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Música

Apologia dei Pooh

Oggi esce il nuovo disco dei Pooh. Voi direte: e che cazzo ce ne frega? Fanno cacare. Io, invece, vi dico che metà delle cose che vi ascoltate in Italia deriva da loro.

L’aria diventa elettrica
E un uomo non si addomestica
Le corde mi suonano forte la molla è carica

Oggi esce in pompa magna il nuovo disco dei Pooh. Voi mi direte: e che cazzo ce ne frega? Fanno cacare. Io, invece, vi dico che metà delle cose che vi ascoltate in Italia, finanche l’harsh noise, deriva da loro. D’altronde ognuno ha le sue fisse, no? Valerio Mattioli ha Paul McCartney, io Red Canzian. E siccome quando è uscito il nuovo dei PIL non mi hanno fatto fare l’articolo, ora vi beccate questo.

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Fondamentalmente, i Pooh sono una macchina da crossover. Nascono hard beat, con cover dei Kinks e brani dai fuzz fulminanti e bassi rumorosi, passano per il prog sinfonico del periodo Parsifal—siamo nel 1973: 58esimo posto nella lista dei migliori dischi italiani di sempre per Rolling Stone. Nel 1975 seguono la scia acustica di Neil Young, e dal 1976 all’81 si inventano una specie di miscuglio fra wave, kraut, NWOHM e white funk alla Talking Heads. Naturalmente, tutto tritato nel pop italiano. L’esperimento più riuscito in questo senso sarà Stop del 1980. Più tardi virano praticamente al synth pop con un massiccio utilizzo del Fairlight (il primo campionatore in assoluto) e sfornano un disco registrato in Giappone, usando praticamente qualsiasi cosa, dal buco di culo elettronico al guitar synth, e più flanger alla chitarra di quanto abbia fatto Robert Smith dei Cure in trent'anni di carriera.

Insomma, diciamo che fino al 1985 hanno provato a essere internazionali e a sperimentare la via pop “corrotta” da elementi più antisistema. Soprattutto nei testi, spesso inni alla fornicazione e all’anarchia (per gli scettici, confrontare le parole di “Passaporto per le stelle," "Il giorno prima” e "Donna al buio bambina al sole”). Perché dico questo? Perché negli anni Settanta Canzian suonava negli Osage Tribe di Battiato ed è il primo a portare il fretless in Italia, costruendoselo da solo dopo aver visto Pastorius dal vivo; perché D’Orazio faceva ribalderie con Carmelo Bene e Il Punto, e su richiesta degli ABBA stessi ha realizzato i testi italiani del musical Mamma mia; perché Facchinetti è uno dei primi ad aver studiato sia il moog che il fairlight e ad averli usati in Italia quando tutti si affidavano esclusivamente agli endorser; perché Battaglia è talmente in fissa con gli Zeppelin che non ha potuto fare a meno di ordinare il nuovo logo in palindromo (dalle iniziali), e oltre a jammare spesso con personaggi tipo Al Di Meola ha creato le chitarre di alcuni fra i migliori successi di Vasco Rossi ("Una canzone per te," "Va bene va bene così," "Toffee"). A proposito, fra poco uscirà l’ultimo singolo di Vasco, scritto a quattro mani nel 1985.
Insomma, non è gente nuova a cose “strane”. Figuratevi che l’autore del logo era il chitarrista della Rettore.

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Poi chiaramente non ce l’hanno più fatta, e abbiamo ancora nelle orecchie roba inqualificabile che chiamare europop è un complimento, nonostante i traballanti tentativi di imitare gli Stone Roses su qualche brano di Musica dentro del 1993—la cui confezione da pizza cinematografica, peraltro, copia spudoratamente Metal Box dei PIL.

Ma quando la gente dice che i Pooh non gli piacciono e va matta per quello stracciapalle barbone di Guccini (!) mi viene da ridere: scherziamo? Ovvio che non ci troviamo sempre di fronte a pezzi memorabili; si tratta comunque  di una band che ha avuto il fiato dell’industria musicale sul collo e che ha dovuto accontentare questa, il pubblico e se stessa.

Evidentemente è un fatto di pregiudizi: sono tutti pronti a dargli dei nazionalpopolari, ma i Queen allora cosa cacchio sono? Cosa cosa? Dite che Ok Computer dei Radiohead è un capolavoro a paragone? Immagino nessuno abbia ascoltato Un po' del nostro tempo migliore, perché altrimenti il completo plagio delle strutture e delle soluzioni musicali ai danni del quartetto risulterebbe più che evidente. Saccheggiato il pop sinfonico italiano, gli inglesi fanno i fichi dicendo che hanno reso accessibile il prog alle masse. Ma andate a fare in culo, copioni. Anche Bowie—che era grande fan di Battisti, quindi abituato ad ascoltare musica italiana—copiò "Rebel Rebel" da una loro canzone, “Johnny e Lisa.” Popolo bue si merita un vaccaro spietato. Se parlo con i Wolf Eyes, oggi come oggi mi citano sicuro Parsifal fra le loro influenze. Sono dei grandi appassionati di progressive italiano, e se non ricordo male l’ultima volta che ho condiviso il palco con loro stavano cercando Concerto grosso dei New Trolls in vinile. Mica gruppi tipo i Cervello, per intenderci.

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È strano che nelle foto d’epoca non ci si accorga di come i Pooh siano sempre stati dei cazzo di capelloni in vena di bong—per loro stessa ammissione, nelle recenti biografie rivelano che “ogni tanto qualche canna…” In più ci hanno lavorato insieme i peggio sinistrorsi, in apparenza anche musicalmente lontani (tipo Eugenio Finardi, che gli faceva da fonico). Per quanto mi riguarda, è con i loro brani più apertamente psichedelici che ho scoperto i Pink Floyd. Sfido, dopo tanti anni mi sono reso conto che l’ingegnere del suono di Buona Fortuna è il Brian Humphries che ha registrato Animals e Ummagumma! Non si parla di bruscolini: altro che il disco tributo agli 883 con tutti quegli indie rocker sfigati, cristo santo. Ora la faccio io una una raccolta di cover squealcore dei Pooh, così capite come funziona la vita.

Poi però D’Orazio, il batterista storico, se ne va. E che succede? Eccoli magicamente apparire come headliner in Giappone, in un festival prog che li vede a fianco de La Locanda Delle Fate e le Orme. Eccoli fare brani ispirati ai Rhapsody, lunghe suite di epic metal chiaramente mascherate da canzoni pop. Essì, perché lo stolto vede il dito e non la luna: dietro alle melodie cantabili e ai ritornelli spesso da operetta c’è una base sonora che è l’esatto opposto. Dire che sono commerciali è quantomeno impossibile. Semmai, sono “singolari”.

Oggi, evidentemente, anche i Pooh si accorgono che i brani più importanti del loro repertorio sono i minori, che sono ovviamente i più sperimentali. Altrimenti non si comprenderebbe il perché di Opera seconda, un rifacimento in chiave orchestrale di alcuni loro brani del passato che sono pressoché ignorati dagli stessi fan. Certo, è altrettanto ovvio che i nostri sono a corto di idee: anche riproporre in maniera orchestrale un qualsiasi successo costruito a tavolino come “Tanta voglia di lei” farebbe storcere il naso, ed è proprio questo uno dei motivi dell’abbandono di D’Orazio: il timore di ripetersi. Ma quando in scaletta troviamo “Quaderno di donna"—brano del 1978 che è un'ode al femminismo lesbico, caratterizzato da una epocale cavalcata shred nell’intro quanto da una steel guitar cosmica—ci rendiamo conto che qualcosa, nella loro testa, è cambiato. Sarà probabilmente il ritrovato interesse per il mondo underground, visto che oramai le major non valgono più un cazzo; sarà che finalmente arrivati a sessanta e passa anni non hanno nulla da dimostrare e anzi, possono finalmente suonare quello che gli pare senza dover passare per gli uffici della CGD o sfornare un disco di inediti all’anno solo per onorare il contratto. Sicuramente è meglio che produrre nuovi e orrendi pezzi sulle nonne, le mamme e le donne italiane, caro D’Orazio.

Insomma, fare giustizia alla loro storia sembra oramai una missione. Nelle interviste i nostri parlano addirittura dei personaggi di questi pezzi come “rivoluzionari”. Si parla di RIVOLUZIONE, cazzo. Sì, perché per loro è come incidere degli inediti: ora che il giro di boa generazionale è al bivio non c’è più bisogno di “Uomini soli,” ma della punk girovaga di “Ci penserò domani,” del gay dichiarato e orgoglioso di “Pierre,” della mignotta che sceglie il sucidio al posto della schiavitù di “Maria marea.” Never mind the bollocks, here’s the Pooh oseremmo dire, visto che i brani sono quasi tutti del periodo 1975-78, quando il paroliere Negrini sognava un concept album sul punk italiano purtroppo abortito.
Non mi sognerei di consigliare questo album a chicchessia (sarà ovviamente una ciofega), ma di certo recuperare i brani originali potrebbe essere una piacevole scoperta per chi di loro ricordava solo “Pensiero,” e pure a malapena. Ultimamente sono stato al matrimonio dell’amico Fecalove, uno dei nomi di punta dell’harsh italiano, e gli ho curato la playlist per il pranzo: ovviamente tutte canzoni d’amore dei Pooh, poiché era un matrimonio in maschera e io ero vestito da Facchinetti. Ebbene, durante le portate qualcuno mi chiedeva "Ehi ma di chi è sto pezzo? È una bomba.” Ed era tutta gente avvezza al powerelectronics, al noise estremo e alla breakcore. A loro e ai miei amici sposini dedico questo brano, consigliando di ascoltare in reverse l’inizio perché parla di noi, dei nostri sentimenti, dei nostri valori.

Chi fermerà la musica.