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Musica

Addio, Street Asshole

Demented ci racconta il suo Lou Reed personale, conosciuto quasi per caso e mai abbandonato

Ci sono situazioni veramente imbarazzanti: momenti in cui uno preferirebbe nascondersi o evitare di aprire bocca ma sei in qualche modo costretto e sai che qualsiasi cosa dirai sarà una merdata. La morte improvvisa di Lou Reed ci ha ovviamente fatto questo effetto. Se ne parli in maniera agiografica sembri un coglione che si mette a fare coccodrilli ragionati, se non ne parli sembri un coglione uguale perché sarebbe fondamentalmente come ignorare la storia. A questo punto, l’unico modo per toccare l’argomento è, a mio avviso, ricordarlo per come è entrato nel quotidiano, come ha aleggiato nei cervelli di tutto il mondo e—ovviamente in particolare nel mio. Nel caso specifico della mia vita Lou Reed è entrato con Videomusic: c’era il clip di "No Money Down." Tratto dall’ingiustamente sottovalutato ed elettronicamente plasticoso Mistrial, in cui Lou si strappava la faccia con le mani. Era un video abbastanza scioccante, considerato che io ero molto piccolo. Quando sentivo le interviste dicevano che aveva fatto parte di un gruppo chiamato Velvet Underground, però io non me li cacavo di striscio, ero troppo immerso negli anni ottanta per farlo. Ad ogni modo, quel video, con la sua aura di decomposizione malata, mi colpii molto, tant’è che anni e anni dopo (ma prima dell’avvento di internet) tentai invano di recuperarne memoria… A volte quando facevano i servizi su di lui—metti Red Ronnie—sovrapponevano Heroin a quel video là, non so per quale oscuro motivo.

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Mio zio aveva un suo disco in vinile, Coney Island Baby. Era il periodo che mi facevo le cassette dalla sua collezione di dischi ed anche quello finì su nastro magnetico. Mi sembrava un disco fatto di aria, ma una inquinata tipo dei tubi di scappamento delle auto. La voce era indubbiamente quella di una specie di muezzin newyorkese e tossico, per azzardare un paragone: sembrava stesse recitando sempre un qualche tipo di testo sacro sconosciuto. Ascoltavo spesso quel disco ma non aveva su di me effetti di “fanatismo”. Fanatismo che, ad esempio, a dodici anni avevo per i Kiss: in apparenza la cosa piu’ lontana possibile da Lou Reed, invece eccolo qua che spunta fuori nella scrittura dei pezzi di The Elder, il disco piu’ controverso dei Kiss, uscito quando ancora i Metallica succhiavano la tetta della mamma, premiato da un insuccesso epocale, ma sicuramente uno dei miei dischi preferiti dei 4 cazzoni mascherati. Poi ci fu New York: quello lo vidi performato live in tv, con la ballatona "Romeo And Juliet"… mi sembrava cantautorato zozzone, che ascoltato adesso a mente fredda ha senza dubbio anticipato i Guns'N'Roses acustici, il riff di "Black Or White" di Michael Jackson e praticamente anche tutto il cantautorato indipendente italiano dell’epoca. I troppi imitatori avevano saturato un po’ il mercato, di conseguenza New York mi sfuggì via dalle orecchie abbastanza presto. Poi morì Andy Wharol e improvvisamente una reunion: Cale e Lou tornano a suonare insieme e fanno un disco incredibile, Songs For Drella; la stampa impazzisce: “tornano i velvet underground” ecc… Io però ero troppo impegnato a sentirmi lo shoegaze e l’industrial, anche se ascoltato per radio era qualcosa di toccante, un bicchiere di cristallo in bilico su una fune.

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Per arrivare in zona “illuminazione” mi ci vorrà la reunion dei Velvet nel 1993: le riviste di settore scrivevano articoli dettagliatissimi sull’argomento. Ripescai il primo, che avevo in qualche modo snobbato perché non sopportavo l’eccessiva pubblicità che se ne faceva. Ebbene: le prime sbronze con in cuffia "Heroin" o "Venus In Furs" erano tutto quello che all’epoca potevo desiderare, con quei suoni malefici, i testi antisociali, la viola che t’ammazzava il cervello e tu te ne andavi via, ma proprio via. Avevo sui 17 anni e I Velvet da quel momento hanno preso a circolarmi nel sangue come appunto l’eroina di cui sopra: anche perché in piena botta Joy Division già Ian Curtis faceva una versione malatissima di "Sister Ray", contenuta in STILL. E quindi via, a colpi di "White Light/White Heat", "The Gift", e tutte ste zozzate. Colonna Sonora dei primi viaggi nelle dimensioni scomode della scoperta di sé, degli altri, dell'inferno e ovviamente della condizione umana. È quando dici “Ok, voglio che le cose suonino una merda, loro l’hanno fatto e posso farlo anch’io”. Da qui si va a ritroso: me ne vado a vivere da solo accompagnato dalle note di Transformer, che col suo tedio esistenziale allo stesso tempo ode all’autodeterminazione—distruttiva o meno—pennellava quella paura/eccitazione/rischio che era entrare nella vita reale. Fatta quindi di una cosa tangibile che poi porta paradossalmente all’assurdo: ovvero sporcarsi le mani.

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Lou reed è in qualche modo, senza che io gli chiedessi nulla e senza che andassi in giro con le sue magliette e senza che ne abbia visto un concerto uno, spuntato fuori nei momenti di passaggio più importanti della mia vita. Quando fui sfrattato per la prima volta in vita mia, assaporando il brivido del trasloco, ecco qua Metal Machine Music, imprescindibile per qualsiasi noiser che si rispetti. Già assaporata in parte in una compilation tributo a John Cage, stavolta fu una tempesta di brividi sulla schiena e un subliminale "armiamoci e partiamo”: sempre osteggiato dalla critica, che anche se ne scriveva bene ti faceva passare la voglia di comprarlo, questo disco è una specie di monolite caduto sulla terra con noi scimmie intorno a cercare di far funzionare un osso. Dopodiché Lou sparì per un periodo dalla mia vita. Paradossalmente vi entrò in maniera imponente Laurie Anderson, che poi diventò, guarda il caso, sua moglie. D’altronde era il periodo della sbornia elettronica, tutti a smanettare coi software; il vecchio Lou sembrava perdersi in zone di obsolescenza, anche se sul mio letto campeggiava la copertina di Ecstasy, che trovavo meravigliosa ed è la summa del loro matrimonio. E il video in cui era vestito da pollo non era affatto male.

Nonostante anche in The Raven ci fossero delle perle quali la strappamidollo "Vanishing Act", al tempo in cui uscì il disco passò su binari paralleli ai miei, in una dimensione a parte. Il noise rock mi distraeva dal suo padrino, che a dire il vero in questo disco mette i puntini sulle i con "Fire Music" in cui si butta a pesce nel rumore.

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Passano ancora le stagioni e stavolta mi ritrovo nei pasticci: crucci di tutti i tipi, sconvolgimenti personali, insomma un casino. Il superamento è lungo e faticoso, ma una volta trovato approdo sicuro ecco spuntare pressoché dal nulla Hudson River Wind Meditations del 2007, il suo unico disco elettronico. Un capolavoro uscito per un etichetta indipendente, ambient malata che nasce come imitazione del vento sul fiume e meriterebbe cento stellette. Era la botta zen che avrei cercato se solo avessi saputo. Da lì il ritorno sui dischi dei Settanta-Ottanta: ora siamo pronti a capirli perché in un certo senso li viviamo. Le relazioni finite per colpa tua: ecco che riciccia fuori Berlin, con la sua drammaticità epica e i suoi pezzi che sembrano scritti per farti pensare a quanto sei stronzo, permeati da un romanticismo sadico che è talmente iperrealista che guardandoti allo specchio ci sputeresti. La città che vivi e le conseguenti situazioni di sfascio diventa The Bells, Street Hassle, The Blue Mask con dentro "Waves Of Fear" sulla quale potrei scrivere una tesi di laurea: un pezzo stratosferico sul panico, sai quando ti prendono il cuore e lo grattugiano come un plettro sulle corde metalliche della chitarra? Ecco, la stessa sensazione. Dovremo aspettare un altro millennio per ascoltare uno che ha il coraggio di fare cose del genere, ma anche tipo un disco come Lulu che, piaccia o no, ti lascia comunque sconvolto nel bene e nel male.

Lou Reed insomma è stato per me come un uccello di passaggio,diciamo uno splendido corvo. Passa in sordina, ti dice “ehi senti qua”. Non arriva imponendoti qualcosa ma ti si appoggia sulla spalla che manco te ne accorgi. Ma non è finita qui.

L'altro giorno vado al mercatino di quartiere e trovo Rock'n'Roll Heart a due lire. Disco mai coperto, considerato minore, invece è pieno di sorprese. Anzi, mettiamola cosi’: è un portagioie: lo metti sul piatto e prendi smeraldi, rubini, te li guardi piano piano poi li rimetti a posto, ma non li indossi. È un po’ come pensare alla vita: plasma il tuo passato e ne fa pietre preziose, ma che senso ha sfoggiarle tanto per? Sono pezzi rari che ti tieni soprattutto dentro. Perché alla fine è come dice lui stesso nel disco: "Just A temporary Thing".

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