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Musica

I sogni altissimi dei Japanese Gum

Aspettando l'uscita del loro vinilone, abbiamo intervistato i Japanese Gum e ci siamo fatti fare un mix molto high.

Chi sono i Japanese Gum? Bella domanda, loro si descrivono con un lapidario “Wow and Flutter”. In realtà sono un duo genovese nato nel 2005 e composto da Davide Cedolin e Paolo Tortora, cui si unisce Giulio Fonseca (già conosciuto per il progetto Go Dugong) per i live. La loro musica è una miscela ben calibrata di psych-rock, shoegaze e glitch a contrappuntare il tutto. Hanno pure partecipato all'edizione 2012 del SXSW e il loro primo album, Hey Folks! Nevermind, We Are Falling Down risale al 2007.

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Per darvi una piccola anticipazione sul loro sound, immaginate di galleggiare nelle profondità del cosmo, ritmati da percussioni primordiali, mentre le voci dei Japanese Gum riemergono sinuosamente dalle pieghe più recondite del vostro inconscio.

Ok, forse le mie visioni mentali sfiorano l’inquietante. Perciò, per darvi un’idea più “verbale” dell’essenza di questo gruppo abbiamo telefonato a Paolo e Davide, che si sono presi una pausa dalla vendita di mobili e dagli smanettamenti informatici per nascondersi in un giardino pubblico e parlarci un po’ di loro e completarsi le frasi a vicenda come una coppia di colombelli innamorati. Davide mi aveva avvertito: “O parliamo troppo o parliamo troppo poco.” Forse, complice la fatina verde del Colorado, li ho beccati in un momento di grande loquacità. Abbiamo quindi parlato della loro venerazione per Ravi Shankar, dei loro incontri esotici al SXSW e dei loro road trip avventurosi nei meandri dell’Est Europa. Aggiungo in esclusiva che Davide è un grande fan di David Hasselhoff e di programmi culinari, mentre Paolo è un intrepido surfista dalla voce cavernosa, così, per quadrare il cerchio.

Ci hanno poi regalato un bel mixtape, una festa di dub e psichedelia. Sul lato A trovate la scelta di Paolo, e sul B quella di Davide. Ora leggetevi l’intervista, fatevi tutti i viaggi che volete ascoltando il mixtape, e se avete ancora fame di trip c'è il loro ultimo disco, High Dreams, uscito il 2 dicembre per l’etichetta norvegese Etch Wear. Giulia ve lo consiglia. E sti cazzi.

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Bene, partiamo dalle origini. Com’è partito il tutto? Ho visto anche che avete perso qualche pezzo per strada…
D: Sì abbiamo perso due componenti. In realtà abbiamo iniziato come trio, c’era il nostro amico Gigi, poi ci sono stati cambi di set-up, cambi relativi ai live e soprattutto c’era il problema di conciliare la carriera musicale con il lavoro. Così è arrivato Giovanni con le batterie, perché io quanto a percussioni non sono molto ferrato. Penso che i batteristi potrebbero sentirsi offesi se mi definissi tale…

Non essere così severo con te stesso, Davide

D: No be'… Diciamo che quello che faccio io è più complementare, Giovanni era più inquadrato. Quando lui era nel gruppo i pezzi erano più basati su una concezione rock, con percussioni ben definite, un po’ meno elettronico, ecco. Dopodiché abbiamo terminato la collaborazione con Giovanni e siamo rimasti noi due per qualche anno, finché non è arrivato Giulio Fonseca, nel 2011.

Come contribuisce Giulio al progetto?

P: Io e Davide ci occupiamo della produzione vera e propria, lui ci dà una mano dal vivo, perciò in alcune dinamiche non è molto presente, soprattutto perché abita da un’altra parte ed ha il suo progetto [Go Dugong]. Non ha registrato con noi il disco, però suoniamo sempre con lui dal vivo. Per noi è fondamentale proprio l’apporto che ha nel live, si occupa di tutte le parti elettroniche e ci permette di essere liberi di fare le nostre cose.

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Quindi, rispetto al disco, sentirvi dal vivo è tutta un’altra cosa.

D: Be', ovviamente sono due cose diverse. Innanzitutto è interessante per capire molte dinamiche della band.

P: Davide suona dal vivo tantissime batterie. Io mi occupo di chitarre e tastiere. Abbiamo un set molto variabile, in realtà. Però noi due siamo le componenti fisse.

D: C’è stato solo un concerto in cui abbiamo suonato solo io e Giulio, senza Paolo… È successo circa un anno e mezzo fa, c’erano stati vari problemi a livello organizzativo ed è stato effettivamente un po’ strano. Non lo dico perché ce l’ho di fianco, Paolo è davvero l’unico elemento imprescindibile del gruppo, fa molte cose che dal vivo sono irriproducibili [Paolo intanto smentisce]. Comunque, a seconda di chi siamo, il live varia molto.

La musica non è la vostra unica occupazione, cosa fate quando non vi dedicate alla psichedelia?

P: Io lavoro in un istituto informatico, che in questa era musicale può sempre tornare utile. Ho fatto la mia tesi di laurea sul legame tra il mondo digitale e l’arte. Anche se non posso dire di essere un artista a 360 gradi…

Ragazzi, autopromozione…Dovete sapervi vendere!

D: Esatto, non riusciremo mai a vendere un disco! Io comunque vendo mobili, quindi un campo ancora più esule, non c’entra proprio nulla. Ho fatto l’Accademia di Belle Arti.

Be', avete comunque un piano B—tocchiamo ferro. Per tornare al disco, è certamente insolito rispetto al panorama nostrano. Ci sono atmosfere e suggestioni psichedeliche che non si sentono spesso da noi. A chi/cosa vi siete ispirati?

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P: Abbiamo un ventaglio amplissimo di riferimenti. Io ascolto rock psichedelico e kraut, ma il modello per eccellenza è e rimarrà Ravi Shankar. Ascolto anche un sacco di elettronica, come i Knife e i Silver Apples.

D: Io da quando ho montato la console sopra il negozio ascolto moltissima dub, di cui avevo già vari vinili, facevamo persino dj set di dub. Poi musica giamaicana in genere, l’hip-hop che ho sempre ascoltato, in realtà, ma da quando lavoriamo con Giulio ho iniziato ad ascoltare cose un po’ più nuove, e i Flaming Lips, forse il gruppo che ho ascoltato di più negli ultimi anni.

P: Poi però finiamo sempre per influenzarci a vicenda, ci passiamo musica in continuazione. Detto questo, quando componiamo cerchiamo di rimanere distaccati da qualsiasi tipo di genere musicale contemporaneo, anche se certi ascolti ti rimangono in testa ed è inevitabile che emergano in qualche modo.

Raccontatemi due cose sull’album precedente: Hey Folks, Nevermind! We Are All Falling Down!

D: Quel disco l’abbiamo fatto solo io e Paolo.

P: Sì, eravamo solo noi due, teoricamente. Le batterie le ha registrate il nostro fonico Martino [Sarolli], che ha avuto un ruolo sostanziale in quel disco. Ha registrato tutte le percussioni che abbiamo utilizzato per i live, fino a che non abbiamo avuto un batterista vero e proprio. Cominciamo a lavorare alle canzoni a casa, io a casa mia, Davide a casa sua, oppure insieme, poi le portiamo in studio di registrazione, dove possiamo aggiungere elementi in più, magari con strumenti che noi personalmente non abbiamo.

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D: Sì, il reale sviluppo dei pezzi avviene a casa. Le idee, il grosso del lavoro.

Quindi il nuovo assetto live ha influenzato anche la vostra produzione, per High Dreams?

D: Sì, ora pensiamo i pezzi anche in funzione del live. Dobbiamo ragionarcela bene per non rischiare di finire con mille stratificazioni, visto soprattutto che non vogliamo essere un gruppo di elettronica, ma usarla per variare la nostra musica. Detto questo, sì, siamo cambiati, perché usiamo strumenti nuovi, così come a livello formale, perché è difficile per noi fare i pezzi con lo stampino, sentiamo sempre il bisogno di ricercare, e un po’ alla base del nostro modo di far musica. Una ricerca che può semplicemente significare comprare un pedale nuovo, provare altra strumentazione, ecc.

P: Non solo sperimentare con la strumentazione però, anche un cambio nell’approccio ai dischi. Il primo album è stato molto rimodellato al computer, mentre High Dreams è stato più pensato in funzione dei live e abbiamo voluto in un certo senso scarnificare la struttura delle canzoni.

Ora siete più minimal, quindi.
D: Sì, forse anche per una questione di fruibilità. Non in un senso strettamente commerciale, considerato che comunque non possiamo avere grandi aspirazioni di quel tipo, visto che facciamo musica abbastanza di nicchia.

Siete stati selezionati per suonare al SXSW. Raccontatemi com’è stato.

D: Esperienza ottima, a 360 gradi. Tutti i gruppi dovrebbero provarlo, se ne hanno l’occasione. È un modo per darsi una svegliata, noi Italiani siamo abituati un po’ troppo bene.

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In che senso?

Perché lì magari alle 5 di pomeriggio ti trovi tre concerti in contemporanea, per cui sei costretto a fare una scelta. “Vado a sentire qualcosa che sicuramente mi piacerà, o rischio e vado da quel gruppo che ho scoperto l’altro giorno sul giornale, che magari ha qualcosa di nuovo da dire?”

Quanto a pubblico secondo me è uno dei festival più belli, e i concerti che vedi ad Austin ti bastano per il resto dell’anno.

P: Sì, soprattutto perché non è centralizzato. Tutta la città si riempie di performer, ci sono live show persino in negozi di abbigliamento, l’intera città impazzisce. In ogni angolo trovi un concerto diverso. Non esiste la concezione del palco enorme. E il fatto di essere abituati bene si riferisce proprio a questo. In festival come il SXSW diventi un “numero”. Devi rispettare assolutamente i tuoi orari, la backline è condivisa al millimetro, quindi se ti dimentichi qualcosa del rider è difficile recuperarla all’ultimo…Però secondo me fa bene, perché ti fa capire che si dovrebbe rispettare di più chi lavora ai concerti, mentre, al contrario, gli addetti ai lavori in Italia dovrebbero forse viziare un po’ di meno gli artisti. I gruppi americani che vengono in Europa per i festival sono sempre contenti di farlo, perché sanno che saranno trattati bene…forse anche troppo.

Be', non è necessariamente una cattiva cosa…

Rimane comunque il fatto che ci sono delle disparità secondo me un po’ eccessive, tra il gruppo italiano che si sbatte per fare i 150 euro di una tappa e il gruppo americano che arriva in Italia e trova tutto pronto. Anche se, ovvio, già il fatto che venga in Italia significa che abbia a disposizione delle spese in più. Certo in Italia non vengono trattati come qua. Ed è strano vedere come personaggi della musica internazionale, da noi trattati come giganti, sono in realtà persone normalissime, che in patria devono fare i conti con tutti gli imprevisti e gli inconvenienti delle tournee.

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Tornando al SXSW, gli incontri più interessanti che avete fatto?

Abbiamo incontrato Jonathan Clancy!

Incontri esotici…

Sì, sarebbe stato più comodo incontrarlo a Piacenza, che so. Comunque ad Austin abbiamo conosciuto Psychic Ills, Ganglians, Prince Rama, e Mr Muthafuckin Exquire, mentre a New York abbiamo conosciuto Young Magic.

E durante il vostro tour europeo qual è stata l’esperienza più strana che avete avuto? Ho visto che siete stati in molti Paesi slavi… Io ho fatto un mese in Russia e sono tornata con un bel bagaglio di esperienze, gli slavi sono divertenti…

D: Sì io sono sloveno e posso confermare…

Credo di aver appena fatto una gran figura di merda…

No be', gli slavi hanno tendenzialmente un livello di pazzia diverso dal nostro, quindi fanno sempre la loro porca figura. Comunque abbiamo un ricordo interessante del viaggio tra Repubblica Ceca e Polonia. Stavamo andando alla tappa successiva del nostro tour e a un certo punto la strada è semplicemente finita in mezzo ai campi. Non c’era più nulla. Per cui siamo dovuti tornare indietro, costeggiare la Germania e fare il doppio della strada. Abbiamo finito per perdere quel concerto.

E avete notato una ricezione diversa da parte del pubblico straniero?

D: Mah, in Repubblica Ceca ottima.

P: Quello che mi colpisce è che, anche se non conoscono ancora bene gli artisti, hanno sempre comunque la curiosità di venirti a vedere, e in generale sono molto caldi nell’accoglienza.

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D: Sì, all’Est c’è una grande fame di cose nuove. Ti faccio l’esempio di Praga, che non è una città piccola, eppure le due volte in cui ci siamo esibiti lì sono sempre andate benissimo.

Effettivamente nei Paesi dell’Est Europa la cultura underground si sta radicando bene.

D.: Sì in Repubblica Ceca siamo rimasti sorpresi, ma all’ennesima potenza; ci sono un sacco di ragazzi giovanissimi che si fanno festival da 10.000 persone…È una cosa che dovrebbe essere comune anche qui, secondo me.

Sulla vostra pagina di Facebook, come descrizione avete “Wow and Flutter”. Potreste elaborare un po’?

P.: Si tratta del grado di deformazione dei vecchi nastri, con il tempo e l’usura il suono si deforma al punto di diventare quasi lo-fi. Era una cosa un po’ ironica, ci piaceva molto come definizione.

È d’effetto, questo è vero.

D.: In realtà ci piace dire un sacco di cose a caso.

Fantastico! E con questa massima passiamo all’ultima domanda: ho letto che avete già alle spalle collaborazioni di un certo peso, anche internazionali, come quelle con gli High Places, i Victory At Sea, i port-royal e i Giardini Di Mirò. Quali sono, secondo voi, i nuovi artisti italiani più interessanti?

D: Ecco, le nostre collaborazioni si basano prima di tutto su un rapporto di reciproca stima personale e artistica, è il nostro criterio fondamentale. Quanto ai nuovi artisti che secondo noi meritano attenzione, ti facciamo alcuni nomi: Porcelain Raft, che è un produttore molto bravo che ora vive a New York , i Drink To Me, i Father Murphy, Go Dugong OVVIAMENTE [ride], Machweo, Populous/Life & Limb e Stèv.

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TRACKLIST:

A Side:

Laurie Spiegel - Music For Dance Part I

African Head Charge - Unplanned

Piero Umiliani - Iniziazione Di Una Giovane Strega

The Focus Group - The Moon Ladder

John Lurie - Tomato Fight

Wolfgang Bock - Cycles

King Tubby - Natty Dub

B Side:

The Silvertones - African Dub Version

Al Tascith Joe - Ethiopian Peace Song

Seleshe Damessae - Agaro

Topaz Rags - Heart In Ribs

Amon Düül - Ein Wunderhubsches Madchen Traumt Von Sandosa