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Musica

Zola Jesus: l'ambizione non è un male

Nika Danilova ci ha spiegato perché "Taiga" è il suo disco più grande e importante

A fine 2012 Nika Danilova AKA Zola Jesus è fuggita da Los Angeles per disfarsi della civiltà, ben nove mesi di vita in isolamento e senza Internet sull'isola di Vashon, nel Nord Ovest del Pacifico. Dopo aver affrontato incessanti tour promozionali e tre album, si è immersa in una natura selvaggia del tutto simile a quella che offriva la sua casa d'infanzia nella campagna del Wisconsin: é stato un modo per riallinearsi con sé stessa e interpretare i propri desideri più reconditi. Senza sorpresa alcuna, il risultato di questo isolamento è Taiga, un album che suona proprio sugli epici paesaggi incontaminati della foresta boreale russa. Non per dire, ma suona proprio come un invito a stracciare i vostri abiti stilosi, distruggere il vostro iPhone, e fuggire di corsa per vivere nel bosco più vicino insieme all'intero cast di Bambi. Taiga, invece, esplora le tensioni interne delle nostre vite, quell'attrito tra il sempiterno regno di edifici in calcestruzzo o iper-connettività, e quelle terre incontaminate che mettiamo a dura prova per via delle attività umane.

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Emersa dalla scena noise ma dotata di una formazione lirica, apprezzata soprattutto grazie al capolavoro gotico Stridulum e al cavernoso art pop di Conatus, Zola Jesus vanta una carriera artistica fatta commistione di numerose sonorità. Con Taiga però, ci rivela il pieno disegno della sua identità musicale: troviamo così elementi profondamente punk e noise, le sue origini nella musica classica, e un energico gusto pop. Ad aiutarla in tutto questo processo, troviamo il nuovo co-produttore Dean Hurley, che ha già lavorato con David Lynch. Per questo nuovo album, Nika si è persino liberata del caratteristico riverbero che aveva ammantato costantemente la sua voce finora. È stato un cambio di stile innescato dall'esibizione orchestrale Versions, tenutasi l'anno scorso al Guggenheim insieme al co-creatore JG Thirlwell, in cui ha sperimentato uno stile di espressione dinamico e decisamente più puro. Ah, inoltre Taiga verrà rilasciato su una nuova etichetta molto più importante: Mute. Sono un bel po' di cambiamenti, così abbiamo incontrato Nika all'ultimo piano di un palazzo nel quartiere londinese di Dalston per capire dove fosse prima di darsi una mossa.

Noisey: Eri mai stata a Vashon prima di trasferti in quell'isola?

Zola Jesus: No assolutamente, infatti ero piuttosto diffidente, ma poi si è rivelato un posto stupendo in cui vivere. Ho installato ben presto il mio studio e ho cominciato a comporre musica ogni giorno come un esercizio fisico. Poi però ho sentito l'impulso di contattare la mia vecchia insegnante di canto perché avevo bisogno di intonarmi ulteriormente, e scriverle ha cambiato tutto radicalmente. Ho acquistato convinzione non solo nella mia voce ma anche nella visione delle cose. È stato un processo lungo e faticoso.

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C’è una canzone della quale ti sei accorta che spiccava già sulle altre mentre ancora le stavi scrivendo?

“Hunger” è stata la prima a farmi dire “ok, è così che deve essere questo album”. Appena l’ho scritta ho capito che era importante.

Quindi il suono che cercavi era un qualche tipo di pop molto ambizioso e magniloquente?

Mi sono detta che potevo fare solo in due modi: una roba grossa e molto ambiziosa, oppure una quieta e introspettiva. A quel punto mi è sembrato più interessante accettare la sfida di fare un album concepito come grande e importante, cose che invece prima d’ora avevo sempre fatto in maniera un po’ approssimativa. Non avevo mai creduto di esserne in grado.

Eppure secondo me la tua musica non è mai stata “piccola”. Cosa intendi allora per grandezza?

Volevo fare un album che fosse cotto a puntino, espansivo ma non claustrofobico. È un po’ come nella Taiga, appunto: se sali su un altura e guardi il passaggio vedi qualcosa di uniforme ma fatto di molti dettagli. Questa è ambizione,ogni elemento di questo disco è parte di un progetto ambizioso, anche se non vorrei essere fraintesa: la parola “ambizione” può avere significati molto diversi.

Per te cosa significa?

Vuol dire puntare a raggiungere obiettivi che non avevi mai pensato di poter sfiorare. Con questo disco ho cercato di buttare giù un po’ di muri, tipo lavorando con una sezione di fiati, curando di più la programmazione dei beat, e soprattutto registrando la mia voce senza riverbero e senza sentirmi in imbarazzo a farlo. La mia ambizione è proprio questa: cercare di rimuovere continuamente strati esteriori per trovare l’essenza più pura di quello che faccio e di chi sono. Non si tratta di arrivare a riempire gli stadi, anche se spesso ci scherzo su.

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Quello che la gente chiama ambizione spesso è solo pura avidità, no?

Molta gente pensa che sia una parolaccia, ma per me è importante quanto un istinto di sopravvivenza, è una spinta a migliorare. È come buttare giù degli alberi per costruirci sopra dei grattacieli a forma di alberi. È la ricerca costante di una maniera migliore di fare le cose. Mi sembra che il mondo indie spesso veda molto male l’ambizione, come se non volessero che nessuno ci provi davvero. Ci sono un sacco di musicisti che si comportano come se avessero solo qualità innate e non dovessero mai impegnarsi sul serio, spesso questo è anche il loro bello, però poi succede che chi si impegna davvero viene visto male.

Io ho cominciato nei giri punk, e ho molti amici che suona noise, che è una roba molto impegnativa, nonostante quello che si possa pensare. Fare un tour suonando noise è davvero la cosa più dura che un musicista possa mai finire a fare: si suona sempre in posti piccolissimi, garage, case… Devi volerlo fare davvero, con tutto te stesso. Poi però, se provi a mettere un piede fuori da quel mondo finisci scomunicata, come se avessi commesso un sacrilegio. Non è così.

Ma tu hai mai voluto essere una pop star famosa?

Sì, quando ero piccola, prima di scoprire il punk, quando studiavo canto lirico. Ora non potrebbe mai succedere, ma credo mi sia rimasto un po’ nel DNA. Da ragazzina amavo Britney, Christina e le Spice Girls, e sinceramente mi piacerebbe che delle ragazzine mi vedessero come io vedevo loro, anche se non ho la minima intenzione di dovere stare alle regole del gioco pop come facevano loro. Non è roba umana. Vivo un po’ questa strana dicotomia, e non potrei mai tollerare roba come il media training: evitare di rispondere in una maniera che ti faccia apparire vunerabile, per me, equivale a non essere se stessi. Che hai da dare alla gente se non sei te stessa?

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Quindi cosa daresti da ascoltare a una ragazzina di oggi per aprirle la mente?

Be’, ho appena fatto un mix per una mia cuginetta, dicendole “magari non sei ancora pronta per queste cose, visto che ascolti i One Direction, ma un giorno lo sarai”. Ci ho messo Bikini Kill, Bratmobile, Le Tigre, praticamente tutti i gruppi Riot Grrrrl, ma anche Björk, Kate Bush, e in generale un sacco di donne che ritenevo dei buoni modelli. Credo sia importante che le ragazze ascoltino cose del genere da piccole, in modo da crescere più informate e consapevoli.

Ho letto da qualche parte che hai sempre bisogno di contrasti per comporre musica, eppure Vashon è una specie di paradiso pacifico. Come hai fatto?

Era tranquillo, ma la pace non è mai totale. C’e sempre un elemento contemplativo, e uno riflessivo. Poi c’è qualcosa che la natura trasmette, un senso di libertà dato dall’idea di fare parte dalla macchina del mondo, che però ti fa sentire in ansia per quando dovrai abbandonarla e tornare alla civiltà. La dicotomia di appartenenza alla natura e a un mondo artificiale mi mette ansia, e questo è diventato il tema base dell’album, l’idea che l’uomo si senta naturalmente alieno al mondo, che voglia distruggerlo e rifarlo a sua immagine. Non è un disco ambientalista, però, ma solo una riflessione sulle motivazioni dietro tutto questo. In teoria non ci sarebbe mai stato nessun bisogno di costruirci un mondo nel mondo.

Ma pensi che abbiamo incasinato il pianeta in manieta irreparabile?

Sì. Per questo non è un album ambientalista: non penso ci sia più nulla da fare, soprattutto che non possiamo inibire i nostri desideri di conquista. Credo siano innati, anzi, e se continueremo a procreare, continueremo a farlo. È così, non si torna indietro. È probabile che tra qualche centinaio di migliaio di anni il pianeta sarà di nuovo in pace, ma senza di noi, magari grazie a un po’ di catastrofi naturali. Oggi siamo noi la catastrofe naturale, e il mondo si riprendera ma è strano fare parte del problema.