Allora, com'è il nuovo album dei Dirty Projectors?
Fotografia di Jason Frank Rothenberg.

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Musica

Allora, com'è il nuovo album dei Dirty Projectors?

È un capolavoro, qualcosa che va oltre il concetto di "indie rock" e racconta la fine di un'era politica, affettiva e musicale.

Dave Longstreth, in arte Dirty Projectors, ha vissuto in prima persona il processo di normalizzazione dell'indie rock e la sua conseguente adozione da parte delle masse. Le sue prime cose, uscite nel 2003, erano rimaste nel circolo di una critica ai tempi ancora strettamente alternativa: storte, sguaiate, e sconnesse, lo identificavano come una sorta di versione contemporanea e culturalmente onnivora di Captain Beefheart. Pitchfork, per dire, adorò il suo album d'esordio The Glad Fact. Leggendo quella recensione si ha già un'idea dell'aura attorno a Longstreth, che ai tempi aveva già abbandonato Yale per darsi alla musica: i suoi riferimenti erano cervellotici e transgenerazionali, dai Microphones di Phil Elvrum a Morrissey, da Wagner a Justin Timberlake, con uno spirito iperproduttivo alla Robert Pollard.  Longstreth si è auto-caratterizzato come un artista poliedrico fin dall'inizio, fregandosene altamente dell'accessibilità dei suoi prodotti creativi. Insomma, dopo un esordio ben ricevuto dalla critica non tutti ce ne usciremmo con una mini-rock opera sulla guerra civile americana suonata con un'orchestra di dieci elementi. Lui, invece, esattamente questo faceva; e non era un problema, dato che un solista non deve certo porre filtri tra la sua mente e il risultato pratico dei suoi sforzi. Ma chiaramente, non potendo esibirsi con un tamburo sulle spalle e cinque chitarre a tracolla, con il tempo Dave scese a compromessi iniziando a fare orbitare altri musicisti attorno al suo personale pianeta creativo—senza però lasciargli, almeno all'inizio, grande libertà di azione.

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I Dirty Projectors nel 2007.

Fu a partire dal 2007 che i satelliti caddero sul pianeta-Longstreth creando un corpo unico. Presumibilmente, il suo intento non era quello di mettersi attorno delle figure che quietassero i suoi slanci creativi sconnessi; semmai poteva essere quello di riprodurre più fedelmente, dal vivo, di quello che usciva su disco. Ma il risultato fu, invece, una relativa normalizzazione della sua musica, che per caso o per fortuna si accompagnò all'inizio della fine dell'opposizione tra mainstream e mondo alternativo.  Gli effetti non furono immediati: il primo progetto dei Dirty Projectors-come-gruppo, Rise Above, era (pronti?) una re-immaginazione di Damaged dei Black Flag, grande classico punk, scritta da Longstreth senza che avesse ascoltato il disco nei quindici anni precedenti. Ma non si configurava come una semplice versione indie del capolavoro della band di Greg Ginn, come potreste immaginare: era un'opera ai limiti del math rock, ossessionata dalle sue stesse poliritmie. Una sorta di ristrutturazione compositiva di quello che immaginiamo essere la forma-canzone, come dimostra il rifacimento di "Gimme Gimme Gimme": chitarre in conversazione, voci scoppiettanti che si alternano in vocalizzi su diversi canali, improvvisi rumori fuori tempo. Tra le figure che hanno accompagnato questa fase di scoppio della carriera di Longstreth c'erano due ragazze: Amber Coffman ed Angel Deradoorian, la seconda entrata nel collettivo dopo la pubblicazione di Rise Above. La Coffman, nata a Los Angeles, aveva una storia da math rocker. Suonava negli Sleeping People, trio strumentale che spuntava tutte le caselle del genere—tempi strani, gusto per la melodia come per il rumore, saliscendi continui, strutture asimmetriche. Gli stessi elementi che, nei Dirty Projectors, avrebbero trovato una loro forma pop. La Deradoorian, invece, non aveva un passato da musicista professionista quando si unì a Longstreth—ma avrebbe avuto poi un ottimo futuro in tal senso, collaborando ampiamente con Avey Tare degli Animal Collective e cominciando una fruttuosa carriera solista.  Resta che, una volta diventati gruppo, i Dirty Projectors sono finiti a scrivere due album che credo essere fondamentali nel processo di storicizzazione dell'indie rock americano. Il primo è Bitte Orca, uscito nel 2009, e qua sotto potete ascoltarne un estratto—"Temecula Sunrise".

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 In una vecchia intervista, Longstreth dichiarò che il suo strumento musicale preferito era la voce. Ecco, Bitte Orca lo dimostra incontrovertibilmente. Oltre alla sua c'erano quelle della Deradoorian e della Coffman, oltre che quella della terza cantante Haley Dekle—e assieme andavano a creare una polifonia avvolgente che partiva dagli intricatissimi giri di acustica di Longstreth e ci appoggiava sopra elementi di per sé fragili come le carte di un castello, tenuti assieme dalle acrobazie di quattro voci intrecciate. "Temecula Sunrise" è esemplificativa: chitarre impazzite, voci accatastate, una batteria che a tratti sembra ribellarsi al suo ruolo—tenere il ritmo—lanciandosi in accelerazioni inaspettate, rallentando quasi con arroganza.  Bitte Orca fu una sorta di classico art-pop istantaneo, e uno dei primi casi in cui un prodotto nato da e scritto per una nicchia risultava invece spalancato al mondo, con una complessità perfettamente calibrata. Il suo successore, Swing Lo Magellan, non fece altro che confermare quanto Longstreth e i suoi avessero accettato di buon cuore il loro ruolo di innovatori inclusivi, senza però perdere il gusto per la ricerca e l'imprevedibilità. Citerei, per un esempio, "Gun Has No Trigger", una delle canzoni più semplici e "dritte" mai scritte da Longstreth. Aveva pochissimi elementi, a livello sonoro: un ritmo di batteria tagliente, qualche nota di basso, e ancora le voci che avevano dato un'identità a Bitte Orca. La sua in primo piano, quelle femminili a riempire lo spazio lasciato vuoto da chitarre e tastiere con montagne russe melodiche. Le parole del testo, però, erano completamente impressionistiche: lo ammise Longstreth stesso, che volle inoltre un karaoke cuneiforme come video ufficiale del pezzo.

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Nel 2013 la carriera e la vita personale del nostro Dave presero una piega inaspettata. Innanzitutto, quell'anno marcò la fine della sua relazione con la Coffman (che i due avevano deciso di tenere il più privata possibile), che uscì anche dal gruppo. Fu l'inizio di un esodo che, con gli anni, ha reso di nuovo Dave l'unica forza creativa dietro al progetto Dirty Projectors. D'altro canto un approccio simile ha totalmente senso se lo pensiamo mutuato da una fondamentale esperienza nella sua carriera, vissuta proprio quell'anno: la conoscenza del super-produttore Rick Rubin e quindi quella del suo protetto Kanye West—che, esattamente in quegli anni, si stava smarcando dalla sua figura di rapper-produttore per adottare quella di mente creativa a tutto tondo.  In quel periodo, Yeezy si era ritirato in una villa in Messico assieme ad alcuni collaboratori fidati per buttare giù idee per The Life of Pablo, album caotico e futurista, un pastiche creativo in costante evoluzione. Tra i presenti, oltre a nomi fondamentali del think thank di Kanye come il produttore Mike Dean, c'erano The Weeknd, French Montana, il rapper Rhymefest; e Dave, appunto, assieme ad Ezra Koenig dei Vampire Weekend. Ed è così che Longstreth è comunque finito a scrivere il bridge di FourFiveSeconds di Kanye, Rihanna e Paul McCartney—l'inizio di una parabola simile a quella del suo collega Bon Iver, altro ragazzo bianco, barbuto e creativo adottato dalla nobiltà hip-hop americana.  Da quell'esperienza, Dave ha portato a casa—oltre a degli ottimi agganci—un nuovo set di strumenti con cui comporre, su tutto. Certo, non aveva mai evitato di dichiarare il suo amore per l'hip-hop: già in un'intervista al New York Times del 2012 citava i beat di Lil Wayne come forte ispirazione. Ma in questo suo nuovo LP l'influenza del Kanye post-Yeezus, frammentario e visionario, è il filo rosso che tiene assieme l'opera. Una versione 2.0, sintetica e ibrida, del modus operandi poliedrico che ha sempre dimostrato di tenere.

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Fotografia di Jason Frank Rothenberg.

Dirty Projectors è un album che parla di perdita. La sua lettura più semplice identifica Amber Coffman nell'interlocutore a cui la voce narrante si rivolge, ma Longstreth stesso ha dichiarato di essere in buoni rapporti con lei nonostante non si sentano più molto. Ha inoltre aggiunto che il rapporto rotto che racconta nel disco potrebbe essere qualsiasi relazione—quella tra il Regno Unito e l'Europa, quella tra il pensiero positivo degli anni di Obama e l'elettorato americano, quella tra il concetto di indie rock e l'effettiva indipendenza del prodotto musicale. La Coffman resta comunque una presenza fissa nell'album, fin dal primo pezzo. "Keep Your Name" è una sorta di ballata per pianoforte glitchata, un microcosmo introduttivo decisamente adatto a contenere il senso dell'album. La voce di Longstreth è pesantemente modificata, le sue acrobazie nasali rese più suadenti e stranianti dall'autotune e dagli effetti. "Non so perché mi hai abbandonato / Eri la mia anima, la mia partner / Terremo separati / Ciò che eravamo e ciò che siamo diventati / E ti terrai il tuo nome," esordisce Dave, ambivalente nella sua espressione—a tratti rassegnato, ad altri inorgoglito dalle differenze che hanno portato alla fine la relazione. Paragona sé stesso a Naomi Klein, attivista no-global e autrice del celeberrimo No Logo, e la Coffman a una catena di vestiti. Prosegue poi mettendola sul professionale, parlando delle loro rispettive visioni artistiche: "Come dice quel testa di merda di Gene Simmons dei Kiss, 'una band è un brand', peccato che le nostre visioni siano stonate." E conclude il tutto con un seppuku emotivo da lacrime: "Dici che quello che vuoi dall'arte è la verità, e quello che voglio io è la fama / E allora le terremo separate, e ti terrai il tuo nome." La relazione tra Longstreth e la Coffman straripa da ogni parola dell'album, dalle sue frasi dense di richiami alla cultura pop e alla New York che è servita da sfondo al loro amore. "Death Spiral", costruzione elettronica in cui le chitarre sono relegate a qualche misera melodia in un turbinio alla Yeezus, trova il suo punto più alto in un bridge autotunato in cui Dave ricorda un litigio con la Coffman, con lei che lo inseguiva per la strada e lui che provava a chiamare un taxi—preludio a un definitivo "Finalmente il nostro amore sta cadendo, come in una spirale." Ma la città appare con maggiore intensità in "Up in Hudson", operetta da otto minuti che racconta il primo incontro tra Dave e Amber, il loro primo incontro sul palco della Bowery Ballroom di New York City, l'entrata nel gruppo di lei, il loro innamoramento, la scrittura di "Stillness Is the Move". Una gioia repressa però dal ritornello—"L'amore smetterà di bruciare / L'amore scomparirà, e basta". Il tutto su ritmiche tropicali che ricordano una versione acida e massimalista dei Vampire Weekend. E Dave che si racconta, in macchina sulla Taconic Parkway "ad ascoltare Kanye", con la Coffman a Echo Park "a sparare Tupac dalle casse". Lui, affrettato; lei, placida. Lui, futurista; lei, tradizionalista.

"Work Together" è un incubo lucido, un pezzo schizofrenico sorretto da bassi pulsanti e linee vocali affastellate in un'amara fantasia utopistica in cui tutto sarebbe potuto andare bene, e arriva alla conclusione che "Forse l'amore è una competizione / Che ci fa alzare l'asticella / E migliorare noi stessi". È qua che ci si rende conto, ascoltandolo, che l'album ha una struttura a parabola. Comincia inacidito e infastidito, spiraleggia verso il basso cercando di trovare un senso nei ricordi. Non ce la fa, e per un momento impazzisce toccando in "Work Together" il suo punto, emotivamente parlando, più basso. Da "Little Bubble" in poi, la parabola non fa altro che risalire: è un pezzo confortevole come il suo titolo, tutto melodioso e ordinato. "Per un po' abbiamo avuto la nostra bollicina", canta Longstreth, con un quartetto d'archi ad aprire il pezzo e un'atmosfera che ricorda gli Antlers più quieti. Inoltre, in tempi di filter bubble, il titolo e il testo richiamano l'universalità delle tematiche del disco citate da Longstreth nell'intervista con il Guardian di cui sopra.  "Winner Take Nothing", "Ascent Through Clouds", "Cool Your Heart" e "I See You", i quattro pezzi con cui si chiude il disco, calano Longstreth nei panni del Kanye di 808s & Heartbreak (tra l'altro citato letteralmente in un testo): quello che si chiede se amerà mai più, ma intanto si è reso conto di aver imparato qualcosa su sé stesso e sulla vita. Il modo in cui la musica rispecchia la complessità di un simile processo emotivo è notevole. "Winner Take Nothing" è la realizzazione della futilità del pensare una relazione come sfida: "Tutto questo mi ha messo contro me stesso / Perdendoti, ho perso me stesso". "Ascent Through Clouds"—pezzo dal titolo abbastanza didascalico—è quanto di più relativamente tradizionale ci sia sull'album, con un arpeggio di acustica come protagonista per buona parte della canzone, interrotto da un doppio coro impegnato in un botta-e-risposta piacevolmente disorientante che si conclude in positivo: "Forse, potrà essere un'altra opportunità per vedere il sole sorgere."

"Cool Your Heart" e "I See You" sono gli ultimi canti di un paradiso riguadagnato. La prima, l'unico duetto sull'album—una riaccettazione delle complessità della vita di coppia, la ricomparsa di un'altra voce—con D∆WN a intonare un "Voglio essere dove sei tu" pieno di speranze su una mini-chitarra in levare, interrotta da fiati e rumorini elettronici che stimolano i sensi come bollicine di una cedrata gelida ad agosto. La seconda è una sorta di gospel liberatorio composto su una melodia d'organo, una presa di posizione definitiva: "Perdono, riconciliazione / Gratitudine per averti conosciuto, e tu per aver conosciuto me". E ancora: "Non avremo paura di crescere / Quello che ci siamo dati resterà sempre in noi / Mi ricorderò, resterò orgoglioso di te / Felice che tu sia stata nella mia vita." Dirty Projectors si configura, credo, come l'opera più completa e vibrante mai composta da Longstreth. Dieci anni fa era impensabile una simile evoluzione per l'indie rock americano, ai tempi ancora legato a una tradizione chitarristica oggi completamente superata. Credo fortemente che l'innovazione e l'ibridazione siano le due strade maestre da percorrere per portare la musica a diventare qualcosa di nuovo, per cambiare il significato di ciò che consideriamo essere "cantautorato", "rock", "indie", "hip-hop". Adoro considerare la musica come un enorme calderone in eterno rimescolamento, penso che la sua forza più grande sia la sua qualità terapeutica, mi piace rivedere le quarte pareti tra autori e il loro pubblico infrangersi anche in forma sonora e lirica. In questo senso, Dirty Projectors è un album ricchissimo di significato, fondamentale per ridefinire gli assiomi di ciò che crediamo essere "rock".  Elia ha anche Twitter: @elia_alovisi
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