11 - Pippo Franco - Front

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Musica

Quella volta che Pippo Franco ha quasi salvato il pop italiano

A volte non serve cavalcare esterofilie alla moda, al contrario: “Sentite che ve dice er sor Levante” perché, c’è da dirlo, ha naso da vendere.

Diciamolo: stiamo passando un momento di merda a livello mondiale. Per confidare nel futuro ci vuole un bel po’ di ottimismo. E proprio perché so che è difficile, ho pensato che stavolta Italian Folgorati lo dedichiamo alla risata, che a volte colpisce più di un’arma. Stavolta a dare fuoco ai mortaretti ci pensa un comico che in realtà è più un musicista che da questa musicalità istintiva e priva di pudore ha estratto il proprio humor affilato. Parliamo di Pippo Franco.

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Il nostro “Pippo col naso”, come lui stesso si definiva in un suo ambiguo doppio senso, in realtà nasconde anche di più di una maschera da comico: sulla sua fissa esoterico/spiritual-massonica mi sono già soffermato in questo articolo di secoli fa, e in musica gli abbiamo già reso omaggio con il progetto Cadeo in un lavoro creato appositamente per Benjamin Valenza e Lili Reynaud Dewar all’istituto Svizzero di Roma. Non c’è molto da aggiungere, se non che la virata a destra del nostro, tanto evidenziata dai detrattori, è iniziata tardi: prima era più che altro indeciso tra la democrazia cristiana e i socialisti, un problema che evidentemente ha avuto tutta l’Italia e ahimè continua ad avere. Nel 1971 però la sua ispirazione sembra riflettere ancora una fascinazione forte per la laicità e il paganesimo. Cara Kiri rappresenta l’apice di uno stile inedito per l’Italia di allora, un disco unico, seminale, senza età; ma soprattutto un attacco beffardo e lungimirante a certi tipi di potere la cui devastante portata negativa allora era difficile da cogliere.

Ma ripassiamo un po’ la carriera musicale del nostro: alla fine degli anni Cinquanta, dopo un esordio da disegnatore di fumetti che in qualche modo lo aiuterà a forgiare il suo personaggio (a tutti gli effetti un fumetto vivente) comincia a esibirsi come cantante/chitarrista con piccole band, caratterizzando i brani originali con dei testi che possono dirsi antesignani del rock demenziale. Fra queste band, i Pinguini: gruppo che vedeva nelle sue file quel Giancarlo Impiglia famoso per essersi poi affermato come pittore di successo e autore delle copertine dei Quella Vecchia Locanda, leggende del prog italiano. Il lancio di Pippo Franco avviene proprio con i Pinguini, accompagnando Mina nel musicarello del 1960 Appuntamento a Ischia di Mario Mattoli. Da quel momento la sua strada musicale prende una via praticamente e spontaneamente fusa col discorso comico teatrale e televisivo, soprattutto quello col Bagaglino degli anarchici “di destra” Castellacci e Pingitore (che facevano della comunistissima Gabriella Ferri una star indiscussa dei loro show, avvezzi come erano al crossover politico/artistico) ma, a dire il vero, il Pippo Franco musicista rimane in piedi anche in assenza della sua maschera. Anzi, è un vero e proprio pioniere di quella che potremmo definire “weird music”.

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Già dalla copertina di Cara Kiri, sulla quale Pippo campeggia avvolto da rotoli di carta igienica, in un gabinetto, con le chiappe di fuori (all’epoca della ristampa coperte da un adesivo con scritto “tutti hanno qualcosa da nascondere”), si evoca una rottura con il buon gusto e col senso comune, uno strappo estetico di stampo “punk” alla GG Allin. Il fatto che il titolo sia in un certo senso un ironico strizzare d’occhio a una pratica suicida implica che se si ride lo si fa con i denti stretti, usando una comicità che è più che altro surrealismo armato. Basti leggere le note di copertina, tra l’agghiacciante e l’improbabile:

Cara Kiri.

Avevo pensato di dedicare questo disco a te, poi dopo averlo riascoltato mi sono accorto che è meglio di no. Ritengo anzi di doverlo sconsigliare alle ragazze dall’animo tenero ed ai minori di quattordici anni, perché questo disco in fondo è fatto per i delinquenti incalliti, per i sicari, per le spie, gente insomma più che altro dedita all’ ergastolo.

A proposito come sta il babbo?

Ti prego di spedirmi tutti i calzini scompagnati che trovi. I soldi che mi avevi lasciato per pagare l’affitto me li sono spesi il giorno dopo. Succede. Scusami. Ciao. Ti amo ma mi dispiace molto.

Tutto (quasi) vero.

La prima volta che lo ascoltai non credevo alle mie orecchie: pensavo mi sarei trovato un comico della TV fare una marchetta commerciale di poco interesse, invece mi sorpresi ad ascoltarlo per un mese, studiandomi gli arrangiamenti e trasformandolo così nella colonna sonora di un periodo storico del liceo in cui tutto mi sembrava allucinato come questo disco, soprattutto a fine corso quando ero sicuro di venire rimandato (cosa che poi non avvenne). Ancora oggi è una mia grande fonte di ispirazione soprattutto per il minimalismo “psicotico” che lo pervade nei dettagli sonori.

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Perché la grande caratteristica del disco è infatti l’essere solidissimo sia a livello testuale che a livello di arrangiamento/composizione. Nei testi il nostro non è solo, ma si fa aiutare (a parte dai fedeli Castellacci e Pingitore, qui onnipresenti) da un Gigi Proietti ancora in salsa “combat” e immerso fino al collo nel teatro sperimentale sinistrorso, che cofirma tre provocatori brani epocali uno in fila all’ altro (ed essendo anche lui nato polistrumentista, non è detto che non ci abbia messo lo zampino anche nelle musiche..). Il primo apre la facciata A: "Hai stata tu" è un allucinante esempio di analfabetismo futurista, che se da una parte è in linea con le storpiature á la Jannacci, dall’altra prende per il culo in modo esilarante certi epici romanticismi intellettuali da strapazzo, smontandone il linguaggio artificioso e strumentale, portando avanti in maniera spontanea quel discorso critico pasoliniano per cui il popolo viene rincoglionito dai media perdendo tutte le sue genuine tradizioni dialettali, generando un cortocircuito irreversibile. Il pezzo sarebbe stato bene musicalmente nel primo degli Skiantos, Inascoltable, con schitarrate vigorose e batterie sparate archeo-punk, appena levigate da una sezione d’archi per la quale torna alla mente il Sid Vicious di "My Way". E in effetti anche i vocalizzi di Pippo, con quel vibrati malsani e spezzati da schizofrenico non possono che far pensare a un proto punk a tutti gli effetti (ve lo immaginate con la t shirt con la svastica? Io sì).

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"America" rappresenta un altro picco micidiale del duo Franco/Proietti, una descrizione perfetta del nordista medio: forcaiolo ("E le sedie nel Connecticut / c’hanno la corrente elettricat / proprio come qui da noi / a Bergamooo"), razzista, incapace di andare oltre il proprio naso, ricco sfondato ma buono solo a pensare alla “lireta”, greve, vuoto e ignorante. "America, ma che ce vengo a fa'": la derisione beffarda di uno status quo viene declamata a suon di bossanova, con una soavità incredibile e irresistibile, con la leggerezza dell’utile idiota, tanto che pare scritta oggi. Evidentemente non è cambiato niente: i fascisti nell’Oregon dicon ancora tutti me ne fregon.

La successiva "Cesso" vede ancora Proietti ad affiancare il nostro Pippo, stavolta senza Castellacci e Pingitore con un’intro tratto da uno spettacolo dal vivo in cui il nostro descrive ironicamente le miserie di un’Italia in cui l’istruzione è carente da tutti i punti di vista. E poi parte una suadente ballata, in cui si gira intorno al tema scatologico dell’andare al gabinetto. Imbattibile nelle allusioni corporali che poi diventano automaticamente “inno poetico” e viceversa. Sberleffo all’italica melodia e ai suoi paladini, l’arrangiamento assaggia cavalcate che annusano il metallo infilate in un andazzo sudamericano irresistibile e cinico.

E il Sudamerica arriva a bomba con uno dei brani più lisergici di tutta la musica italiana. Uscita nel 1969, molto, ma molto, prima della sbandata di Battisti per quell’Anima Latina che ben conosciamo, "La licantropia" descrive un poveretto che ha una moglie che si trasforma nottetempo in lupo mannaro: una sorta di razzo horror comico pre-Landis, con un testo micidiale a mo' di Matrioska, in cui ogni parola o situazione ne richiama immediatamente un'altra, in un’interpretazione vocale anfetaminica e allucinata, con tanto di ululati femminili in sottofondo conditi di abbondante riverbero (i Cramps ne sarebbero stati felici) e uso di percussioni inusitate come il flexatone. Una specie di delirio ossessivo in un crescendo di fiati ed effettazzi che manco i PIL di "Careering". Finale quasi Mariachi che non ti aspetti, un vero e proprio must di malsana avanguardia pop.

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Ma le meraviglie non sono finite: "Quel vagone per Frosinone" racconta di un futuro distopico in cui gli uomini sono componibi e il cantato simil Reynols fa il resto. Nel particolare tratta di un’avventura erotomane in un treno finita male perché il protagonista, in pratica una specie di androide, viene pizzicato in flagrante nell’atto sessuale dopo essersi incastrato in un finestrino con la sua mano, ahimè, fatta a uncino, fino a smontarsi completamente e ridursi a "materia informe e molla". Insomma un dissesto, un grottesco disastro: visionario spaccato accelerazionista, in cui già si denunciano i rischi della robotica e della virtualità degli esseri umani (0PN all'epoca era ancora uno scintillio negli occhi di Gesù), accompagnato da una irresistibile samba e da break di batteria scaltri e inusitati. Nel finale il brano rallenta in maniera inquietante, come se il protagonista si stesse spegnendo come un giradischi (la prima volta che lo sentii pensai cazzo ma questo è paro paro il finale di "Grinding Halt" dei Cure! Che avessero ascoltato il nostro Pippo?).

"Ninna nanna", originariamente apparsa in una scena de Il debito coniugale di Franco Prosperi, è un attacco alla famiglia tradizionale bigotta e alla chiesa cattolica: il padre del bambino che teneramente sta cercando di addormentare con una canzoncina, si accorge mentre la intona che il ragazzino non è altro che figlio del prete che confessava la moglie. “Io pensavo, bel cretino, che eri nato settimino”, il nostro presa coscienza dell’adulterio blasfemo si inalbera fino a meditare un vero e proprio infanticidio. L’irresistibile arrangiamento stile carillion fa il resto per uno dei brani, nella sua spietata ironia, più violenti di Franco.

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In "Esmeralda" invece il nostro Pippo si prende gioco di Carlo Magno, in una specie di versione jazz stramba e sporcacciona di "Carlo Martello di ritorno dalla battaglia di Poitiers" ad opera del duo De Andrè/Villaggio. Tutta a bpm velocissimi, con parti di batteria e piano che sono un treno in corsa, con flauti che "The Fool on the Hill" se li sogna, il nostro Pippo si permette "prima che ci ingabbiano a tutti" di dire che la mitica Aquisgrana praticamente è nata dalla merda di una mucca. Una dissacrazione storica che prende di mira ancora una volta il potere tutto.

E poi il picco, "La statistica". Impreziosita da una ritmica tipo amen break da far sbavare Aphex Twin, tra il funk il prog e lo stornello romano, o una versione diesel del Canzoniere del Lazio, la canzone è un missile confezionato dalle abili mani del duo Castellacci/Pingitore, cofirmata per le musiche da Gribanowsky, già collaboratore del Bagaglino. Una velenosa presa per i fondelli della fredda e assurda scienza che riduce tutto a numeri esatti. L’assurdità di trattare gli uomini come “diagrammi” viene sbeffeggiata verso le estreme conseguenze “politically uncorrect": "Siam tutti figli di un po’ di mignotta / Duchi, becchini, io, tu! / Chi più, chi meno, chi meno, chi più”. Pippo Franco modula i toni con voce rotta, cambiando registro in un gorgo allucinato e irrefrenabile, come se non ci fosse scampo alcuno al controllo sociale. È la stessa critica che tra l’altro vedremo più avanti, quasi con la stessa intenzione sonoro-goliardica ma più edulcorata, ne "Il telegiornale" di Antonello Venditti.

Menzione speciale per "La nevrosi" e "Karakiri": questi sono invece due spezzoni di spettacoli dal vivo del nostro nasuto eroe, nei quali viene fuori la sua abilità come mattatore e “cappellaio matto” della scena. Nel primo viene analizzato, a colpi di stornello, il male “secula seculorum” per eccellenza con un piglio assurdista pre-Squallor, solo che invece di mettere il cazzeggio al primo posto come nella mitica band, si colpiscono in maniera accorata la tecnologia esasperata, l’abuso di pillole, gli psicologi santoni, la catena di montaggio dell’esistenza. In "Karakiri", per l'appunto, con urla belluine e citazioni di Petrolini, si analizzano invece le tendenze suicide dell'epoca, tendenze che ahimè pare siano più attuali che mai, con uno humor nero e tragicomico stile Monty Python all’amatriciana (non a caso più avanti Pippo doppierà Il Sacro Graal, anche se con esiti non proprio felici, seppur non per colpa sua). Dirige l’orchestra dell’intero disco, a mettere la ciliegina sulla torta “off”, Remigio Ducros, un compagno di merende di Daniela Casa in alcuni dischi di libraries anni Settanta.

In seguito a questa perla tra il serio e il faceto, Pippo Franco darà alle stampe altre raccolte e long playing di successo. Possiamo citare ad esempio Bededè! e Praticamente no, lavori che basculano tra grandiosi lampi DEVO-luti come "Scherzi stupidi" e situazioni pre-Martufello ancora capaci di fustigare la provincia gretta e burina e meno a farne mera macchietta, tipo la micidiale “Signo’ ho portato l’ojo”. Per questo, dischi da considerarsi meno centrati per quanto ovviamente esilaranti. Il meglio lo darà sicuramente coi 45 giri: a parte i grandi classici per bambini come "Mi scappa la pipì", "La puntura" e "Chì chì chì cò cò cò", e l’epocale "Che fico!" (inno pop punk che lo vedrà appunto guarnito da spille da balia e chiodo, classico oramai sdoganato ovunque e tristemente rebootato di recente), dobbiamo invece segnalare un pezzo micidiale come "Pinocchio chiò", uscito nell’84. Praticamente una versione degli Autechre per bambini, tutta elettronica sbarattolante, arrangiata e co-scritta da Romano Musumarra, ex-Automat, un gruppo che in Italia non ha bisogno di presentazione per chi mastica musica elettronica e i suoi pionieri. Il Lato B, "La Pantofola", è all’altezza della facciata A, con una serie di soluzioni inedite quali l’uso di un tremolo gate sulla voce assolutamente straniante, espediente spesso usato dai Chrome in dischi come Red Exposure. Nel 1986, con una vocalità tipo Demetrio Stratos pop (perché diciamolo, Pippo Franco è uno dei più grandi cantanti italiani) sforna invece, con l’aiuto del celebre paroliere Bardotti, i brani "Pepè" e "Pollice", dove in una critica contro la televisione e il suo strapotere gli dà di scat, vibrati vocali e di rap come pochi altri, su una base prettamente techno pop. Da segnalare anche "Il ballo marocchino" del 1988, dove su basi eurodance/italo disco si prende in esame (con preveggenza) il fenomeno dei "vu cumprà" e quindi dei flussi migratori dall’Africa, quando ancora non c’erano cretini al potere che minacciavano di multare chi comprasse da questi ambulanti o osceni pazzi che gli sparavano. Il testo, di Cristiano Malgioglio, si pone chiaramente con sguardo ammirato e “particolare” verso questi invincibili adoni africani che non temono fatica e caldo, con la stessa venerazione contenuta in “Gelato al cioccolato”, sottolineata da una frase lapidaria e provocatoria verso l'uomo bianco come “cianfrusaglie e collanine, ti rifila tutto quanto / una volta l'uomo bianco le vendeva proprio a lui”.

Nonostante questi highlights, solo in un lavoro come Cara Kiri è tutto concentrato, diretto, spurgato in un alone di disagio e urgenza espressiva che ha sapore di forze occulte post atomiche. Nella sua assurdità il disco del nostro protagonista continua, a distanza di anni e anni, ad essere un esempio di perfetta musica pop italiana sbilenca e senza compromessi che supera l’intrinseco valore comico. A volte non serve cavalcare esterofilie alla moda, al contrario: “Sentite che ve dice er sor Levante” perché, c’è da dirlo, ha naso da vendere.