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Musica

Riappropriarsi del folklore italiano è possibile?

Che cosa c'è alla base dell'italianità in musica? L'abbiamo chiesto a un etnomusicologo.
Sonia Garcia
Milan, IT

Affresco etrusco nella Tomba dei Leopardi.

Sono nata in Italia da genitori peruviani, ma non mi ritengo né italiana né peruviana al 100 percento. Ne sono felice perché posso affermare una coesistenza in me di entrambe le realtà, e con questa anti-coscienza mi trovo proprio bene. Aldilà dell’insignificanza concreta di sentirsi nazionalisticamente legati a un territorio, chiunque si trovi a vivere in un posto e riversarci energie nel quotidiano non può fare a meno di sentirsi “parte” di qualcosa di vivo, alimentato da una coscienza/non-coscienza tentacolare, motrice tanto di dubbi quanto di certezze. A fruire di queste ultime è chi crede ciecamente nel binomio patria = valore, mentre tutti gli altri oscillano tra la metabolizzazione acritica e la presa di distanza critica. Perché nel macrocosmo occidentale qualcosa sia universalmente accettato come espressione culturale di un luogo o popolo, infatti, bisogna che risponda al giudizio di un’altra cultura ben più ampia e globalizzata. Con tutte le conseguenze del caso.

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Si può rivendicare l’italianità di un piatto di pasta, per esempio, e il procedimento attraverso cui questa identificazione avviene è molto chiaro. Quando però riconosciamo un classico della canzone italiana in radio, l’identificazione avviene non tanto con il genere musicale, la forma dialettica del testo o la struttura della melodia, ma con una serie di corrispondenze basate sulla lingua italiana e l’immaginario pop commerciale affermatosi nell’ultimo secolo. Immaginario che a pensarci bene non ha alcun nesso con alcuna forma di tradizione popolare. Da dove attinge quindi ciò che viene tipicamente e visceralmente assimilato come “italiano”, in musica?

La musica leggera italiana ha ben poco a che fare con l’ecosistema musicale di cui ha storicamente goduto, e gode, l’intera penisola. Si rifà più a suggestioni angloamericane figlie di dinamiche di mercato standardizzanti e di profitto; il folklore italiano era ed è ben altro. Non sto dicendo che la memoria ne è andata perduta: Mannarino, Vinicio Capossela, ma pure De André o De Gregori ne sono validi esempi. Eppure la loro riproduzione avviene in forme statiche, immobili sia per struttura che per inventiva alla conformazione originaria, difficilmente appetibile per chi è in cerca di aria fresca. Non esiste margine di sperimentazione, che per esempio è peculiare di certe branche della musica elettronica; piuttosto hanno un appeal ben maggiore sonorità “esotiche” quali i ritmi africani, asiatici o sudamericani.

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“Non è che manchi l’interesse verso le forme di folklore,” mi spiega per telefono Nicola Scaldaferri, etnomusicologo e professore all’Università Statale di Milano. “Alcune forme di produzioni attingono a ispirazioni che non sono quelle nostrane, questo è molto ovvio. Innanzitutto per la capacità di fascinazione, ma anche dal punto di vista dei meccanismi ritmici, si ha di fronte qualcosa di molto più elaborato rispetto a quella che può essere la tradizione folklorica italiana o europea.”

“Anche Messiaen, ad esempio, si interessava di musica indiana,” riprende il professore, “era più interessante ai fini della sperimentazione.” Perciò, una spiegazione razionale e tecnica al fenomeno esiste. In buona sostanza canti e melodie tradizionali di popoli a noi “distanti” hanno dalla loro tutta una gamma di ritmiche e utilizzo di voci lontani da ciò a cui siamo abituati—e che giustificano l’entusiasmo.

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Sempre secondo il professore, un suonatore di tabla, o chiunque conosca un minimo la ritmica indiana, sarà in grado di mettere in pratica un discorso molto più complesso e sofisticato dal punto di vista concettuale e tecnico di uno strumentista occidentale. Il solfeggio è più fornito del nostro, e fornisce stimoli più forti anche dal punto di vista di un gioco creativo. Ma per anni non c’è stato alcun interesse per le ritmiche folkloriche italiane, anche se “l’Italia è uno dei paesi più ricchi in questo senso a livello planetario.”

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Le cose oggi stanno un po’ cambiando, anche sulla scia di una serie di operazioni editoriali importanti. “Sono stati indetti concorsi per cantautori, tra cui uno sponsorizzato dalla regione Calabria, per il recupero del modulo dei cantastorie tradizionali. Negli ultimi dieci anni c’è stato un fiorire di pubblicazioni, soprattutto dischi, cd e materiale online.” Eppure l’impressione è sempre di avere a che fare con un genere immutabile, poco disposto a trasfigurarsi in forme spurie, che rimettano in gioco il ruolo stesso del folklore musicale nella storia del paese.

Processi di riappropriazione stanno invece rivitalizzando l’elettronica di parti del mondo in cui tutto è spersonalizzato, dall’industria musicale allo stile di vita, dal cibo alla moda, alimentando i complessi di inferiorità comuni alle società non prettamente occidentali, il cui unico riferimento è l’Occidente. Messico, Sudafrica, Argentina, e molti altri paesi stanno reintegrando nel panorama musicale elementi di esplicito rimando alla tradizione folkloristica. Che il fine sia trovare una nuova chiave di lettura della stessa tradizione, o proiettarne gli elementi in realtà deterritorializzate, poco importa. L’ingranaggio funziona, e i risultati sono forse più interessanti dei punti di partenza.

Alla luce di questo, a farmi specie è proprio il fatto che intenti del genere solo in rarissimi casi vengano messi in pratica in Italia, in termini di produzione musicale e di fruizione da parte del pubblico. Basti pensare alla passività, se non goliardia, con cui si accetta che noi abbiamo un folklore, o alla scelta comune di rifarsi a corredi musicali di culture “altre” dalla nostra.

Rimane però il dubbio: la taranta si reincarnerà mai in qualcosa di attuale e al contempo fedele alla sua storia, ampliando quindi il suo bacino di utenza, o è destinata a starsene confinata nel loculo creato da e per gli stessi amanti della taranta? Le sorti non solo dell’industria musicale ma delle nostre stesse coscienze sono nelle mani di chi si prenderà la responsabilità di rispondere.

Quetso articolo è uscito sull'ultimo numero di VICE magazine.