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Musica

Slim Shady è morto

Il nuovo disco di Eminem, a nostro parere, dà la merda persino al suo alter ego.
Mattia Costioli
Milan, IT

C’erano una volta Slim Shady e Marshall Mathers, che sotto il nome di Eminem stanno facendo rap da quasi vent’anni. A oggi hanno venduto qualcosa come 100 milioni di album (leggi: una persona ogni 70 su questo pianeta possiede un album di Eminem) e, stando ai like di Facebook, Eminem è l’essere umano più amato del pianeta, superato soltanto da Rihanna. The Marshall Mathers Lp 2 è l’ottavo album in studio di Eminem, ed è stato annunciato come “il ritorno di Shady.” Dopo un paio di dischi di merda e 13 anni di vita ai limiti.

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Il primo contatto che ho avuto con questo album è stato il singolo “Rap God,” una traccia che rimette al suo posto l’ego di artisti (nel senso più ampio del termine) che stanno impazzendo tra passerelle, industrie tecnologiche e studi discografici. Eminem ha passato buona parte degli ultimi dieci anni a cercare di scavare una fossa abbastanza profonda per seppellire lo schifo di vita che ha fatto, tra dipendenze, divorzi e problemi di affidamento, senza dimenticare la morte del suo migliore amico. Ha vissuto tutti i piaceri e i dolori che comporta essere adorato da qualche milione di persone. Ora ha quarant’anni suonati e tre figli a cui pensare, ma riesce comunque a comunicare un disagio generazionale che è cambiato (e maturato, in lui quanto nei suoi ascoltatori) ma non scomparso e che è il vero tratto distintivo di Marshall; Eminem non ha un profilo Instagram, non pubblica le foto del suo cane, non ci aggiorna sui ristoranti che frequenta… Tolte le comparsate promozionali per i suoi album non si mostra al pubblico in nessuna occasione. La vita privata di Eminem è, appunto, privata, rilascia un’intervista ogni quindici anni, ma sticazzi, sappiamo tutto della sua vita e del suo stato mentale dai suoi dischi, e a quanto pare continua a non essere felice, ma è diventato un uomo.

Dicevo, “Rap God” è stata la prima canzone che ho sentito, ma non è la prima dell’album, quel posto è occupato da “Bad Guy,” che dopo cinque minuti fa partire una delle strofe più commoventi della carriera di Eminem, di un artista che si trova in un momento della sua vita e della sua carriera di cui ha una paura incredibile. Un uomo che è passato dai 27 ai 41 e si sta accorgendo che i suoi alter ego non possono proteggerlo, forse non hanno mai potuto. La prima strofa è opera di Matthew, il fratellino di Stan ed è violenta e ingenua, in linea con i primi lavori di Shady, è grezza proprio come lo sarebbe il tentativo di imitazione di un fan; dalla seconda strofa inizia una transizione e Matthew si fonde con la voce della coscienza di Marshall, sembra quasi un mea culpa, una cosa da adulta. Em è estremamente onesto, sta chiedendo scusa. "Tragic portrait of an artist tortured / Trapped in his own drawings / Tap into thoughts / Blacker and darker than anything imaginable / Here goes a wild stab in the dark / As we pick up the last Mathers left off," la strofa finale si chiude così, e subito dopo comincia l’album.

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Nelle autobiografie c’è sempre quel momento in cui il tizio che si sta raccontando finisce la storia e arriva al presente, non che abbia letto molte autobiografie ma trovo quel momento infinitamente triste e patetico, c’è sempre scritto qualcosa tipo “…e adesso?” Come se l’autore volesse trovare un motivo per andare avanti, per convincersi che potrà ancora realizzare qualcosa degno di essere raccontato. In questo brano, che è un’autobiografia, questo momento squallido non c’è. Eminem è consapevole delle strade a sua disposizione, sa di poter ancora far tremare le orecchie di mezzo pianeta, anche se ha davvero paura che sia la sua ultima opportunità, non c’è più posto per le cazzate. Ecco, alla luce della prima canzone, va rivalutata tutta la menata pubblicitaria legata al “ritorno” di Shady, per quel poco che posso capire Shady è appena morto, e siamo solo alla traccia numero uno.

Il resto dell’album si muove tra momenti di consapevolezza personale e momenti più ignoranti e festaioli; “Survival” e “Monster” sono i pezzi più radiofonici del disco, non c’è molto da dire, ma in confronto agli altri featuring con Rihanna l’asticella è stata alzata di molto, credo che sia giusto puntare ad avvicinare più ascoltatori possibili al disco. “Monster” ha degli hook orecchiabili e accattivanti ed è quasi un peccato che, per colpa di Linus, finiremo tutti per odiarla entro Natale. Il mostro di cui si parla è la fama, dato che entrambi sono davvero più famosi di Gesù Cristo.

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Eminem in alcuni momenti sembra ragionare come se si fosse ritrovato ad avere 41 anni all’improvviso, a dover fare i conti con l’uomo che è diventato da un momento all’altro, senza che ci sia stata una graduale maturazione. In “Legacy,” lo sentiamo incazzato come se fosse ancora un ragazzino e in un attimo si ritrova nei suoi panni attuali, incaricato di lasciare segno iconico della sua musica, un’eredità per tutti i nati strambi dei prossimi diecimila anni; il punto è che, nonostante l’età e una ritrovata consapevolezza di sé, è ancora in grado di ricordare che quando arriverà qualcuno in grado di batterlo sarà il momento in cui gli usciranno dei maiali volanti dal culo. Quest’ironia, a volte cazzona a volte più raffinata, è la patina perfetta per coprire un disco di riflessione personale e autocritica.

Non che tutto sia davvero così pesante (o riuscito,) ma sono totalmente disposto a farmi tirare in mezzo da una traccia circense come “Berzerk” (in cui forse c’è più Rick Rubin che Shady) o sentire quella roba a metà tra un live dei Sum 41 e un singolo di Taylor Swift che è “Stronger Than I Was,” perché tutto si lega perfettamente. Non penso diventerà la canzone preferita di nessuno Stan sulla faccia del pianeta, ma non ho bisogno di saltarla, è al posto giusto ed è comprensibile.

Kanye ha recentemente fatto la sua proposta di matrimonio a Kim caricando video su ogni qualcosagram che sia disponibile su un cellulare, nel frattempo Eminem continuava ad essere un marziano e scriveva il testo di “So Far,” che più che un’accusa alla tecnologia è una resa davanti ai troppi pulsanti che deve premere per arrivare a fine giornata. Per tecnologia ovviamente si intende anche l’obbligo di interazioni sociali online a cui gli artisti sono tenuti. Questa cosa Eminem la vive male, per usare un eufemismo. Non c’è alcun beef verso gli artisti più “socialmente attivi,” Kanye viene anche citato in “Evil Twins,” ma è interessante notare come Eminem abbia un modo totalmente diverso di interpretare il suo lavoro, la sua vita e il suo ruolo di artista.

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E poi “Love Game,” con Kendrick Lamar. Ci aspettavamo il circolo delle seghe a vicenda, e invece è uscito un pezzo imprevedibile e che funziona. Praticamente il risultato è quello che “Otis” doveva essere nelle intenzioni di Jay-Z. C’è da sperare che questa non sia l’ultima collaborazione tra i due.

Quando i membri di una band diventano vecchi si mettono a stampare greatest hits, live di concerti e altre amenità di questo genere, per i rapper questo processo non esiste. I veterani sono chiamati a fare tanta musica quanta ne fanno i ragazzini, ma Eminem si è reso conto di non poter continuare con Shady, né con la strada intrapresa in Recovery ("but what good is a / fucking recovery if I fumble it?"—in “So Far…”), questo disco è l’inizio di un nuovo percorso artistico per Eminem, e credo che il tentativo sia di unire piuttosto che di escludere, l’errore interpretativo è stato quello di parlare di un “ritorno” di Shady, quando la realtà dei fatti è che si tratta di una rivalutazione, una sintesi. Il tentativo, magari maldestro, di una delle figure più importanti della modernità che vuole dare un significato omogeneo alla sua carriera.

Per farlo è necessario anche un momento di auto-critica e la collaborazione con Nate Ruess (il tizio dei FUN) è quasi commovente; il prodotto finale è una lettera in cui Em chiede scusa a sua mamma, ammettendo di odiare (e di aver rinunciato) a una parte della sua carriera. Forse queste scuse arrivano troppo tardi, ma sono comunque state fatte davanti a quei 100 milioni di persone già citati. But I’m sorry mama for Cleaning Out My / Closet, at the time I was angry / Rightfully maybe so, never meant that far to take it though, cause / Now I know it’s not your fault, and I’m not making jokes.

Marshall.

L’ultimo pezzo del disco è “Evil Twins,” e sinceramente mi fa tirare un po’ un sospiro di sollievo perché, a meno di aver travisato tutto, da una parte c’è Marshall, dall’altra c’è Shady e nel mezzo c’è Eminem, intrappolato tra i suoi alter-ego. "Fuck top 5, bitch, I'm top 4 / And that includes Biggie and Pac, whore / And I got an evil twin, so who do you think that 3rd and that 4th spot's for?" Viene spontaneo pensare che, per Eminem, al terzo e al quarto posto ci siano lui e Shady, io invece credo che quelle posizioni siano occupate da Biggie e 2Pac.

Se non fosse per la nostalgia canaglia non avrei problemi a dire che questo disco mi sembra un paio di gradini sopra il suo predecessore ideologico, The Marshall Mathers Lp. La verità è che siamo di fronte a un punto di svolta, che Eminem ribadisce nuovamente alla fine del disco: "But all bullshit aside I hit a stride / Still Shady inside, hair every bit is dyed / As it used to be when I first / introduced y’all to my skiddish side / And blamed it on him when they tried to criticize / Cause we are the same, bitch." Sarà stupido da dire, ma io non vedo l’ora di sapere in che direzione si muoverà adesso la sua carriera, ora un po’ più libera dalle nevrosi, oltre che dai normali vincoli sociali a cui è sottoposta quella parte “mortale” del Gioco del Rap.

Mattia è un giovane puledro galoppante nella redazione di Noisey. Seguilo su Twitter: @mattia__C