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Musica

Il viaggio silenzioso di Shackleton

Un percorso tra apocalissi e speranze

Ho provato due volte a intervistare Shackleton, senza mai riuscirsci. La prima in occasione di una sua venuta a Milano, circa un anno mezzo fa: rifiutò, mi fu detto, perché aveva qualche problema con VICE e con il suo modo di fare informazione. Incassai la delusione ma non volevo darmi per vinto, convinto soprattutto di avere molto da chiedergli e molto di cui discutere con lui. La seconda volta che ci ho provato è stato per promuovere un’altra sua calata da queste parti, per NeXTones. Stavolta mi fu copiaincollata direttamente la sua mail, in cui diceva di non prenderla sul personale ma aveva da qualche tempo deciso di accannarla completamente con le interviste, dato che non gli interessava per nulla fare ulteriore pubblicità.

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Quello secondo cui uno che decide di “far parlare solo la musica” sarebbe un genio, un puro che non scende a compromessi, è un cliché che solitamente mi sta molto sulle balle, perché contiene sempre un fondo di completa ipocrisia. Anzitutto: il non-rapporto coi media è comunque una forma di rapporto con questi ultimi, la creazione di una relazione basata sul silenzio e sull’interrogativo non risolto, insomma su un personaggio misterioso che, pure se è figlio di un atteggiamento spontaneo, esiste in quanto tale. Non ci trovo niente di male (anzi, lo considero qualcosa che arricchisce l'esperienza artistica), in fondo, nel voler creare uno spazio intorno alla propria musica, un vuoto in cui gli ascoltatori possano farsi delle domande e darsi o meno delle risposte, possano lavorare di fantasia secondo il loro interesse a partire dalle suggestioni che gli hai dato. E, certo, non gliele dai solo col suono che esce dai tuoi dischi, se pure consegnassi alle stampe una roba senza artwork, senza titoli né nomi, quella stessa mancanza sarebbe comunque il significante di un discorso. Non si scappa.

Questo per dire tutto quello che avrei da rimproverargli, che non è malafede quanto semmai un tantino di miopia da parte sua. Il senso di “mistero” del resto, funziona a dovere come elemento di gioco proprio perché è perfettamente integrale a quello che produce. L’argomento su cui avrei voluto conversare con lui, infatti, è soprattutto la genesi di Music For The Quiet Hour, ma a posteriori mi rendo conto di quanto probabile fosse che Sam stesso non avesse granché da raccontare sull’argomento, riuscendo al limite a spiegarmi quanto e quando era stato in studio a fare interagire alchemicamente i suoni. Da lì in poi, infatit, la sua produzione ha iniziato a mettersi in posizioni davvero uniche: è da lì che la musica di Sam Shackleton ha iniziato a essere complessa in una maniera che sfugge alle parole, tutta giocata sulla non-consapevolezza di chi ascolta, e su un flusso di energie che riesce a sembrare l’introiettamento inconscio di una disciplina complicatissima. Attraverso questo cambiamento, Sam ha perfezionato la sua ricerca di un senso di paura più autentico di quello ottenuto con gli input più ovvi, e che, allo stesso tempo, suonasse “necessario”, qualcosa che va affrontato perché mette al corrente della realtà dentro la realtà, dei mattoncini che costituiscono la percezione.

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Anche gli esotismi, le percussioni a mano e, in generale, campioni che ricordano strumenti non occidentali o non contemporaneo, hanno una funzione che è l’esatto contrario di quella che avrebbero se fossero stati spiattellati lì tipo “tié, senti che primitivismo”, proprio perché vengono presi alla lontana e, più che loro stessi, nei dischi di Shackleton entrano i loro spettri, dei simulacri svuotati dell’energia originale e riempiti di una nuova ancora non codificata. È stato lui stesso a spiegare come, ad esempio, l’organo gli sia sembrato fondamentale per stabilire una condizione di intercambiabilità tra passato e futuro: “It always makes me laugh, as if sub-bass was some kind of modern thing. When I was in the church and listening to this organ recital, I was thinking, 'You know what, if you came from the sticks, and you came to the big city for the first time in your life, before people had real means of powered transportation … must have been mindblowing’." Prima di lui c’era riuscito giusto l’Anti Group con quel capolavoro di Digitaria (se non lo conoscete correte immediatamente ai ripari) e, vabbé, i Coil dei due Musick To Play In The Dark, anche se lì il trattamento di sacrificio erotico rituale non era riservato ai suoni dell’altro emisfero, piuttosto all’idea stessa di musica (qualcosa in cui è ancora più difficile addentrarsi, e che per ora lasceremo stare). Poi ci sono le parole di Vengeance Tenfold, che quando può appare ad aggiungere dubbi come già aveva fatto in “Death Is Not Final”, come se stesse addestrando la coscienza a trovare una strada nell’universo illogico che sta per arrivare, un dolorosissimo corso di orientamento la cui prima lezione consiste nel dimenticare come funziona il linguaggio. Il cinismo, la calma crudele del suo tono di voce sono la dimostrazione della sua verità.

Ed è proprio questo il punto: se Music For The Quiet Hour era il meraviglioso shock di una rivelazione che si portava via tutto il mondo facendo più di un morto, quanto è venuto dopo sembra proprio volere fare da guida psicogeografica al cambiamento. Prima Freezing Opening Thawing, di qualche mese fa, poi Deliverance Series No. 1 (dal numero mi pare di capire che ne arriveranno altri molto presto), apparso ieri a sorpresa, entrambi già sentiti parecchio nei live set degli ultimi due anni ed entrambi che armeggiano di nuovo con la luce oscura di cui era fatto l’album per (fare finta di) riconvertirla al dancefloor, martellando con un groove ostinato sempre più teso. Tre tracce quello e due questo, con suoni e atmosfere talmente simili da sembrare remix di una stessa traccia-madre, ma nessun senso di riciclo, almeno finché non sarà possibile elaborare una reazione al suo nuovo groove occulto.

House music specchiata nell’ossidiana e ri-specchiata nell’oro.

In fin dei conti capisco bene la sua quiete ordinaria, che più di ogni cosa sembra un bisogno di concentrazione, in un momento in cui ha catturato qualcosa di troppo prezioso per un artista, un sistema di idee che non deve assolutamente lasciarsi sfuggire. È probabile che, quando questo passo sarà compiuto, Sam morirà dalla voglia di raccontarci cosa è successo mentre lo completava, ma è altrettanto probabile che non succeda mai. Personalmente spero più nella seconda.

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