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Musica

Squarepusher è bravo, per questo fa dischi di merda

Sull'ultimo "Music For Robots", dove Tom Jenkinson ha insegnato a una banda di automi a fare i Dream Theater

Leviamoci immediatamente il dente avvelenato e mettiamo subito le cose in chiaro: il nuovo disco di Squarepusher, Music For Robots è brutto. Ma brutto in una maniera imbarazzante e stucchevole, oserei dire, e ascoltandolo per la prima volta ieri ho twittato di getto che era la peggio monnezza mai ascoltata. Per quanto affermazioni categoriche di questo tipo siano utili solo come input alla peggio chiacchiera internettiana (sport di cui sono cintura nera), sono assai convinto del fondo di verità contenuto in quell’affermazione. Sono convinto anche di avere delle obiezioni nei confronti della musica contenuta in quel disco che non sono solo estiche ma pure, in qualche modo, etiche—il che, vedremo, si può pure estendere a gran parte del lavoro precedente di Squarepusher.

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La difficoltà maggiore sta nel non limitarsi ad un approccio troppo semplicistico, tipo appunto, chiuderla con un tweet che liquida il disco come una cacata pazzesca (senza togliere al fatto che il disco è INDISCUTIBILMENTE una cacata pazzesca), questo perché i presupposti da cui parte l’album sono ridicoli, a dire poco. Praticamente il producer dell’Essex si è alleato con un’azienda giapponese che ha assemblato dei Robot capaci di suonare, degli automi ibridi tra strumenti musicali e creature cibernetiche, assemblati in maniera tale da formare una vera e propria band di musicisti. In un’epoca, quindi, in cui ci si è oramai abituati a strumenti musicali che non hanno corde, legno, pelli o ance, e spesso manco tasti né manopole, si tenta una improbabile innovazione tecnologica in musica coinvolgendo tutto tranne che il suono. Però i sono i led che si accendono a intermittenza, un botto di cavi, cromature e video promozionali con un sacco di close-up. Insomma, non ci vogliono troppe disamine critiche per capire che l’operazione è delle più becere, d’altro canto anche la più becera delle trappole per gonzi ha una sua complessità. Tutti i fenomeni culturali ce l’hanno.

Prendiamola alla larga: Tom Jenkinson è un tamarro, però per sua disgrazia è anche dotato di un talento musicale che lascia a bocca aperta. È una delle combinazioni peggiori a cui mi riesca di pensare in ambito artistico, molto peggio di una eventuale combinazione di incapacità e non-originalità, che sarebbe invece semplicissima da scartare e dimenticabile in tempo zero. Cosa si intende per tamarro? In questo caso solamente l’ansia “verticale” di dovere dimostrare qualcosa, di fare a chi ce l’ha più lungo con gli amici producer, e se me ne fregasse qualcosa i di Freud troverei interessante la simbologia fallica nella sua fissa per gli strumenti a corda col manico lungo sopra beat elettronici (tipo “guarda come ti penetro sta drum machine col basso, tié”), nonché per quella specie di cappella che si era messo in testa durante l’ultimo tour, cercando di riciclarsi sul carrozzone EDM come una specie di Deadmau5 per trentenni. Il problema sta tutto nel concetto di “bravura tecnica”, che con la musica elettronica ha da sempre avuto un rapporto molto controverso.

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Almeno da quando i sintetizzatori hanno smesso di essere esclusivo appannaggio dei rocker più barocchi, la questione tecnica nell’elettronica si riferisce soprattutto alla competenza sul dato tencologico, alla preparazione teorica e pratica in fatto di sintesi e produzione in studio. A differenza con la musica “suonata”, nella quale si limita a definire il livello di precisione spontanea raggiunto nelle capacità esecutive da uno strumentista. Suonare velocissimo roba complicatissima e suonarla bene. Entrambe sono da sempre attaccate dai più semplici neo-romanticismi RUOCK, con l’accusa di impalcare architetture completamente fredde e sterili sopra le emozioni che la musica dovrebbe contenere. Vale per la tecnica strumentistica, figuriamoci per quella elettronica, che a sua volta ha per anni (succede, sigh, ancora adesso) subito gli attacchi anche dei grandi virtuosi, a loro volta incastrati in un’idea romantica secondo cui ci sarebbe una differenza tra la musica fatta da musicisti e quella fatta da “ingegneri”. C’è poi un ennesimo rovescio della medaglia, vale a dire lo snobismo che i più competenti in fatto di elettronica riservano per le produzioni “sbagliate”.

Squarepusher si inserisce in questo discorso facendo una specie di sintesi degli aspetti peggiori di queste varie spocchie. La scena e la generazione dia cui Tom viene, quella della IDM, della warp e dei primi esperimenti con quello che verrà poi chiamato glitch, sono famose per essersi impegnate ad estendere i confini della musica dance elettronica attraverso una ricerca anzitutto ritmica, poi sulle possibilità dinamiche di interazione tra le diverse tipologie di suono fino allo codificare anche una grammatica dell’errore causato in macchine e software spinti oltre le loro capacità regolari. Tom in particolare ha sempre colorato la sua musica di una fortissima impronta jazz e fusion, cercando in vari modi di farla convivere con una passione per i ritmi spezzati e incasinati ereditata dalla jungle. Bassista e chitarrista provetto, non ha praticamente mai mancato occasione di infilare qualche elemento organico, appunto “suonato”: del fraseggio tecnicamente complesso, eseguito da lui in tempo reale accanto a parti sequenziate. Il punto è, però, che il nostro è sempre sembrato più interessato allo “sfoggio” spettacolare.

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Non che alcuni suoi coetanei e colleghi non siano poi a una certa scivolati in seghette autorferenziali: Aphex Twin, ad esempio, ha detto ciao alla musica dopo avere pubblicato quella palla di Druqks, e gli Autechre la menano con ritmi sempre più spezzettati e oramai un po' sterili da quasi quindici anni. Di fatto, però, prima di perdere la bussola si erano impegnati a sperimentare più in preda a un interesse creativo genuino che per fare vedere quanto erano bravi. Il virtuosismo tecnico, sia elettronico che organico, ha invece avuto un peso specifico piuttosto grosso nei dischi di Squarepusher, e non è un caso che i suoi dischi migliori siano quelli che sembrano fatti nei ritagli di tempo per puro divertissement, come il progetto Chaos A.D. o l’EP Vic Acid, e abbastanza distanti dai suoi suoni usuali (addirittura Chaos A.D. lo si potrebbe scambiare più per l’ennesimo pseudonimo di Richard D. James che roba sua). Della sua produzione ufficiale, salverei soprattutto la tripletta di LP Hard Normal Daddy / Music Is Rotted One Note / Budakhan Mindphone + il famosissimo EP Big Loada, con giusto qualche riserva sul primo.

Specialmente nel secondo, invece, le influenze jazzy hanno una funzione che non è solamente quella di complicare le cose, e in questo si riavvicinano allo spirito più autentico del jazz-funk sperimentale, quello a cui tutta la musica elettronica contemporanea deve più che qualcosina. In particolare, mi riferisco al Miles Davis del periodo che va dal 1972 al 1977, di album in studio come On The Corner, Big Fun e Get Up With It, e live come Agartha e Pangaea. Influenzato allo stesso tempo dal funk e dalla musica concreta, Miles costruì del brani in cui a contare era lo spazio sonoro occupato dai vari strumenti, incastrati come elementi architettonici intorno ad una progressione ritmica molto densa. In questo, senso, lo spazio riservato allo sfoggio spettacolare della bravura tecnica è decisamente minimo. Cosa che invece è all’ordine del giorno in un’altra “creatura” davisiana: la fusion, ibridazione di jazz e rock, sfuggita al controllo delle idee originali di Miles da molto prima che questi schiattasse. Ho sempre pensato che del rock, così come molto del progressive che da questa deriva, la fusion avesse ereditato soprattutto un certo machismo, il testosterone del protagonista-star che usa la tecnica strumentistica più per glorificare sé stesso che per costruire qualcosa in rapporto agli altri strumenti.

Jenkinson (e tutti gli altri spippoloni come lui), dicevo prima, è un tamarro, e si auto-glorifica in quanto “entertainer”, un acrobata da circo più che artista e, di nuovo, non è un caso che a una certa abbia provato a vestirsi da marziano cromato e messo su light-show mega galattici—[" target="_blank">a volte portandosi pure dietro un’orchestra](http://<iframe width=)—per promuovere live Ufabulum, un album che suona tipo Skrillex a cui hanno regalato una 303. Ora invece ha deciso di tornare alle corde, roba con cui aveva persino prodotto dischi fatti solo di quelle (Solo Bass Vol.1… certo che a pensarci bene ne ha fatte di cacate pazzesche). Stavolta, però, non sono pizzicate dalle sue sapienti dita ma da una banda di droidi protocollari: in questo modo il suono torna alla sua fisicità, essendo prodotto comunque da pizzicamenti, sfregamenti, sbattimenti e scuotimenti molto reali, ma perde comunque l’autenticità del rapporto corpo-strumento. E non solo è impoverito in quanto musica organica, ma pure in quanto musica elettronica, visto che nell’album non c’è davvero traccia di nessun tipo di lavoro sul suono in sé. Tanto per fare tripletta: pure le composizioni non sono niente di particolarmente audace e che queste macchine non-pensanti siano in grado di suonare velocissimo non conta granché dal momento che la testa del compositore è fissa su strutture melodiche convenzionali.

La cosa che musicalmente si avvicina di più a definire questo disco è una roba tra la colonna sonora di un brutto Anime fantasy e un gruppo a caso tra quelli “prog” metal più pacchiani, tipo i Dream Theater o i Symphony X, con qualcosa di vagamente 8 bit di tanto in tanto. Però già mi immagino i live pieni di gente venuta a vedere i robottoni che suonano, e che molti parleranno—già lo fanno—di innovazione e sperimentazione. Se non altro Jenkinson ha il pregio di prendersi estremamente sul serio, di non fare apposta a recuperare un tipo di musica trash in maniera distaccata o ironica, ma perché ci crede davvero. È per questo che il misto di tamarraggine e talento finisce per essere esplosivo: in questo caso il talentuoso ha un’ansia intollerabile di essere riconosciuto in quanto tale, e di non sprecare neanche una goccia di sé, per cui inizia a fare il prestigiatore e tutto quello che vuole è sbalordire la gente. Ma sbagliano i vecchi amareggiati a dire che la musica è “oramai” tutta un carrozzone di entertainment, perché i carrozzoni esistono da ben prima dell’arte, da tutta la storia dell’umanità, come potere dell’uno di impressionare e inchiappettare l’altro quando è più BRAVO.

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