hanno messo quattro o cinque anni prima di fare Culture. E poi continua: "Credi che le etichette facciano bene al rap? Credi che siano necessarie per mantenere la scena pulita o piuttosto che siano un ostacolo alla creatività e alla libertà degli artisti?"
No. Una volta c'era questa idea cui le etichette ti portavano a essere considerato come venduto e commerciale. Le etichette sono fatte per valorizzare gli artisti, non è che prendi un artista e lo snaturi. Universal mi prende perché faccio la mia roba e perché ho i miei fan. Il mercato oggi è molto più di cultura rispetto a una volta, ci si appassiona al trip di un artista. L'obiettivo è fare arrivare il tuo punto di vista a tutti quanti.

Che poi puoi essere accessibile anche senza snaturarti. Per me si sente benissimo in pezzi come "Malibu", "Mamacita" e "Drive By".
Quello che secondo me manca ancora all'Italia, nonostante abbiamo fatto passi da gigante a livello di cultura rap e hip-hop negli ultimi anni, è una percezione diversa del rapper. Passano pezzi in radio, ma non ancora a stecca come in America. E non esistono ancora programmi TV che invitino i rapper e li trattino come un artista italiano va trattato. Guarda la Pausini, esce il disco e ne parlano tutti per tre settimane. Vero. Ci sarebbe bisogno di programmi TV in cui il rapper non è la macchietta, il rapper personaggio, ma è solo se stesso.
Sì, infatti. "Guarda, è arrivato il rapper". Un rapper deve essere importante quanto un attore o un cantante. Noi siamo cantautori. Il 90% del cantautorato italiano oggi è rap. Parliamo delle cose che viviamo, alla maniera nostra. Ogni anno facciamo passi da gigante a livello di pubblico, e anche noi riusciremo a far capire il nostro messaggio in maniera tranquilla. Bella chiara, ma con le nostre parole e il nostro sound, cambiando idea e mentalità alla gente. È quello il vero obiettivo.

Elia è su Instagram: @lvslei

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