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Musica

La musica di True Detective spacca, però...

Non ci va mai bene niente, lo sappiamo. Una riflessione sull'ingombrante ruolo della musica indie nelle serie televisive.

True Detective è appena terminato. A questo punto dovrei sprecarmi in una qualche perifrasi preconfezionate per affermare in qualche maniera sciattamente giornalistica che mi è piaciuto o che mi ha fatto cacare, o meglio: che mi sono lasciato rapire dal fiume di hype che la serie ha iniziato a eruttare fin dalla prima puntata, o che ho deciso di farmi crescere un sistema immunitario anti-cosa del momento. No, mi sembra sempre più stupido anche solo doversi inserire nel dibattito, soprattutto considerando quanto pesante può diventare il misto di ozio e gratuità dello scannamento social, pratica in cui di recente tutta Italia ha davvero dato il peggio di sé. Sopra ogni cosa, sto provando una certa tristezza nel vedere che le reazioni al finale di stagione sono per lo più di scoglionamento, ma per tutti i motivi sbagliati.

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Non voglio fare spoiler, ma sono assai convinto che le lamentazioni sui “nodi che non vengono al pettine” abbiano mancato clamorosamente il cuore o della serie, e vengano da gente troppo ignorante e cecata per sapere davvero con cosa ha a che fare. Il problema, semmai, è ci sono troppi elementi strutturali verso i quali non è stata riposta abbastanza attenzione, strumenti narrativi che si porterebbero appresso tante potenziali sfumature interpretative e possibili pippe mentali, che forse hanno solo il difetto di non essere minimamente televisivi, e quindi completamente fuori contesto. Temo proprio che, col tempo, la serie verrà sminchiata da quel tipo di pubblico che si immaginava una roba alla Twin Peaks, ovvero che passasse alla storia per avere generato un’immaginario di culto che, invece, esiste solo per essere demolito nel finale. Io invece ne sono contento, con giusto una piccola riserva.

Tra gli elementi narrativi di cui sopra, infatti, l’unico su cui ho davvero qualche dubbio è la musica. Immagino fosse prevedibile che sarei arrivato da queste parti, dato che siamo pur sempre su un magazine musicale. Non so se è una mera questione di gusti… Ne ammetto la possibilità, ma nel caso lo fosse, evitate di farmelo notare, fatto sta che così come le ambizioni visive sono davvero troppo per il formato-serie, mi prudono le mani al pensiero che, con un po’ di libertà artistica in più, l’atmosfera di True Detective avrebbe raggiunto la perfezione.

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Iniziamo dalle cose fighe, però, dato che ce ne sono. La colonna sonora porta la firma di T-Bone Burnett, che è contemporaneamente autore dei malcagati brani strumentali, e selezionatore dei brani non originali che si sentono durante le puntate e allo scattare dei titoli di coda. Trattasi di un produttore pop-rock quotatissimo, ex-chitarrista di Bob Dylan e già compilatore di soundtrack molto apprezzate come quella di Fratello Dove Sei dei Coen. Nonostante durante la sua carriera T-Bone abbia prodotto aborti sonori come i Counting Crows e la figlia di Elvis, i suoi dischi solisti sono uno più bello dell’altro. Ha anche avuto il dono del non-rincoglionimento con l’età, infatti uno dei suoi lavori migliori è sicuramente The True False Identity, del 2006: un album di country dannato e pessimista, registrato e prodotto come se gli strumenti fossero tutti sospesi in un vuoto pneumatico e incapaci di comunicare sinceramente l’uno con l’altro.

Vi suona familiare? Infatti non siamo troppo lontani dalle sue composizioni per la serie, non fosse che si parla ancora di forma-canzone mentre quelle sconfinano nell’elettronica d’atmosfera. Sono lunghe sovrapposizioni di droni, rumori sottili ma insistenti e percussioni profonde, tra cui ogni tanto fanno capolino chitarre twangy mezze soffocate. Una sorta di dark ambient sudista, roba tra Earth e The Haxan Cloak di cui spero fortemente HBO farà uscire un album, come fu per Game Of Thrones. Lo spero, ma dubito fortemente che le mie preghiere saranno esaudite, visto lo—ahem—scarso potenziale commerciale di questo tipo di musica.

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Poi c’è la splendida sigla. Trattasi—basta una ricerchina su Google—di “Far From Any Road” della Handsome Family, tratta dall’album Singin Bones del 2003 che è, ovviamente, un concept album sulla morte. Se avete dato un orecchio al testo del pezzo sapete già quanto sia coerente col tono della storia. La Handsome Family faceva parte di quel filone di artisti che tra fine anni Novanta e primi Duemila furono chiamati “alt-country” (e in cui anche Burnett potrebbe essere tangenzialmente incluso, per quanto sia decisamente più anziano) perché essenzialmente facevano country, in una maniera talmente conservatrice da non esserlo affatto, spesso e volentieri facendo un ponte tra la mitologia tradizionale degli stati uniti e rimuginamenti esistenzialisti-nichilisti sulla natura del mondo. Di nuovo: se vi suona familiare è perché è esattamente la stessa cosa che succede nelle vicende di Rust & Marty.

Altri nomi interessanti del “genere” sono sicuramente 16 Horsepower, trio di cowboy millenaristi dalle cui ceneri è nato Woven Hand, e Johnny Dowd, cantautore misconosciuto, serial killer mancato e autore di un brano che è quasi un crimine non avere infilato in chiusura di una delle puntate. Si intitola “No Woman’s Flesh But Hers” ed è una murder ballad sgangherata, sonnolenta, perfettamente allineabile ai momenti più disturbanti e marci delle ultime puntate. La terrificante misoginia del protagonista di questa storia fa il paio con quella dimostrata da alcuni dei personaggi principali, Marty su tutti, che dimostra tutta la sua ipocrisia nel modo in cui si rapporta con le donne della sua vita. Un testo che mette a disagio quasi quanto lo Yellow King.

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Ecco, sono arrivato al primo grande assente della colonna sonora, che invece presenta un sacco di presenze di cui non ho ben capito l’utilità. Non che siano brutte canzoni (“Eli” dei Bosnian Rainbows, per dirne una, è davvero stupenda), ma tendono a rendere la storia un po’ troppo “digeribile” quando di fatto non lo è. Anzi, tendono a ficcare la serie in un contesto un po’ troppo indie, cosa che dispiace perché è subito diventato l’argomento preferito dei detrattori della domenica. In fondo la HBO l’aveva già fatto, proprio con il già citato Game Of Thrones, a partire da “The Rains Of Castamere” interpretata dai The National per finire con quel raccoltone rap che ha lasciato tutti un po’ basiti.

Ci sono poi scelte quasi-azzeccate, che non ho proprio capito come abbiano fatto a non beccarci del tutto. Sono sottigliezze da nerd, ma ho voglia di condividerle comunque con voi. Tipo: perché di Nick Cave, che di canzoni a tema country-blues-droga-serialkiller-sud-Gesù-sesso ne ha fatta a pacchi, ve ne andate a cercare col lanternino una che non c’entra niente? Perché c'è Chelsea Wolfe in (ancora?) Game Of Thrones e noi non ci meritiamo il suo fidanzato country-satanista? E perchè mettere i Melvins in una scena di motociclisti criminali drogati del sud invece della band di criminali drogati del sud per eccellenza?

Per finire: gli Swans. Dove sono? Perché non ci sono? Voglio dire, Michael Gira ha fatto un intero concept album sulla religiosità americana e i suoi risvolti più morbosi, ha portato per primo le sonorità country e blues tradizionali a braccetto con il rumore più nero, e soprattutto ha scritto una marea di testi su serial killer, crimini passionali, alcolismo e perversioni di tutti i tipi. La sua presenza aleggia su tutta la colonna sonora come un fantasma, dagli strumentali di Burnett alla sigla a molti dei brani inclusi, tutto suona “un po’ Swans” o on qualche modo legato agli Swans. Nel mio mondo perfetto il commento sonoro sarebbe stato tutto in mano a Michael Gira.

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Ok: gli Swans sono la mia band preferita. Ok: queste sono tutte pippe di uno a cui piace tanto lamentarsi, lo ammetto. Però sarei stato molto più contento di non dover leggere su twitter che TD è “solo un Breaking Bad più hipster” perché mi rode veramente che ci si attacchi a cazzate del genere per criticare una serie che non si è cercato di capire fino in fondo. Oppure potete trattarmi solo come un fanboy della serie e fanboy di certa musica, uno che piagnucola all’idea che non sia tutto come lo vuole lui. Ne avete tutto il diritto. Dal canto mio mi chiedo solo se non abbiamo mancato un’ occasione in cui si poteva creare una simbiosi stilistica perfetta tra immagini e suono. Una roba alla Blade Runner o alla Twin Peaks, per capirci.

Ma dimenticando le mie fisse, credo che tanto quanto le limitazioni del mezzo televisivo impediscono alla serie di aggiungere linguaggi che ne sacrifichino un po’ la fruibilità, lo stesso valga per la musica. Swans e cazzate a parte, sarebbe stato meglio non mettere musica indie di nessun tipo e valorizzare maggiormente il lavoro di Burnett, renderlo un agente più potente e riconoscibile nella genesi dell'immaginario creato dalla storia. Mi spiacerebbe che quei passi che questa serie ha fatto verso l’affrancamento del formato dalla dittatura di ascolti e popolarità, venissero mortificati dallo snobismo di quegli spettatori che storcono (anche con una strana cognizione di causa) il naso di fronte alle musiche cool.

(Qui di seguito, anche se non c’entrano niente, riporto i miei pensieri sul finale di serie, da cui non potevo proprio esimermi. Potete scannarvi tranquillamente nei commenti, state però attenti agli SPOILER):

I nodi non vengono al pettine perché non devono venire al pettine: la vicenda si riannoda su una finta conclusione quasi identica a quella del ‘95, e tanto quanto noi siamo lasciati con la consapevolezza che è rimasto qualcosa di irrisolto, lo sono anche i protagonisti. Oramai vecchi e praticamente soli, con solo la loro non-amicizia a contare emotivamente qualcosa (in una maniera indefinita e imbarazzante), come conseguenza di tutte le i valori perseguiti, ricercati e abbandonati negli anni, sono rimasti con in mano solo l’impossibilità di potere davvero fermare il male estremo che hanno visto. Sono di nuovo al punto in cui erano nel 95 (“time is a flat circle…”) e i loro sforzi sono valsi a poco. Eppure, la nuova consapevolezza di Rust gli ha mostrato una prospettiva differente: l’amore esiste ed è un’oscura massa di impenetrabilità e morte, il vuoto è comunque totale, ma l’etica pessimistica in cui si era crogiolato fino a quel punto è tanto illusoria e disponibile quanto l’ottimismo. In questo senso, le battute finali servono solo a mostrare quanto questi si equivalgano in maniera effimera. Il nostro amaro in bocca è il loro stesso amaro in bocca nei confronti di un’esistenza che da lì in poi non avrà un senso positivo, ma neanche uno negativo.

Se vuoi litigare sul finale di True Detective con Francesco fallo su Twitter — @FBirsaNON