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Musica

Abbiamo fatto analizzare i testi dell'indie italiano a un professore di letteratura

Spoiler: gli è piaciuto Dente, pensa che I Cani siano un po' moralisti e che Vasco Brondi debba smetterla col turpiloquio.

Alcuni di noi sono cresciuti con gli Afterhours e Baustelle nei lettori cd, passando l’adolescenza a farsi un mazzo così per capire tutte le citazioni che i nostri poeti del disagio preferiti infilano nelle proprie canzoni. Altri hanno scoperto “l’indie” nel 2016 grazie a Spotify nella persona di Edoardo D’Erme, meglio conosciuto come Calcutta: per sentirsi diversi, ma tutti insieme. Questo decennio non ci sta lasciando citazioni colte, ma balletti (vi ricordate Lo Stato Sociale sulle note di "Quello che le Donne non Dicono"?), operazioni di marketing super riuscite (I Cani e l’esordio da incappucciati) e un filino (per non dire un carico) di banalità. Nonostante tutto, non riusciamo proprio a lasciare andare lo spettro dei mostri sacri De André-Battisti-Dalla-Tenco-aggiungere cantautore del secolo scorso a piacere, quindi ogni volta che un universitario fuoricorso imbraccia una chitarra e ci racconta di risse in centro a Bologna o di coppie scoppiate e social network tendiamo a dargli più peso di quello che si merita.

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Ci troviamo insomma nell'infelice condizione di non sapere più discernere il cantautore da uno status di Facebook adornato da tre o quattro accordi e una batteria elettronica, quindi ho pensato fosse utile chiedere aiuto al Professor Franco Tomasi, Docente di Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi di Padova. Lui, che non è stato avvelenato dalle speculazioni e dalle infinite discussioni tipo “I cantautori degli anni 2000, valgono effettivamente qualcosa?” mi saprà sicuramente aiutare. Partendo dall’analisi di testi che ormai sono inni generazionali (Calcutta, Le luci della centrale elettrica, I Cani, Dente, Lo Stato Sociale) ho provato a capire se effettivamente sono accettabili dei paragoni stilistici con la grande tradizione letterario-musicale italiana.

Calcutta - "Gaetano"

La struttura è abbastanza interessante dal punto di vista della narrazione: diciamo che la storia racconta qualcosa tramite questo gioco tra strofe e refrain che le collega logicamente con alcune micronarrazioni che si alternano in più momenti e sono il centro del racconto. Si tratta di una tecnica di accumulo molto interessante.
Abbastanza raffinato è il gioco di narrazione che non segue il metodo canonico (strofa/ritornello), usa riprese semplici, ritmiche e rime abbastanza felici come detto/ghetto, festa/pretesto, campo rom/YouPorn. Si vede che dietro al testo c’è un lavoro sul linguaggio molto intelligente, come nel caso di parentesi/paresi: per niente scontato.
Il linguaggio mi ha ricordato Samuele Bersani, che faceva uso di un meccanismo di poesia automatica. Disarticola il linguaggio comune per fargli dire qualcosa di diverso, tramite associazioni senza filo logico, mette insieme una sequenza di frasi che hanno un senso singolarmente, ma unite come strofa ne hanno un altro, che è un concetto che si rifà al surrealismo.

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Le luci della centrale elettrica - "La Lotta Armata al Bar"

In questo caso l’influenza del rap è molto più forte di quella del cantautorato, soprattutto nella sequenza delle parti scandite in fretta, di prosa recitata a voce alta. C’è la necessità di scandire, perché il ritmo del discorso è tenuto insieme dai giochi fonici e dalle rime come ieri/finanzieri. “Interessamenti, fatiscenti, inconcludenti” è una rete di parole che tiene in piedi questa proclamazione costante, questo urlo non ben armonizzato.
C’è un gioco linguistico consapevole nel rovesciamento di luoghi comuni (democristiani e comunisti) nella citazione di Tondelli. Alcuni tratti vanno per la tangente, per esempio non è chiaro il rapporto costante con un tu che emerge, il dialogo perde spesso il filo logico.
Qui azzardo un paragone con i Massimo Volume, che costituiscono un precedente importante per la tendenza declamatoria, narrativa, ritmata e serrata. I loro testi però avevano un’efficacia e una capacità di mimesi di pensieri non ordinari e allo stesso tempo riservavano più attenzione alla musica. Qui invece l’autore si perde, non è chiaro, il momento in cui interrompe il racconto per gridare "E COSA RACCONTEREMO AI FIGLI CHE NON AVREMO DI QUESTI CAZZO DI ANNI ZERO" è l’urlo che diventa il senso di tutto. Anche la musica, funge solo da tappeto sonoro. Alcuni versi sono ad effetto, ma viene meno la struttura generale, non c’è un’idea complessiva.
L’uso del turpiloquio, in questo caso, è una caduta di stile.

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I Cani - "Le Coppie"

Anche qui c’è un po’ una tendenza al moralismo, ma si salva veramente molto bene.
Ha una bella costruzione narrativa, riesce a fare un ritratto corrosivo del rapporto di coppia. Mi ricorda la narrativa minimalista, Raymond Carver su tutti, proprio per la costruzione di piccoli quadretti fatti di dettagli fotografici terribili ma efficaci. Crea una sensazione di desolazione, soprattutto nel ripetere questo “quasi mai”: è la dichiarazione che si tratta solo di finzioni.
Il meccanismo di pronomi personali è un’astrazione del rapporto sentimentale, proprio come nei racconti minimalisti, in cui i personaggi non hanno nome. Il testo è al vetriolo ma linguisticamente funziona, ha una sua coerenza. La voce del narratore si alterna ai due micro refrain che dialogano tra di loro e sono interessanti perché spersonalizzano l’io del narratore. C’è una costruzione molto razionale e funzionale del testo, non è presente un io ingombrante come nel testo precedente [Le Luci Della Centrale Elettrica, NdR], qui il narratore si trova dietro alla macchina fotografica e si limita a raccontare tramite immagini. Un paragone con il cantautorato? Battiato. Per la capacità di raccontare tramite piccoli flash.

Dente – "Beato Me"

L’autore è più raffinato, usa alcune citazioni, banalmente Gino Paoli “Questa stanza non ha più pareti” (che è la più riconoscibile) ma anche Dante “Fame senza fine”. Forse non è una citazione voluta, ma è così che Dante descriveva la brama di potere costante.
Il testo è ben costruito linguisticamente, c’è consapevolezza della metrica. Ha una taratura paradossale, divertente, si muove su un registro ironico e costruisce una storia. Attraverso le rime crea una filastrocca (poeti/pareti). Utilizza una struttura strofica precisa, consapevole, fa un uso non meccanico delle strutture formali, quali rime e pseudorime. Tutto sommato, è un testo ben congegnato.

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Lo Stato Sociale - "Abbiamo Vinto la Guerra"

Il testo è molto intelligente, ha forza narrativa, è costruito bene, diverte. L’inno alla libertà è molto stucchevole. La maglia di rime è composta da rime interne e giochi fonici interni ai versi: questo meccanismo costituisce, insieme ad alcuni elementi sintattici, la percezione di continuità, nonostante spesso i salti logici siano evidenti.
C’è una sfasatura tra tessuto sintattico e ritmico e struttura argomentativa del discorso, che spesso scarta. Si crede che l’intelaiatura logica del ritmo vada in una direzione, però poi non lo fa. Sono inseriti rime, nessi e connettivi logici della lingua parlata (ved. "siccome che"), ma semanticamente non c’è molta coerenza, c'è un salto logico. Sicuramente è un modo molto interessante di far procedere un racconto, quasi da prima avanguardia del ‘900. Le parole che creano concatenazioni, il senso narrativo a volte surreale, i collegamenti ben fatti, voluti. I riferimenti interni al testo sono tutti legati al tentativo di costruire una struttura coerente: il gioco di scalatura logica ministro- presidente- maggiordomo, è una scala gerarchica che rimanda ad un immaginario collettivo, la storia funziona, c’è un meccanismo di continuità e uno scarto a variare continuamente.
Il paragone potrebbe essere Rino Gaetano: lui creava filastrocche che in mezzo alle rime mescolavano elementi in modo fantasioso, ma anche una filastrocca funziona se ha una piccola gabbia ben costruita. La struttura di questo testo invece è molto mossa, funziona grazie ad un meccanismo di accumulazione, ad un continuo gioco ironico, alla catena di associazioni mentali. L’inventività linguistica si unisce alla dimensione ludica che permette al testo di scorrere in maniera più divertente.

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Passo poi a fargli ascoltare altri pezzi, ma non li trova altrettanto interessanti. Di "Bolognina Revolution" degli Amari dice "musica rap-pop senza lode e senza infamia, con una struttura piuttosto povera. Rime ripetitive, giochi linguistici, ma niente di particolarmente interessante."

Di "Come Reagire al Presente" dei Fast Animals and Slow Kids: "Piattume didascalico. È una rivendicazione del disagio. Manca anche il testo forte alla Vasco Brondi."

Poi commenta "Fine Dell'Estate" dei Thegiornalisti e "Ottobre come Settembre" de L'Orso: "testi ironici, però non c’è mai una scintilla. Sono pieni di riferimenti anni Ottanta, ma da chi degli anni Ottanta ha solo sentito parlare. Formalmente hanno un po’ di struttura, però è banale."

Grazie prof!

Gli chiedo infine le sue impressioni generali dopo quest'infornata di neo-cantuautori italiani, e mi risponde:

La prima cosa che ho notato è una certa disomogeneità: gli autori sono molto diversi tra loro, ma ad un primo impatto alcuni risultano più raffinati e completi, altri più banali, e la banalità ha due tendenze:
1. Post adolescenziale: certi testi si salvano solo per la componente ironica.
2. Moralistica, predicatoria: questo è curioso, soprattutto in una musica che si presenta come “alternativa”.

Gli domando infine se possano essere paragonati ai poeti italiani, o quantomeno ai grandi cantautori di altre epoche:

Non me la sento di dire di sì, i poeti hanno una consapevolezza linguistica e metrica molto più alta. Per quanto riguarda il cantautorato classico, la risposta è diversificata. Qualcosa di interessante c’è, ma bisogna fare attenzione alla consapevolezza linguistica e alla costruzione. Alcuni testi dimostrano grande ingenuità, impressionismo, poca consapevolezza dello strumento.
Sicuramente è difficile riprodurre la dimensione cantautorale di un tempo, la differenza sta tra chi si assume ingenuamente il ruolo di predicatore alternativo e condanna il mondo e chi usa l’ironia, che invece è strettamente legata alla consapevolezza, per esprimere idee graffianti.
Per Calcutta il problema è la dimensione didascalica, per Vasco Brondi la retorica molto noiosa, per tutti l’uso diffuso del turpiloquio, che abbassa il livello e ci riporta sempre ad una dimensione di ingenuità post adolescenziale, impressionistica. Si dovrebbe evitare l’appiattimento, ridare valore al linguaggio, produrre qualcosa che sia in grado di restituire un giudizio che va al di là del semplice mi piace/non mi piace.

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