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Musica

La tecnologia sta davvero uccidendo la musica?

Una tavola rotonda sul futuro dell'industria

Ogni due o tre anni salta su qualcuno a dire che la musica è morta; se non si tratta della rivoluzione di Napster, allora è perché siamo in preda all’emergenza Spotify. Qualunque sia il problema di solito la colpa è attribuibile alla tecnologia, in costante mutamento e pronta a lasciarsi alle spalle tutto ciò che sia obsoleto (qualcuno si ricorda dei Walkman?)

Per capire un po’ di più del futuro dell’industria discografica sono andato alla sede di Virgin, dove stavano ospitando un dibattito sul futuro della musica come parte della serie Music Disruptors.

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È stato messo insieme un cast di addetti al lavori e musicisti che si sono trovati in prima linea durante il boom tecnologico, inclusi: will.i.am, Scooter Braun, Amanda Palmer, Imogen Heap, Zoe Keating, Nick Jones (VEVO) e Trevor Mcfedries (Spotify.)

Tutti i membri di questo gruppo erano connessi tramite Google Hangout; questo ha causato qualche problema iniziale per il normale svolgersi della conversazione (dopotutto la tecnologia non è ancora perfetta.)

Imogen ha cominciato illustrando i sentimenti di ogni artista che abbia dovuto fare una transizione dal vecchio modo di fare le cose dicendo “prima era più facile fare musica, ora è tutto molto complesso.” Will.i.am ha replicato che “ora è un ottimo momento per fare musica, gli artisti hanno il potenziale di attirare un sacco di sguardi.” Non è estraneo all’impatto della tecnologia, è anche il direttore dell’innovazione creativa di Intel. Il passaggio radicale nell’industria musicale è stato un sisma, e ha portato un bel po’ di gente a rivedere i propri orizzonti, aspettandosi un livello di successo più realistico.

I social media stanno uccidendo la musica?

Mentre la maggior parte dei musicisti passa il suo tempo a girare Vine con la propria ragazza (Cam’Ron) o ad aggiornarci sullo stato delle feci del proprio cane, viene da chiedersi se i social network non stiano allontanando gli artisti dai loro naturali impulsi creativi. Amanda Palmer ci ha detto che “le canzoni erano il mio modo primario di comunicare con le persone, ora invece posso raggiungere un milione di persone senza nemmeno una nota.” Alla fine ha ammesso le ripercussioni affermando “Tendo a passare molto tempo con i vari strumenti di comunicazione, lasciando meno tempo per la composizione artistica, è una dipendenza come il crack.” Però ha anche portato alla luce una riflessione interessante, cioè che “ci sono artisti che vogliono soltanto fare musica, che cosa ne sarà di loro? Rischiamo di perdere una generazione di artisti per via del modo in cui hanno scelto di comunicare?” Ormai la norma per i musicisti è essere onnipresenti, questo può portare a situazioni demenziali. È la cosa peggiore per gente che ha già un’etica del lavoro discutibile e passa ore mettendosi in posa e aggiustandosi i capelli anziché in studio.

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Etichette discografiche vs. Google, Spotify e Apple

Con il vecchio sistema delle etichette c’erano budget promozionali che potevano competere con il PIL di qualche piccolo stato, ora invece la maggior parte delle band deve cavarsela da sola. Amanda punta il dito contro i giganti della tecnologia che hanno preso il controllo dell’industria discografica “Google, Spotify e Apple non reimmettono i guadagni che fanno nel mercato,” con un fatturato netto di 824 miliardi, qualcuno potrebbe pensare che le tre compagnie potrebbero aiutare, chi più chi meno, con la promozione degli artisti, e quale uso si potrebbe fare coi dati ottenuti dall’analisi degli utenti. Zoe ha aggiunto che “è meglio per le società essere trasparenti su informazioni di questo tipo, sarebbe grandioso sapere da dove vengono i miei ascoltatori.” Con l’unione delle risorse di questi tre giganti, l’industria discografica potrebbe rivoluzionarsi nel giro di una notte, creando un nuovo sistema di supporto che punto a direzionare gli ascoltatori nella giusta direzione, in base ai loro gusti e artisti preferiti. In più, Google potrebbe mettere fine alla pirateria in un’ora se decidesse di dare la priorità nei risultati ai link per scaricare musica a pagamento, se solo volesse. Ma dal momento che non c’è un vero incentivo per farlo, bisognerà aspettare un po’ di tempo prima che le più potenti società del mondo si convincano che l’industria musicale merita il loro impegno.

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L’emergenza tecnologica

Cosa dire delil calo delle vendite dei dischi in classifica (il numero uno questa settimana ha venduto soltanto 54,000 copie)? Ogni artista pop sta cercando una via di fuga nella sempre più crescente bolla tecnologica, uno dei pionieri di questo atteggiamento, Will.i.am, ha riferito una notizia agrodolce “ho fatto più soldi collaborando con Beats di quanti non ne abbia fatti raggiungendo la cima delle classifiche di vendita su iTunes (“I Gotta Feeling – 8,3 milioni di download.) Potete chiamarmi scienziato perché collaboro con scienziati pazzi, non con gli haters.” Will.i.am è riuscito a ripiegare sulla tecnologia ma così facendo in realtà sta danneggiando la musica? Scooter pragmaticamente suggerisce che la gente ha bisogno di fare i conti con il cambiamento “che sta togliendo il lavoro a persone che hanno lavorato nel mondo della musica per trent’anni, ma che non l’hanno fatto nella maniera giusta negli ultimi dieci.”

La questione Vevo

Vevo rappresenta come si deve tutto lo spettro della musica—in qualche maniera—significativa o è solo un altro canale per giganti da classifica? Nic Jones, vice presidente di Vevo, non nota un vero cambiamento nella cultura: “le persone hanno sempre gravitato attorno ad artisti pop come Bieber, è sempre stato così.” Will.i.am è convinto che la maggior parte dei musicisti non riesca a realizzare che Vevo è il miglior indicatore di successo “che cosa è più importante, 500 milioni di visualizzazioni o il numero uno sulle classifiche di iTunes? Nessuno ragiona su questa differenza.” Il primo posto di Will conta ancora qualcosa in un’epoca digitale in cui lo streaming della musica è onnipresente?

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Will è ancora convinto che Vevo possa cambiare e, mostrando straordinario acume, ha utilizzato una brillante metafora: “sono stato sul set di CSI, gli attori non pagano la produzione per stare lì. Perché dovrei pagare Vevo per hostare un mio video dopo che ho già speso i soldi per farlo? Quando inizieranno a pagarci? O almeno a lasciarci scegliere gli annunci pubblicitari.” Forse gli artisti dovrebbero avere voce in capitolo quando qualcuno li trasforma in un prodotto di marketing, se tutti i proventi degli annunci pubblicitari vanno direttamente a Vevo, chi è che porta davvero i pantaloni in questa relazione? Anche se alla fine Vevo è una forma di business e necessita di soldi per coprire tutti i suoi costi, i proventi delle pubblicità sono la vera spina dorsale dell’industria creativa.

Nic commenta così: “la realtà è che i soldi degli annunci sono il solo modo di guadagnare.” I musicisti possono lamentarsi dei compensi miseri che ricevono da Spotify o dalle visualizzazioni YouTube, ma provate a pensare se le società dovessero pagare il costo di ogni singola riproduzione: finirebbero in bancarotta nel giro di poche ore. Non c’è ancora un’infrastruttura adeguata tra società e artisti, è ancora impossibile soddisfare entrambe le parti.

Scooter ricorda il lancio di Vevo: “Stavo curando tre dei più grandi artisti di quel momento (Justin Bieber, Psy e Carly Rae Jepsen) e non ci siamo mai consultati prima dell’evento per parlare delle interazioni con Vevo, voglio soltanto che inizi un dialogo tra gli artisti e le industrie tecnologiche.”

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Dopo la chiacchierata ho concluso parlando con Sam Branson, il figlio di Richard, che è convinto di come “la gente dia per scontate le connessioni che possiamo stabilire attraverso il mondo, in modo istantaneo, grazie alla musica.” Poi mi ha detto che dopo una promessa di matrimonio va trovato un equilibrio: “le persone possono insultare il vecchio modo di fare le cose, ma poter comunicare online è un’opportunità eccitante, con una fan base che si costruisce in modo organico.”

Jamal Edwards mi ha lasciato con qualche parola di avvertimento, “Bisogna dare agli artisti più potere e parlargli più spesso,” la tecnologia potrebbe essere solo di passaggio ma quello che è davvero importante è il modo in cui la si utilizza per far arrivare il messaggio.