Corpi indigeni, corpi estranei: Elysia Crampton e l'eredità Aymara

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Musica

Corpi indigeni, corpi estranei: Elysia Crampton e l'eredità Aymara

Più di un'intervista: un lungo confronto tra Elysia Crampton e Sonia Garcia sul rapporto con un'identità che sfugge, la storia dei popoli sudamericani e molto altro.
Sonia Garcia
Milan, IT

"Mi piace quando parli spagnolo… ha un fortissimo accento italiano, lo rende speciale. Meglio del mio sicuramente! Io parlo come un 'yankee', l'hai detto tu la scorsa volta…" Elysia Crampton ride di gusto, e io mi vedo obbligata a farfugliare qualcosa tipo "Lo so, me lo dicono tutti, è l'unico modo in cui lo so parlare." Non sono mai stata credibile quando parlo spagnolo, e quest'estate, in un mese trascorso in Perù, ho avuto modo di constatarlo in prima persona. Se in apparenza potevo sembrare peruviana, bastava una frase per smascherare la mia provenienza. Si sentiva persino che sono cresciuta in Toscana, ed era sempre motivo di grande ilarità, sia tra gli italiani che tra i parlanti spagnolo, parenti e non. Il forte accento statunitense nello spagnolo di Elysia, è stata la prima cosa che ho notato parlandoci su Skype, e felice di avere qualcosa di così buffo in comune, gliel'ho subito comunicato. A dire il vero, l'intera conversazione—divisa in due lunghissimi tempi—non è stata altro che uno scambio costruttivo-conoscitivo di tutto quello che avevamo potenzialmente in comune, viste le corrispondenze più o meno ovvie che nel corso dell'ultimo anno mi hanno legata alla sua idea di musica come a poco altro al mondo.

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Non so neanche se me la sento di definirla "intervista," perché in nessun momento è stato qualcosa di incentrato sull'operato artistico o sulla sua carriera musicale per come la conosciamo. È stato più uno scambio costruttivo di reciproche esperienze, ricordi, visioni e sensazioni, sulle quali ha poi piantato profonde radici la coscienza anticoloniale che oggi ci accomuna e che, nel suo caso, costituisce il principio fondante della sua arte. I parallelismi tra le nostre esperienze passate, per quanto spesso ovvi, non vengono affrontati come excursus storico personale fine a se stesso, ma come chiave di lettura di processi ben più complessi, come riaffermazione dell'eredità culturale indigena, e di conseguenza l'autodeterminazione dei popoli stessi. Principi di cui la producer boliviana non ha mai fatto segreto, né come E+E, né come Elysia Crampton, restituendo alla musica la primordiale funzione di linguaggio, in questo caso come punto di partenza imprescindibile per ogni processo di decolonizzazione del quotidiano. Perché "la decolonizzazione è qualcosa che deve essere applicato costantemente, non una volta ogni tanto, a breve durata. Deve essere un flusso intenso quanto il battito del nostro cuore." Anche se, come vedremo, è un concetto paradossale, è comunque necessario, "specie per chi come noi ha famiglie che arrivano da realtà indigene in cui hanno vissuto questo straziante processo di deturpazione identitaria, o si sono da sempre sentite dire cosa possono considerare parte della loro cultura e cosa no."

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La prospettiva Aymara—come quella Quechua, native di Bolivia e Perù—apre le porte ad interpretazioni che da "occidentali", difficilmente avremmo dato a tanti aspetti della realtà, a partire da spazio, tempo, scienza e linguaggio. Questa nuova consapevolezza è alla base di un potenziale sconvolgimento del pragmatismo coloniale cui siamo sempre stati educati a convivere. "Siamo nati ricchi di tante cose, ma ci è stato detto che non è niente, che è come essere nati senza. Questo a prescindere da quanta volontà abbiamo di fare tesoro della nostra eredità indigena. La porterò con me per sempre, che io lo voglia o meno, anche quando non mi servirà. È qualcosa che mi è stata dato materialmente dai miei antenati, e sarà sempre dentro di me, anche se me ne volessi sbarazzare. Al contempo lo ritengo un dono incredibile, soprattutto quando ho bisogno di essere un po' meno pesante con me stessa. Quando ti senti così estranea, incapace di appartenere a qualcosa."

Insomma tutto quello di cui abbiamo ampiamente discusso non sono è costituito solo da "fatti nostri", ma vuole fungere da nuova lente tramite cui interpretare e contestualizzare la sua arte, sia essa in forma musicale, di storytelling, e recentemente anche di lezioni universitarie. Una lente ripulita da ogni retaggio postcoloniale, e per questo profondamente paradossale. Il tutto mentre aspetto di vederla suonare live per l'apertura dell'edizione di quest'anno di Club To Club.

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Eredità Aymara

"Secondo la prospettiva aymara, il pachacuti è un passato che reclama il futuro. Un passato che ha attività nel presente, ed è un tutt'uno con il futuro. Non ci sono gerarchie, e il tempo non è più lineare. È una prospettiva che vede il tempo e lo spazio come non-lineari, ma interanimati, mischiati, macchiati. Per gli aymara il passato è qualcosa che porta indietro e non avanti, perché non possiamo vedere il futuro. Qualcosa che ci portiamo dietro con noi e che ci guida, l'unico riferimento che abbiamo è il passato. Mi piace questa prospettiva perché è vicina a quello che credo accada veramente. Non vi è alcuna negazione, ma anzi è un processo che non vede la morte come effettiva morte, ma come qualcosa che ci compone e si rinnova con noi. Il pachacuti rappresenta un conflitto che è anche una sintesi. Pa e Cha sono due energie in contrasto che riguardano l'essere, ma ci sono tante interpretazioni che gli si sono date."

Elysia Crampton è nata negli Stati Uniti, trent'anni fa, da madre boliviana—di seconda generazione, cioè anche lei di fatto statunitense—e padre irlandese. "Ho vissuto a Pacajes, provincia fuori La Paz, e nel nord della Virginia, dove c'è una grande comunità di boliviani—la maggior parte di La Paz [ride]. Sono cresciuta tra il Messico e il sud della California. Abbiamo viaggiato molto con la mia famiglia; i miei genitori hanno così avuto modo di guadagnare e "salire di classe". Mio padre ha studiato in Messico, e a quei tempi neanche sapeva parlare lo spagnolo, parlava solo inglese. Glielo ha insegnato mia mamma. La mia famiglia in Bolivia invece parla solo aymara, la lingua nativa precolombiana del territorio corrispondente alla Bolivia. Io attualmente la sto studiando, ma non posso dire di conoscerla bene come lingua."

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 Dobbiamo renderci conto che proveniamo da un lungo percorso storico di esclusione e discriminazione. È su queste fondamenta che abbiamo fondato gli Stati Uniti d'America.

"A dire il vero," riprende Elysia, " inca e aymara sono categorie dispersive e inventate, che non rispecchiano niente di reale. Aymara era il nome degli ayllus che si trovavano in una determinata area geografica, che comprendeva molti tipi di persone, amazzoniche, andine, etc. Oggi è visto come un unico gruppo, ma in realtà è sempre stato un insieme di etnie con la stessa diversità dei nativi nordamericani."

Il linguaggio è uno strumento di emancipazione, ed Elysia non si limita a intenderlo come alfabetico o logocentrico. Lo estende anzi a musica, economia, arte visiva. "Mi riferisco alla nostra abilità di toccare, di mettere in gioco tutti i nostri sensi. La gerarchia imposta su questi linguaggi ci arriva direttamente dalla storia di questo Stato, che è una storia coloniale. Mi vengono in mente tutte le limitazioni che questa gerarchia ci ha imposto; che lo vogliamo ammettere o no, lo Stato esercita, e ha sempre esercitato su di noi una diretta oppressione. Dobbiamo renderci conto che proveniamo da un lungo percorso storico di esclusione e discriminazione. È su queste fondamenta che abbiamo fondato gli Stati Uniti d'America. La stessa musica ha questa storia: la concezione che abbiamo di certe sonorità, armonie e melodie, derivano anche loro dagli orizzonti del colonialismo. Un giorno mi sono accorta che tutto quello che usavo per cercare di superare quell'orizzonte, era già compromesso."

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"Un esempio calzante di compromesso boliviano è la nascita dell'hip-hop in aymara," va avanti Elysia. "Da dopo la rivendicazione della cultura Aymara ad opera di Evo Morales, in Bolivia sta fiorendo e avendo enorme successo questa nuova scena, non so bene perché. Probabilmente è una questione linguistica, le rime con l'aymara devono essere più facili da memorizzare per i ragazzi che vogliono riappropriarsi della propria cultura. Evo Morales ne è entusiasta, manco a dirlo… [Ride] In realtà è triste, anche se non sembra. È interessante come storicamente, adesso, gli Stati Uniti rispecchino in parte la Bolivia: il primo presidente nero corrisponde al primo presidente indigeno. In comune hanno le aspettative e l'impossibilità di fondo del cambiamento. L'apparato strutturale, infatti, è sempre lo stesso; abbiamo una Casa Bianca con un volto nero, e in Bolivia la nazione rimane militarizzata ma con un volto aymara. L'importante però è iniziare. Ad esempio, che Bartolina Sisa sia stata riconosciuta dallo Stato come figura di riferimento, è un grosso traguardo. Lo è anche il fatto che sia finalmente permesso parlare aymara nelle scuole. Mia nonna mi raccontava che un tempo addirittura venivano tolti i denti ai bambini che si ostinavano a parlarlo in pubblico. È così che sono cresciute molte generazioni."

Mia mamma, da piccola, ha subito un lavaggio del  cervello analogo, vedendosi obbligata a parlare spagnolo una volta trasferitasi in città, e dimenticandosi così per sempre del quechua. Alla nonna di Elysia, morta di recente di vecchiaia, è andata diversamente: "Era una donna molto religiosa. È nata nella provincia di Sur Yungas, nel dipartimento di La Paz, regione in cui si trova la comunità più numerosa di afroboliviani, con una lunga storia di schiavitù e sofferenza. Ho sempre avuto l'impressione che mia nonna avesse avuto una vita forzata, non quella che avrebbe voluto veramente. Mi chiedo, sarebbe stata così religiosa e devota, se non fosse stata costretta a vivere in questo sistema patriarcale e avesse avuto l'opportunità di essere se stessa? So quanto razzismo c'è nel mondo e so che non me ne dovrei neanche più stupire, ma a me è sembrato che persino sul letto di morte, mia nonna fosse ben lungi dal detenere un proprio senso di autonomia e di autodeterminazione. La cosa che mi uccide è pensare a come sarebbe potuta andare se fossimo stati in grado di riportarla in Bolivia. Tutta una serie di dinamiche coloniali ci hanno impedito di sviluppare un vero e proprio rapporto, fino a quando, con la malattia, tutti i principi che era stata educata a seguire sono svaniti dalla sua mente. Nell'ultimo periodo della sua vita era tornata a parlare aymara, e non gliel'avevo mai sentito fare in tutta la mia vita… pensa che metà della mia famiglia in California [da parte del padre, ndr], neanche sa cosa sia, l'aymara." Oggi tuttavia sembra essere cambiato qualcosa.

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"Nuovo Rinascimento" del mondo indigeno

"Negli Stati Uniti oggi c'è una sorta di Rinascimento del mondo indigeno, che è culminato con la vicenda della Pipeline. Quando il caso è scoppiato vivevo in Virginia, e ricordo che io e tutto il paese siamo andati a protestare in tribunale. Non è servito a nulla perché la legge è passata lo stesso, nessuno ha saputo proteggere la propria terra. In Virginia la sovranità individuale viene prima di tutto. Mi sono abituata in fretta a questo loro modo di fare; sono molto transfobici ma allo stesso tempo i diritti individuali sono garantiti e difesi. È stato molto più semplice cambiare nome e sesso là che qui in California. Tutte queste sono lotte simboliche, perché non siamo neanche lontanamente vicini alla reale autodeterminazione dei popoli, né alla fine dell'egemonia capitalista che dà origine alle differenze di classe. Eppure la lotta è un punto di partenza, che può aprire la strada per la preservazione delle culture, la solidarietà e la visiblità, pur portando con sé sofferenza. Tutto in nome della sopravvivenza."

Il mio viaggio in Perù, se non si fosse capito, è stato un ago della bilancia cruciale, in questo scambio di esperienze, e gran parte degli spunti di conversazione sono arrivati anche e soprattutto a viaggio terminato. Ad esempio, ho avuto modo di assistere di persona al Rinascimento del quechua come lingua viva, in Perù, non senza una piacevole dose di stupore. Anche in questo caso, la musica è sempre stata di fondamentale importanza, sia dalla parte dei coloni, che dei colonizzati. "Il nostro concetto di libertà e di 'essere noi stessi' è interamente filtrato attraverso lo Stato. È per questo che parlare quechua o aymara in passato è stato proibito; ogni riferimento a quei mondi e spazi portava luce il fatto che altre visioni della realtà—quelle indigene—esistevano. Rendersene conto porta allo smantellamento delle strutture su cui siamo abituati a vivere. Improvvisamente diventa tutto più insicuro, perché vengono messi in evidenza i gap tra queste realtà. Negli anni Settanta in Bolivia c'era tantissimo razzismo e sessismo, e la musica è stata la prima ad essere stigmatizzata dallo Stato. Era quella de Los Kjarkas, per capirci. Mi dimentico sempre che un sacco della musica che oggi è considerata nazionale boliviana, peruviana, cilena o di qualsiasi paese abbia una comunità Aymara, in realtà con gli Aymara ha poco a che vedere. È più musica legata alla tradizione dei _mestizos,_ [figli di incroci tra bianchi e indios, ndr] che negli anni Sessanta e Settanta è diventata emblema del suono nazionale boliviano."

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Tra le pioniere del suddetto Rinascimento, in un'epoca storica del tutto sfavorevole, c'è Luzmila Carpio, cantante Aymara nata sulle valli di Potosì, simbolo della lotta per la preservazione della cultura indigena boliviana. "Ah sì, la adoro!" esclama Elysia, quando gliela nomino. "Lei è un esempio perfetto di chi ha saputo raccogliere tutti gli elementi che venivano volutamente ignorati dalla comunità mestiza negli anni Settanta, e che oggi costituiscono il suono tradizionale boliviano per eccellenza. Ha saputo mantenere la sua forte personalità di donna indigena e persino nella musica che fa oggi, traspare uno stile inconfondibile, unico nel suo genere. Non sapevo che stesse ancora suonando e viaggiando! Il suo rapporto con la Francia [vi è stata ambasciatrice dal 2006 al 2010, ndr] è stato talmente intenso che ha aperto la strada pure ad altri, me compresa. Quando sono stata a Parigi a suonare, ho percepito subito tanto razzismo. Il posto dove ho suonato però, era tutta un'altra cosa, e non a caso era un centro fondato da lei."

L'opera di Luzmila è stata preziosissima perché ha distolto l'attenzione da ciò che cercava di essere venduto dallo Stato come "tradizionale" e "folklorico" per profitto di pochi—guardacaso, mai delle comunità native da cui però ne veniva estratto l'immaginario. È un problema attuale che non ho mancato di osservare anche in Perù, nell'estetizzazione e mercificazione di certe forme e stili di vita, ricreate e gettate in pasto ai turisti di passaggio. Da qui la necessità di approfondire il significato stesso del termine "folklore".

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Controversia del folklore "originario"

"In Bolivia ora lo Stato tende ad esibire il folklore e tutto ciò che è indigeno; dicono "Fate quello che volete con le vostre culture, ma statevene lì, in bella vista." Diventa un'attrazione turistica, ed entra a far parte dell'economia del capitale che di fatto crea differenziazione sociale. Alcuni verranno inclusi nella comunità india, altri no. Puoi essere indio, se vuoi, ma sappi che sarai obbligato a esserlo in un determinato modo prestabilito dalla società, perché conviene a tutti così. È difficile immaginarsi uno scenario diverso. Il folklore è visto come qualcosa di estremamente statico, poco incline ai cambiamenti… ha i paraocchi! [Ride]. Sarebbe bello riuscire a riscattare la categoria—del folklore—intera e aggiornarla, farla crescere con noi, tramite i linguaggi di cui parlavamo prima. Allora sì che dovremmo usarli per sopravvivere. Adesso ce ne stiamo avvalendo senza neanche riconoscerli, solo per rimanere vivi. È grazie a loro se ti sei potuta riavvicinare alla musica andina, e sei riuscita a trovarci finalmente un senso."

Come già raccontato in un'altra sede, in passato ho avuto non pochi problemi a relazionarmi e identificarmi con il folklore andino, e indubbiamente i lavori di Elysia Crampton hanno aiutato a risanare del tutto questa "ferita" da troppo tempo aperta. "Sono sicura che questo tuo rifiuto iniziale ha avuto a che fare con il modo in cui sei stata relazionata all'indigenità, in Italia. Quando guardavi il Perù cosa vedevi? Le cholitas? Tu da bambina non eri così! Anche questo fenomeno si origina dalla visione del mondo indigeno che la lente coloniale ha applicato al mondo intero. Decolonizzare significa osservare se stessi per ciò che si è, al di fuori degli standard imposti. Il problema di nascere 'divorziati' da una cultura che lo stato appella come indigena è il processo di ricongiungimento, quasi sempre frastagliato e compromesso da orizzonti irriducibili di colonialità."

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Gli inca e gli Aymara non si approcciavano allo spazio-tempo linearmente, ma ciclicamente. Per questo, forse, il folklore non cessa mai di essere apprezzato e conosciuto.

Tenendo presente che le realtà e identità folkloriche di cui parliamo sono anch'essi prodotti coloniali, "non esiste una condizione reale e oggettiva per quanto riguarda il folklore, perché tutto è già corrotto. Non solo è vittima dello Stato, ma funziona solo grazie ad esso. È questo a lasciare paralizzata la comunità indigena: si predilige l'utilizzo del termine 'originario', legato all'indigenità, ma lo stesso termine 'indigeno' denomina qualcosa di statico, destinato a starsene lì, confinato nella sua terra. Solo i 'cattivi indios' vanno via dalla loro terra a cercare fortuna in città, piegandosi alle regole del capitalismo, e sono 'indios venduti" quelli che cercano nuove forme per esprimere la propria arte."

Qualche tempo fa ricordo di aver fatto ascoltare "El sueño del forastero" a mia mamma, cercando in lei complicità nel concludere che è uno dei lavori di Elysia più toccanti, intimi e illuminanti di sempre, per l'inventiva nel fondere huaylas antichi, a cumbie, a pezzi tribal etc. Ci sono rimasta molto male quando mi ha liquidata dicendo che non le piaceva poi granché perché "troppo modernizzato."

"Neanche alla mia piace!" ride in risposta Elysia. "Dice che c'è troppo rumore, non ci è abituata. La capisco però, ci sono frequenze diverse che possiamo sopportare come generazione, a differenza loro. Sulla preservazione del folklore c'è molto da dire, è vero che fa arrabbiare tante persone. Lo stesso vale per la musica moderna, a molti non piace che vengano mischiati vecchio e nuovo. Prendi ad esempio—ce ne sarebbero milioni—il vestiario tipico Aymara. Il costume della cholita è stato inventato solo nel diciannovesimo secolo, se non nel ventesimo. È relativamente nuovo, ma ha comunque condizionato la nostra idea di storia. Così con l'idea di folklore "tradizionale" boliviano, o peruviano nel tuo caso. Rispetto molto l'opinione di tua mamma, però, perché manifesta la sua abilità, espressa con termini tutti suoi, di non apprezzare quella fusione di elementi. La cultura è fatta di sostenimento e creazione; nel momento in cui la gente afferma 'Noi siamo questo, e non siamo quest'altro. È così che andremo avanti,' sta attuando una forma di autodeterminazione."

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Più volte mi sono soffermata a riflettere sull'impossibilità di applicare questo genere di discorsi all'Italia, in cui, specie tra i giovani, non esiste alcuna coscienza/conoscenza folklorica, e soprattutto nessuno si pone il problema. "Forse è perché è un paese troppo ricco di storia. Non l'avrei mai detto, ma è l'unica spiegazione. Se in Perù o in Bolivia è molto più vissuto questo aspetto, magari è per via del rapporto con il proprio passato, e con i retaggi della percezione del tempo tramandataci dai nostri antenati. C'è questo, credo, in fondo al sentimento di cui stiamo parlando. Per gli 'occidentali'—anche se occidente è un concetto relativo—il tempo e lo spazio sono concetti lineari, quindi il passato è passato, e deve rimanere tale. Gli inca e gli Aymara non si approcciavano allo spazio-tempo linearmente, ma ciclicamente, e ciò apriva le porte a un passato interanimato, che esiste anche nel presente e che interagisce con noi. Per questo, forse, il folklore non cessa mai di essere apprezzato e conosciuto." In pochi secondi realizzo che nessun etnomusicologo era riuscito a fare così tanta chiarezza sulla questione, fino ad ora.

Altro caso su cui ci siamo digredite a lungo è quello della saya e caporal, danza e genere musicale boliviani, che Elysia ha saputo ricodificare nei suoi brani con un'abilità ancora—a mio avviso—imbattuta.

"Saya negra", storia della saya boliviana

Mesi fa, in un'intervista radiofonica, ho appreso dalla stessa Crampton che un'influenza fondamentale per la sua musica è stata DJ Arkanto, misterioso dj argentino che assieme a DJ Proyo ha riempito Youtube di spettacolari mix di sayas e caporales riadattati in chiave "moderna". Non ci vuole molto, una volta che se ne ascolta uno, a capire quali sono i punti di contatto con lo stile (anche grafico) di Elysia.

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È un genere che fin da bambina mi ha sempre affascinato, e che, anche se non lo avrei mai ammesso, in fondo un po' mi piaceva. "Mi piace che hai nominato la saya," riprende Elysia, "perché porta con sé tante storie: una trans, una nera, e una indigena. I caporales sono festività associate alla schiavitù nera, in Bolivia, ma il ritmo è molto più antico, ha a che fare con la schiavitù indigena. Queste festività sono precoloniali, antecedenti all'orizzonte del colonialismo; si sono mantenute nel tempo, ed è interessante vedere come sono cambiate con l'arrivo del cattolicesimo e delle nuove correnti di pensiero europee. Nonostante tutto, sono sopravvissute."

Oggi è sopravvissuta la componente indigena, nel senso che stilisticamente, i caporales normalizzati come "autentici" boliviani sono quelli che abbracciano la versione indigena di musica e ballo. Tuttavia vent'anni fa la comunità nera boliviana ha reclamato i propri diritti sulla danza e ne ha modificato i ritmi di fondo. "Oggi quindi esiste una saya afroboliviana dai connotati negroidi ben precisi, e una saya più famosa, ballata dai ballerini e ballerine con costumi caratteristici, vedi quello della China Morena."

Carnaval de Oruro

"È qui che subentra la storia trans, anche in questo caso precoloniale. Questo secondo tipo di saya nasce a partire dalle llameradas—balli tradizionali boliviani—ballate con polleras—gonne—più corte del solito. Solitamente si usavano polleras molto lunghe, ma negli anni Sessanta alcuni travestiti hanno deciso di accorciarle, e di accompagnarle con stivali molto alti e colorati. Fino al 1975, quando a causa della dittatura, ai travestiti non venne più permesso di ballare nelle festività nazionali. Il costume da loro inventato è stato riutilizzato da ballerini e ballerine etero, diventando negli anni quello che oggi vediamo sfilare nei carnavales—sfilate carnevalesche—nazionali. La figura della China Morena è stata cruciale, così come alcuni canti e llameradas dalla storia secolare, come la Waka Waka, o ballo della mucca."

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Ballo

"In genere ballo queste danze quando sono felice. Quando vivevo a Pacajes la mia famiglia mi faceva ballare un sacco durante le festività. Con gli anni sto diventando sempre più un tronco di legno… [Ride] Mi fai tornare in mente che anche il ballo è un linguaggio a tutti gli effetti. È una forma di comunicare, che ad esempio adottava la comunità queer e di travestiti quando interpretavano gli dei Choquichinchay [animale protettore degli ermafroditi, ndr] e Otorongo [divinità felina della selva, analoga al puma, ndr] di fronte agli spagnoli. Non sapevano né leggere né scrivere chiaramente, ma si esprimevano con le danze. L'essere assumeva un significato solo con lo stare, il muoversi. Per la nostra cultura moderna dell'intrattenimento, il ballo è solo un ennesimo mezzo di diversione, a cui quasi sempre vengono amputate le radici culturali. Questo perché che non vengano mai assimilate come tali, né come linguaggio."

Il linguaggio della danza è talmente sfaccettato che sarebbe ingiusto soffermarsi solo su quello "folklorico". Nello stesso clubbing, figlio a suo modo della cultura dell'intrattenimento, assume varie connotazioni, più delle quali sono intimamente connesse con quello stesso senso di comunione e comunicazione appena espresso da Elysia. "Il trucco è essere più a proprio agio possibile con se stessi. Tutti dobbiamo imparare e correre rischi, compreso quello dell'appropriazione culturale. Ogni richiamo alla solidarietà tra popoli, potrebbe potenzialmente essere visto come appropriazione. Come dice Hortense Spillers: 'Non c'è garanzia per l'intimità, o per la salvezza.' L'appropriazione è qualcosa di reale, e così l'oppressione strutturale. Allo stesso tempo però molti dei miei concetti su questi limiti e sulla regola della rispettabilità interiorizzata, devono essere allentati, perché corrono il rischio di diventare essi stessi dei limiti."

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Paradossi e conflitti premeditati 

I paradossi e i controsensi, come vediamo, nel linguaggio e costrutto decoloniale, sono all'ordine del giorno, e secondo Elysia è proprio così che lo Stato—inteso come potere capitalista—ha voluto che fosse. "Si è creato un ideale di natività sempre riferito a qualcosa di esterno. Sarebbe bello se i popoli in questione reclamassero e capissero che la loro cultura è sempre stata volutamente messa in conflitto con ciò che sono. Sempre da una prospettiva Aymara, l'idea di cholas, o di qualsiasi figura di donna indigena, con la pollera e tutti i vestiti tipici, è compromessa dal fatto che i prodotti con cui sono stati confezionati quei vestiti, spesso e volentieri sono italiani. Non sono neanche locali. Questo dimostra quanto l'ideale di 'indigeno' è in realtà un'aggregazione di tante cose, e in sé è parte della sofferenza cui in tanti devono far fronte. È come essere forzati ad andarsene via di casa nudi, e nell'uscire afferrare quante più cose per coprirsi alla meno peggio."

La consapevolezza che la struttura rimane immobile, mentre i volti in superficie cambiano per convenienza politica, rende tutto più frustrante, ma c'è un'ulteriore forma di ipocrisia endemica, che si insinua subdolamente in questa narrativa come indicatore di certezza scientifica: la genetica. "Il cosiddetto 'blood quantum', ovvero la percentuale di sangue più o meno 'puro', è IL linguaggio dello Stato per eccellenza, un tempo utilizzato per determinare chi era indio e chi no. Guardare il passato delle persone è uno strumento della modernità che sceglie di osservarlo dalla prospettiva più stupida, cioè quella nostalgica. Tutta questa ontologia al di fuori della razza che porta sempre al DNA, proviene da una storia di razzismo, colonialismo, da cui peraltro viene limitato. Lo si capisce anche dalla smania di conoscere i propri antenati attraverso test genetici. È un processo per definizione molto preciso, a cui oggi ricorrono molte persone di discendenza africana o indigena, come ultima conseguenza del genocidio subito, della mancanza di dati certi sul loro passato, nonché della voglia di riscatto dopo secoli di dignità negata. Il problema è che i risultati vanno presi con le pinze, nonostante tutto, perché parte di quell'orizzonte che andrà a plasmare ciò che saremo materialmente per i prossimi secoli."

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LGBTQ, popolazione indigena e disabile uniti nella lotta di classe

"Quando ero piccolo volevo solo essere normale, non desideravo altro. Non tutti sono così ossessionati dalla normalità, ma io lo ero, e mi dicevo ogni volta 'Dio mi ha fatto così,' e cercavo di trovare un significato alla mia condizione. Questo processo mi ha portato a capire che in fondo sono davvero normale, a partire dalla queerness, che proviene dalla storia della mia famiglia. Non arriva dal nulla. Non è solo parte del progetto neoliberale di vita dei miei, il mio essere queer nasce da queste basi ma va oltre. Non sono un'aliena nato per sbaglio, sono parte della mia famiglia. Comprenderlo mi ha permesso di riconnettermi ad essa, e trovare uno spazio mio, lontano dalla violenza e dalla separazione che vivevo prima. È per questo che voglio sempre parlarne, perché mi rendo conto quanta forza abbia un processo del genere. Mi chiedo quante altre persone come me vivano separati dalle loro famiglie, e abbiano permesso a questa violenza di Stato di separarli dai loro cari. È dura, e lo sarà per molto, ma abbiamo bisogno l'uno dell'altro. Le persone come noi, con più nazionalità e/o razze e/o sessi, devono stare unite e trovare la serenità nel far coesistere tutte queste nature senza gerarchie." 

La violenza è ormai un linguaggio di Stato, ed è preoccupante rendersi conto di come ne siamo così assuefatti da neanche stupircene più. "Il territorio boliviano trasuda violenza. Prendi ad esempio le persone disabili, e le loro lotte per l'affermazione piccoli stati e per il diritto a fondi statali minimi. Sono ancora lì, nella piazza principale di La Paz a parlare con i poliziotti in borghese delle loro iniziative. Questo succede a persone con disabilità provenienti da province fuori La Paz, arrivano in città e cercano di ottenere riconoscimenti e aiuti dallo Stato, spesso inutilmente." In questa presunta veste decoloniale, tuttavia, Morales ha fatto molto per i diritti trans e queer, perché storicamente è sempre esistito un forte legame tra la comunità LGBTQ e quella indigena. Non si può parlare di indigenità senza includere la storia queer."

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Storicamente è sempre esistito un forte legame tra la comunità LGBTQ e quella indigena. Non si può parlare di indigenità senza includere la storia queer.

Sono realtà che si sono costruite un loro spazio e negli ultimi tre anni i progressi in questo senso sono stati consistenti, accompagnati dalla nascita di nuove limitazioni. "Negli Stati Uniti è aumentata la visibilità trans: cambia la narrativa e iniziamo a vedere noi stessi in maniera meno patologica, la nostra condizione cessa di essere un problema medico. Da una parte è un bene, ma dall'altra è negativo, perché ci allontana dalla lotta dei nostri compagni disabili. La liberazione trans è strettamente legata alla lotta di classe, ed è questo che mi piace delle mie ragazze in Bolivia. Non cadono nella trappola politica dell'identità. Centrano la questione dei diritti trans sul piano della lotta di classe e del razzismo, le due conversazioni vanno di pari passo."

Negli Stati Uniti, come nel resto del mondo, a causa del coinvolgimento strategico-politico, questi argomenti sono ormai molto distanti l'uno dall'altro. Sono quasi sempre i movimenti a scala locale a occuparsene appropriatamente, vedi il Sylvia Rivera Law Project a New York, a ricordarci che non si può avere una liberazione trans senza parlare di razza o di lotta di classe. È gratificante vedere questi argomenti convergere, e non essere affrontati separatamente, perché si arriva a una solidarietà collettiva; nessuno dovrebbe pensare che certe cose riguardino solo i trans. No, sono conversazioni che riguardano la disabilità, la razza, la classe… Tutte le differenze nei linguaggi di cui parlavamo prima, nei quali si ha la fortuna di essere nati, ci parlano della realtà stessa. Non sono i linguaggi da soli a parlarci, ma le loro differenze."

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Autodeterminazione come presa di coscienza dei paradossi.

"È ragionare per sistemi binari, che è problematico; la nostra cultura "moderna", postcoloniale, si fonda su questa binarità. Ancora abbiamo una Casa Bianca, ancora siamo una terra occupata… ho studiato molto a riguardo. Un aspetto molto importante del pensiero anticoloniale non è solo il tentare di decolonizzare i linguaggi, ma riconoscere il paradosso dietro a molte posizioni che possiamo assumere. Ci troviamo e ci troveremo sempre immersi nell'eredità coloniale da cui è e sarà impossibile detrarsi; ciò vuol dire che parte della nostra resistenza non deve neanche essere ricercata, perché è già lì. Non può essere ridotta alla logica coloniale. Credo che questo pensiero sia meraviglioso, e cerco sempre di farvi riferimento."

Una cosa che ho notato mentre ero in Perù, e che confrontata con quanto discusso fino ad ora aveva perfettamente senso, era il costante altalenare tra il sentirmi "a casa", e l'essere turista. Sul momento mi lasciava spiazzata, perché non avrei mai voluto sentirmi così estranea in casa di mia nonna, in mezzo ai miei zii che mi riempivano di cibo e amore a ogni passo che facevo. Mi sono trovata spesso a chiedermi quale fosse la vera natura di questo senso di appartenenza non-appartenenza, da cui normalmente mi sento arricchita. "Capisco la sensazione. Per la prima volta nella vita possiedo una casa in Bolivia, grazie a mio nonno, e proprio l'altro giorno mi sono ritrovata a fare riflessioni simili. La mia condizione queer negli Stati Uniti non è mai stata attualizzata, come ora in Bolivia. Io, persona di discendenza queer e indigena, possiedo oggi un terreno nella provincia di Pacajes, dipartimento di La Paz. È inevitabile soffermarsi a riflettere su chi siano le persone con cui riallacciamo i rapporti. Come nel tuo caso, ho ripensato anch'io a quanto deve essere stato radicale per la mia famiglia, scegliere di lasciarsi alle spalle la propria vita in Bolivia, e cominciarne una nuova qui negli Stati Uniti."

"Molti dei miei parenti che vivono qui pensano di avere origini spagnole, perché viene insegnato loro così fin da piccoli. Non sanno che la loro eredità culturale è quella indigena, nativa americana. Hanno pochi contatti con la restante famiglia boliviana, anche perché crescono con un'educazione cristiana, e non vengono introdotti a niente di folklorico o ritualistico. C'è una specie di regola non detta, governata dallo Stato in cui viviamo, su cui non abbiamo voce in capitolo, e che stabilisce il tipo di interazione tra i membri della mia famiglia, anche da un punto di vista razziale. È difficile anche parlarne, perché il razzismo è qualcosa di reale, e ovunque nel mondo più scura è la tua pelle, più ti avvicini alla condizione di animale. Inutile girarci intorno, è così sempre, ed è così anche all'interno delle famiglie. Nessuno verrà mai a chiedermi della mia famiglia irlandese, quando sono in strada, a nessuno frega niente di quella mia eredità culturale, perché sono scura di pelle. Il privilegio dell'essere bianchi non mi appartiene per questo esatto motivo, anche se mio padre lo è. Posso andare in giro e portarmi dietro il privilegio di mio padre, che alla fine ho, è vero, se sono con lui forse mi viene riconosciuto. Nel momento in cui sono da sola, però, torno ad essere un corpo marrone, queer, tatuato, e di discendenza ispanica. Il mondo ti giudica a partire da questa associazione. È strano stare a metà tra due culture ed eredità, sei costantemente vittima di questo divorzio."

Silvia Rivera Cusicanqui e il ch'ixi

Non è automatico sentirsi strattonati via dalle proprie culture/nature, però. Ci si può benissimo appollaiare su di esse, e sentirsi irrorare di vita da entrambe—o quante possono essere—senza il bisogno di farne prevalere una. "Questo discorso mi fa venire in mente le opere di Silvia Rivera Cusicanqui, sociologa e studiosa della cosmologia Aymara e Quechua, nata a La Paz, che qualche settimana fa ho avuto il piacere di conoscere di persona. C'è sempre la tendenza a scegliere una delle minoranze in cui la società ci permette di identificarci; io ad esempio sono mulatta, pelle marrone, e la società si aspetta che 'funzioni' come persona se prediligo la mia parte indigena, nativa, non quella bianca. A volte penso che queste due mie nature andrebbero sintetizzate, e subito dopo mi chiedo se non sia anche questa una trappola. Silvia Rivera sostiene che lo è, e non si possano davvero sintetizzare; il paradosso deve essere accettato così com'è, e usato più come punto di partenza, che di rottura. È per questo che amo la mia famiglia aymara, perché mi ha donato il linguaggio per poterne parlare e per comprendere appieno questa contraddizione. Rivera lo chiama ch'ixi, o cheje, diverso dal mestizaje—cui lei  anche se lo ricorda. Si tratta di un nuovo tipo di coscienza: invece di onorare l'essere bianco e sopravvalutarlo, mettendo in secondo piano il lato nativo, nel cheje si cerca di far coesistere entrambe le nature, in una condizione manchada, 'macchiata' l'uno dell'altro. Il bianco è macchiato di indio, e l'indio è macchiato di bianco. È in quella macchia che si concentra il potere della condizione indigena.

Suono come esplorazione della storia e del mito

Le radio peruviane sono uno dei ricordi più gloriosi che ho del viaggio. Hanno una programmazione che qui in Europa/Italia non passerebbe per l'anticamera del cervello a nessuna emittente, perché essenzialmente composta da: reggaeton, cumbias, huaynos e varianti del tema, con l'aggiunta dei vocioni degli speaker volutamente caricaturizzati, del tutto introvabili altrove. Traspare insomma una sorta di—perdonate la generalizzazione—"latinidad" che, per l'appunto, ricorre anche nella musica di Elysia. Ci dilunghiamo quindi a parlare delle nuove ondate di musica neo-andina, nuovamente di come i nostri genitori non siano assolutamente in grado di apprezzarla, ma purtroppo mi dimentico di chiederle bene di DJ Arkanto. Imperdonabile.

"Sai che le radio boliviane hanno avuto un'importanza cruciale nella liberazione delle comunità indigene degli altipiani andini?" chiede Elysia in proposito. "A dire il vero, quando ho utilizzato quegli elementi sonori nelle mie tracce, non ho mai voluto rappresentare niente di latino o indigeno, ma li ho interpretati come risposta a quel suono. Un richiamo che potesse ricondurci alla dimensione storica collegata a quei suoni. Quelle prime volte prevaleva il senso la necessità mia di esprimerlo in quei termini, e solo dopo scoprire come quei suoni si rapportavano con le storie che conoscevo già, condizionate dal mio vivere qui negli Stati Uniti"

Le storie di cui parla riguardano anche la mitologia e cosmogonia andina. "Per me è fantastico questo processo di esplorazione della storia tramite i suoni. Sono successe cose meravigliose in passato che neanche conosco, ma entrarci in contatto così è meraviglioso. Avevo creato un suono che ricordava molto quello dello sciacquone del bagno, e aveva incorporato anche un urlo. Non so perché ho scelto proprio questa texture, e un giorno, ascoltando bene, dentro ci ho udito la rappresentazione del dio Otorongo, l'essere tigrino che converte la pioggia in grandine e la sputa dal cielo sulla terra. Era come se avessi sempre avuto questo conoscimento dentro di me, non so come spiegare. Non posso affiancare questa immagine alla mia idea di Dio, perché la mia idea di Dio è diversa, ha a che fare con ciò che è colonizzato. Eppure sono galvanizzata da come il suono riesca a riconnettersi alle storie della tradizione orale, che non avrebbero altro modo di essere trasmesse. C'è una canzone che ho scritto per mia nonna, su cui stavo lavorando in questi giorni. Continua a figurarmi in testa questa fontana di sangue che si muove vorticosamente, tipo tornado, ed è piena di elettricità. Ho deciso di inserirla nella canzone, così ho messo alcuni effetti di acqua ed elettricità… Questa immagine ha continuato a vorticarmi in testa, e credo che, di fatto, sia il mio elogio funebre per lei. L'ho scritta quando era ancora viva, perché volevo la leggesse, e adesso sto ancora valutando se è il caso o meno di renderla ufficiale."

Nella musica di Elysia Crampton c'è sempre un susseguirsi di una strana materia fatta di immagini e suoni, che la trasformano in un'esperienza multidimensionale, pensata per essere fruita contemporaneamente da più sfere sensoriali. In qualche modo, anche prima di averci parlato così a lungo, mi si figuravano davanti tutta una serie di immagini e ricordi, legati al rapporto con le mie origini, che per tutta la vita avevo accuratamente evitato di definire. Era come avere, di colpo, la risposta a una domanda che per pigrizia non mi ero mai posta. "Ora che sei tornata in Perù sei cambiata. Adesso ti trovi in un processo di ricostruzione del tuo corpo, in qualcosa di più grande. Ha a che fare con la geografia e con la connessione con un senso più profondo dell'essere, che probabilmente ancora non esiste ma tu già lo percepisci in te." Tutto vero.

Elysia Crampton suonerà a Torino, alla regga di Venaria, mercoledì 2 novembre 2016 per Club To Club #IAMC2C. Non perdertela.

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