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Musica

La ricerca di Sonic Boom non è mai finita

Abbiamo parlato con l'uomo dietro Spectrum ed Experimental Audio Research di matematica, synth e droga. Sta per arrivare in italia, meglio che vi prepariate.

Mi incazzo sempre quando si cerca di dividere le grandi coppie di sodali nemiciamici musicali secondo il classico schema Lennon-McCartney, quello per cui ci sarebbe sempre un grande estroso genio anarchico fuori dagli schemi accompaagnato da un maestro dell’artigianato pop con ambizioni più borghesi. Mi incazzo perché viene da una visione semplicistica e agiografica sia di Lennon che di McCartney, e su una serie di qualunquismi pop che francamente hanno proprio rotto. Però, ecco, essendo che gli Spacemen 3 erano in due, riesce un po’ difficile non inserirli in quello schema, se non altro perché oggi gli Spiritualized di Jason Pierce fanno pezzi che finiscono nelle pubblicità mentre Pete Kember AKA Sonic Boom continua il suo lavoro lontano da tutte le dinamiche del music biz, senza neanche cagarle abbastanza da attaccarle.

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Ma evitiamo di concentrarci su questa noioisa contrapposizione e parliamo di lui: chi conosce la sua produzione solista sa benissimo che quello che gli interessa è costruire una sorta di teoria universale che correli la matematica frattale alle possibilità di arricchire l’esperienza sensoriale umana, dentro le possibilità generative delle arti sonore. È un percorso che non si è mai preoccupato di portare avanti senza mettere a rischio persino la propria incolumità fisica, che lo ha accompagnato per quasi venticinque anni di dischi dall’esordio solista come Spectrum, che lo ha portato ad estremizzare ulteriormente i presupposti psichedelici e decostruzionisti che avevano determinato i passaggi più audaci degli Spacemen.

Ma il lato più assolutamente radicale del suo lavoro è contenuto tutto dentro la sigla EAR, Experimental Audio Research, un progetto che di volta in volta si è manifestato per mano unicamente sua o di uno squadrone di collaboratori che comprendeva Kevin Martin, Delia Derbyshire, Kevin Shields, Andrew Mellwig, Eddie Prévost e, soprattutto, Thomas Köner, co-autore del geniale The Koner Experiment, una incredibile incursione nella techno, che quasi quasi si avvicina ad esplorare a fondo tutto il potenziale psicofisico della cassa dritta.

Il lavoro di Peter è comunque proseguito a lungo in direzione di una ricerca ostinata allineata alla disciplina dello sballo. Però erano anni che non si sentiva parlare di EAR, quasi dieci, e il silenzio è stato rotto solo nel 2014 da un EP monotraccia intitolato programmaticamente All Things Being Equal. In più, ci sono due date Italiane in arrivo tra brevissimo: una il 16 aprile Milano, a Macao, presentata da COMMUNION e una a Roma il giorno successivo. Mi è sembrata una buona scusa per madargli una mail zeppa di domande.

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NOISEY: Anzitutto, da grande fan di EAR, voglio dirti che sono davvero lieto che tu abbia riattivato il progetto con un nuovo EP. Potresti spiegarci come mai lo avevi messo da parte per così tanto tempo e cosa ti ha spinto a riattivarlo?
Sonic Boom: Credo, almeno in parte, di procedere ciclicamente. Mi capita di abbandonare una cosa che sto facendo per lasciarla rinfrescare un po’. Negli anni Novanta ero stufo dei limiti imposti dalle chitarre e volevo prendermi del tempo per sperimentare ed esplorare strumenti diversi, vari tipi di tastiere e synth modulari. Volevo essere in grado di esplorare delle aree che ero in grado di immaginare e visualizzare mentalmente, ma avevo bisogno di esplorare le possibilità di una più ampia “orchestra” per metterle in atto. Quando poi sono tornato alle chitarre dopo quindici anni, mi sentivo positivamente rinfrescato, e mi sento allo stesso modo nei confronti della sintesi modulare ora che l’ho ripresa. L’approccio interdisciplinare mi ha procurato la gamma cromatica di suoni che cercavo disperatamente, per cui ora mi sento pronto ad assemblarli attraverso un nuovo sistema, organico ma interconnesso, un sistema in cui posso interfacciare i vari linguaggi di controllo (MIDI, CV), in una maniera organica ma controllabile. Non penso si possa mai rimpiazzare il modo in cui l’elemento umano di “scelta” e “composizione” contribuisce alla struttura del suono, ma credo che la possibilità di costruire un’interazione tra i suoni e dentro i suoni li porti a un livello più alto. Si tratta di enfatizzate la qualità plastiche, il movimento e le modulazioni di un suono, una meta-dimensione aggiuntiva al semplice songwriting.

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Nei primi tempi, Experimental Audio Research era una specie di laboratorio aperto, mentre in tutte le prove più recenti sei tu da solo. C’era forse qualcosa di intrinseco alla natura del progetto che necessitava di collaboratori esterni? Nel caso, com’è cambiata?
Viviamo in un mondo quantico, e io non presto molta attenzione ai motivi segnati dal mio comportamento, quanto piuttosto a quelli che posso sviluppare interagendo e comunicando con gli altri. Dalla mia prospettiva non c’è davvero molta differenza, tranne che dal vivo, ma non è mai stato affatto un mio obiettivo a lungo termine riuscire ad ammucchiare sul palco cinque e più persone che suonano insieme. Poi, vabé, è anche ovvio che oggi la realtà economica ti mette in una condizione per cui dividere gli introiti tra i membri di una band è un vero problema, e quasi tutti i musicisti si stanno adattando… Non si erano mai visti così tanti gruppi di due persone prima d’ora.
Tornando a EAR: come suggerisce il nome, si è sempre trattato di un progetto sperimentale a tutti i livelli, per cui non l’ho mai davvero concepito all’interno di un formato statico.

Ho sempre pensato che, mentre Spectrum era un progetto più adatto a riportare gli “Highs & Lows” dell’esperienza umana, EAR servisse a superarli, a creare un’esperienza che mettesse in discussione categorie estetiche come luce e tenebre, tempo e spazio. Insomma, una maniera di creare una contesti in cui “taking drugs to make music to take drugs to” andasse a toccare la vita della gente più nel profondo. Ti sei mai davvero posto questo come scopo?
Solo dal momento che credo profondamente che alcune esperienze con la droga, in particolare gli psichedelici più potenti come il DMT, contengono delle scorciatoie alla comprensione di alcuni dei principi base del nostro funzionamento, del funzionamento della nostra mente, di quali frequenze abbiano effetto su di noi, e perché. Per come la vedo io, in quello stato, ci si squama via l’ignoranza per un breve periodo di tempo e diventa ovvio che dentro questo universo incredibilmente sofisticato che percepiamo è all’opera qualcosa di fondamentale ed essenziale, ma allo stesso tempo fortemente complesso in termini di correlazione e influenza, all’interno delle quali riusciamo davvero a vedere cos’è che unisce tutte le azioni, gli oggetti e le sensazioni.
Certo, l’atto di “drogarsi” è un po’ una roba a cui puoi dare tutte le motivazioni che vuoi, ma le sostanze alteranti della coscienza che mi interessano sono solo una chiave, mentre quello che mi affascina sta oltre la porta. Credo che molte delle evoluzioni musicali, sociali e probabilmente anche di altro tipo, possano essere accelerate attraverso un uso serio e responsabile di queste sostanze. Io non sono mai stato in grado di distruggere le aspettative e il bagaglio conoscitivo che ci formiamo empiricamente durante le nostre vite, o di raggiungere improvvise epifanie quantiche in maniera altrettanto efficace che prendendole.

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Pensi che, come progetto, EAR faccia più musica per il corpo o per la mente? Pensi che una suddivisione del genere abbia senso? In che modo fare musica a dei volumi potenti e immersivi influenza queste dinamiche, secondo te?
Credo esista della musica più tendente al cerebrale che al fisico, ma credo che, in un senso più ampio, la nostra mente rivesta quasi sempre il ruolo principale dell’operazione. Motivo per cui immagino che la mia sia più che altro musica per la mente, ma provo anche a provocare degli effetti a livello fisico, soprattutto attraverso il volume. Noah Lennox usa il termine “trasportante”, e credo che, a livello ideale, questo coinvolga sia il corpo che la mente che l’anima.

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Hai dichiarato più volte che, più che la musica, a influenzare la tua creatività è stata la passione per stati certi suoni e rumori che sentiamo nella vita quotidiana. Hai cercato di riarrangiare questa sorta di poesia ambientale concreta dentro EAR?
Non in maniera cosciente, non sono mai stato molto sicuro di quale sia la mia destinazone, so solo che mi ci sto avvicinando…
Per me, il punto è canalizzare una vasta complessità di interazioni tra persone, luoghi, sentimenti, umori e possibilità. La manipolazione sonora mi stimola ancora molto, e mi piace parlarne tanto quanto mi piace praticarla, mi piace mescolare la pianificazione con la coscienza che, a volte, i il vento del fato soffia in una maniera più utile dell’aria che esce artificialmente dal tuo phon, e che devi cucirti le vele adatte a sfruttarlo. Mi piace esplorare le possibilità e poi notare in che modo possono essere organizzate in maniera utile a replicare quelle sensazioni nell’ascoltatore, creando qualcosa di davvero speciale.

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Quando ti è venuta l'idea di The Koner Experiment, era per un’interesse nella musica da club o più specificamente nelle possibilità ritmiche della techno? Ti interessi ancora di elettronica più beat-oriented?
Sì, certo, ma quell’album è davvero su un livello superiore, e il mio unico merito fu di invitare Koner a realizzarlo. Termini come “interazione ritmica” si dissolvono di fronte alla “organizzazione sonico-temporale” che ha architettato in quel disco. Mi interessa ancora molto al roba ritmica, ma mi sono reso conto di essere più bravo con la ricerca tonale che con quella ritmica, il che mi ha spinto più in quella direzione. Ad ogni modo, anche in Continuum e Vibrations comparivano elementi ritmici ipnotici.

Ecco, la techno si basa sullo sviluppo di poliritmie a partire da una scansione binaria, e tu in passato hai espresso spesso interesse per la natura matematica della musica. Come si inserisce questo nel tuo lavoro?
In molti modi, direi, soprattutto a livello subconscio. Sono più interessato nella magia della separazione tra suono e massa, che nella semplice possibilità di definire la musica matematicamente. Di solito vado a istinto, e uso la matematica per fugare i miei dubbi, quando ne ho. Delia Derbyshire era una vera maniaca della matematica, la sistematicità di numeri primi, sequenza di fibonacci, catene lineari e catene logaritmiche la mandava completamente in estasi. È una delle maniere in cui si può tracciare una mappa di quello che noi definiamo suono o musica, ed essere in grado di leggerla è decisamente stimolante. La scrittura delle sue composizioni è tra le più dettagliate che abbia mai visto. Entrambi lamentavamo la mancanza di un linguaggio musicale plastico che potesse definire le infinite sfumature e i dettagli microscopici ai quali negli spartiti si può giusto accennare.

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E come hai stabilito una relazione tra l’irrazionalità della psichedelia e la matematica?
Non sono d’accordo, non credo sia irrazionale. Sinceramente non capisco… Io vedo matematica ovunque, ma mai con la stessa evidenza di quella che noto osservando a livello microscopico. Analizzare la fisica e le modulazioni della realtà quotidiana mi ha sempre arricchito molto.

Ti sei mai posto dei limiti di possibilità sonore e strumenti da utilizzare?
A volte, e non è affatto una cattiva idea. Nel corso del tempo sono riuscito a collezionare un certo numero di macchine magiche che so come sfruttare all’occorenza, ma ci sono arrivato dopo dopo decenni di esplorazioni e ricerche.

Ad esempio, sei un noto amante delle ricchissime possibilità creative dell’EMS VCS 3. Lo usi ancora?
Ma certo, sempre. C’è un motivo per cui è ancora in produzione dal 1969, è uno strumento impareggiabile sia in fatto di creazione di suoni che di manipolazione, è elegantemente compatto ed è strutturato in modo da farti venire voglia di provare a farci cose su cui altri synth hanno la sicura. E un approccio che negli ultimi tempi e in molte nuove macchina si sta facendo meno raro, ma per decenni l’EMS è stato visto da tutti come una roba calata da un altro pianeta.

Quando lo hai provato la prima volta? Ci sono altri synth che pensi abbiano una architettura così semplice e complessa allo stesso momento?
Nei primi anni Novanta. Negli Ottanta avevo provato l’Hi-Fli, ma non mi era piaciuto, non mi andavano a genio le sue stranezze, ma quando ho provato il Synthi fu una completa folgorazione. In epoca pre-internet si trattava ancora di bestie rare, non giravano molte informazioni su queste cose. Credo comunque ci siano diversi synth modulari che stanno a loro modo sulla stessa linea. Ho un Fenix 1 e un Fenix 2, un Serge Modular e vari altri synth analogici e digitali.

C’è qualche nuovo artista o progetto nell’attuale panorama elettronico sperimentale che rispetti particolarmente?
Mi capita continuamente di ascoltare roba nuova molto bella. Flying Lotus è un artista che stimo molto. Anche Panda Bear, per quanto lavori in un formato piuttosto pop, fa uso di molte tecniche decisamente sperimentali. Sono in molti a fare bei lavori nel panorama elettronico di oggi, mi fa sempre piacere venire indirizzato verso roba nuova e interessante…

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