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Musica

Refused: inni pop per la rivoluzione

Per un gruppo come i Refused, tornare dopo vent'anni è un azzardo, per questo siamo andati a Las Vegas a fargli una lunga, lunghissima intervista.

Non mi sembra vero.

Sono seduto in fondo al tour bus dei Refused–non un furgone, bada bene, ma un bus ultralusso da 15 metri, un mostro enorme di comfort su ruote. Monta due TV Sony con DirectTV, una doccia, un angolo cottura, wi-fi e imbottiture in pelle. I musicisti stanno tutti dormendo nelle loro cuccette, stremati dopo un viaggio di ventisei ore dall’Europa. Io non dormo, io sfoglio il mio bloc notes pieno di domande da rivolgere loro nei prossimi giorni. Quasi vent’anni fa, questo gruppo punk svedese dichiarò esplicitamente che questo non sarebbe successo.

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“Non suoneremo mai più insieme e non cercheremo mai di glorificare o celebrare il nostro passato”, scrissero nel loro caustico manifesto finale chiamato “Refused Are Fucking Dead” come l’omonima canzone che fecero uscire poco dopo la loro spettacolare implosione. Un punto in particolare spiccava, scritto in maiuscolo: “NON CONCEDEREMO INTERVISTE A STUPIDI GIORNALISTI”. C’era anche un’altra riga in maiuscolo: “DI CONSEGUENZA CHIEDIAMO A OGNI GIORNALE DI BRUCIARE OGNI FOTO DEI REFUSED”. Eppure eccoci qua: i Refused di nuovo insieme dopo diciassette anni di silenzio, sul punto di iniziare un tour di tredici date negli Stati Uniti per promuovere il loro nuovo album Freedom; e io, un giornalista di dubbia intelligenza, a seguirli. Mentirei se dicessi che non ci fosse una piccola parte di me che pensava che fosse un depistaggio, un trucco da parte di questi noti anarchici per abbandonarmi in mezzo al deserto del Nevada. Sono tormentato da incubi in cui vedo il bus partire sgommando, lasciandomi lì sul ciglio della strada, nella polvere, sgomento. “Aboliamo la stampa!” mi urlano ridendo, mentre mi mostrano il medio dal finestrino. “E lunga vita ai Refused!”

E magari lo faranno, una volta che si saranno svegliati. Non posso dire che la loro reputazione li precede perché non sono ben sicuro di quale sia la loro reputazione, per l’esattezza. Ci sono due versioni dei Refused, a seconda di chi te ne parla. Una versione li celebra come eroi, i profeti punk di Umeå che presero il cadavere putrescente di un genere in decomposizione e lo riportarono in vita. Pionieri che crearono una scena underground nella loro piccola città praticamente da soli, e a partire da lì appiccarono fuoco al resto del mondo. E alla fine si trasformarono in martiri che caddero sulle loro spade per la causa della controcultura, il modello infallibile su cui si basa tutta la moderna musica impegnata.

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L’altra versione li vuole traditori: gli stronzi venduti svedesi che predicavano contro il capitalismo e ora tornano a godere dei suoi frutti. Sono gli ipocriti che hanno passato gran parte degli anni Novanta a rompere i coglioni all’intera scena hardcore con i loro proclami politici e poi hanno venduto la loro musica perché fosse usata nei film della grande distribuzione, in TV e nei videogame, accettando infine un’offerta da mezzo milione di dollari per suonare al Coachella nel 2012, l’unità di misura dell’ironia fra le band che hanno deciso di battere cassa durante in questi anni di reunion.

Chiunque siano, viaggiano con me sulla Route 15, tra i tralicci sulle alture senz’anima dello spoglio deserto di Las Vegas, guardando dal finestrino i cartelloni di comici ormai vecchi e sosia di Elvis che non gli somigliano affatto, pubblicità di night club e casinò malfamati. A Sin City, una città dove i vizi vengono a cercarti, dove gli ottimisti vengono da grandi città e paesini per rischiare tutto quello che hanno, i Refused giocano la scommessa più grande: il futuro della loro leggenda. Gli svedesi stanno arrivando, con gli occhi blu e il jet lag, guidando a rotta di collo in una tomba d’acciaio che va a gasolio e caffè di Starbucks. È il 2015 e, vi piaccia o no, "Refused are fucking alive", i Refused sono vivi, cazzo.

E ora che si fa?

Verso le 21:15, un fulmine lacera il cielo buio e infestato di Las Vegas, i Murder City Devils, un altro gruppo che si sta godendo i frutti di una ricca seconda vita post-scioglimento, è sul palco davanti a quello che rimane del pubblico del Punk Rock Bowling, un festival punk annuale che si tiene in un parcheggio a due isolati dai casinò di Freemont Street.

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Dopo pochi secondi dell’intro di “Midnight Service at the Mutter Museum” va via la corrente. Sul festival, in un attimo, cadono il buio e il silenzio, almeno finché il pubblico non comincia a lamentarsi. Un componente dello staff ha il compito poco invidiabile di salire sul palco e prendere il microfono. “Dobbiamo solo aspettare che passino i fulmini”, spiega al pubblico. Le lamentele aumentano. Mi sembra anche di aver sentito qualcuno mandarlo affanculo.

Il cielo ora si sta aprendo e sembra voler dare una bella lavata alla città. Torno alla tenda-camerino dei Refused, e sento le gocce diventare sempre più pesanti e fare più rumore quando colpiscono il cemento nella quiete irreale di questo festival. L’odore, be’, è quello che puoi aspettarti da settemila punk bagnati. I membri dei Refused stanno seduti sui divani a scaldarsi mentre spiego loro quello che è successo. “Se viene la tempesta sarà una vera merda”, dice Daivd Sandström tamburellando su un pad che tiene sulle ginocchia per sciogliersi i gomiti, come è d’uopo per i batteristi di una certa età prima di un concerto. David ha un debole per i cappelli Panama che evidenziano la sua barba e gli occhiali dalla montatura spessa. Ha la parola “Gods” tatuata in corsivo sul collo, a destra, e la parola “Punks” a sinistra.

Entra Robin, la tour manager. È alta e bionda e di un’efficienza terrificante. Se non migliora entro trenta minuti, dichiara, il festival sarà costretto ad annullare il set delle 22, quello degli headliner, i Refused. “Spostiamo il concerto al casinò?” scherza. David smette di allenarsi e la guarda serissimo: “Sì.” “Scherzavo”, dice Robin, rendendosi conto mentre pronuncia queste parole che da qualche parte, in qualche modo un concerto dei Refused si terrà questa sera, per cui sarà meglio che ci lavori su. La tenda si apre un’altra volta ed entra Brett Gurewitz, il proprietario dell’etichetta indipendente che li produce da sempre, Epitaph Records. Indossa una giacca sportiva sopra una t-shirt dei Ramones. “Non piove da mesi”, dice, lasciandosi cadere sul divano insieme agli altri. “Che cazzo di probabilità ci erano?”

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Finalmente, dopo aver atteso nel backstage per quasi un’ora che fulmini e saette si diradassero, alle 22:48 luci abbaglianti illuminano il palco e la band si lancia in una nuova canzone, “Elektra”. Visto che è un concerto punk nel 2015, uno sciame di smartphone si alza a immortalare il momento. “Nothing has changed!” urla Dennis Lyxzén nel ritornello, ma guardando il mare di schermi illuminati, non posso non pensare il contrario. Tenendolo per il cavo, gioca con il microfono come fosse uno yo-yo, poi lo lancia dritto verso l’alto. Sembra fluttuare per un attimo sopra di lui e poi riparte velocemente verso terra. Invece di riprenderlo, lui apre le braccia, petto in fuori, e lascia che il microfono lo colpisca sullo sterno.

Dennis è pieno di energia e sembra non tenere mai entrambi i piedi per terra. Proietta un’aggressività giocosa, sembra controllare il pubblico con il sorriso più che con il pugno–il che è molto atipico in un frontman hardcore, di solito associati a una violenza da macho. Ha la stessa presenza scenica di un illusionista, muove le mani in continuazione tranne quando sottolinea un riff di chitarra o un fill di batteria con una specie di ta-da!, come se si trattasse di un trucco di magia. David descrive le sue movenze come un “misto tra un torero e un ballerino classico”. Mish Way, il cui gruppo White Lung ha il compito di aprire i concerti del tour sulla West Coast, lo ha paragonato a “un performer a metà tra James Brown e uno spogliarellista”. Non si sbaglia di molto. Dennis, nella sua cameretta, teneva un’asta da microfono e dei video di James Brown e nel tempo libero era solito esercitarsi imitando le movenze sensuali del Padrino del Soul. Più avanti nel tour, dopo un concerto che si lascerà alle spalle un palco con un tanga di Hello Kitty sopra, nel backstage trovo Dennis e David che ridono di qualcosa in svedese. Vedendomi far finta di capire, David pensa un attimo alla traduzione e poi mi spiega: “Dice che… dice che ha fatto sesso con il pubblico.”

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Per un’ora, i Refused suonano le hit per il pubblico di Las Vegas, includendo altri due pezzi nuovi. Devono stare attenti a non far finire troppi pezzi del nuovo album su YouTube, uno dei nuovi nemici dei Refused nell’era digitale. “Sapete che quando siete giovani finite per dire stronzate che vi perseguitano per il resto della vita, giusto?” Dennis domanda al pubblico gioioso e umido. “Il problema di questa reunion è che sarà proprio così. La gente ci urlerà “Refused are fucking alive!” Be’, sapete cosa? Adesso suoniamo un pezzo negandolo completamente allo stesso tempo. Ricominciamo da capo, cazzo.” E parte “Refused Are Fucking Dead”.

Mentre gli ampli ancora diffondono le ultime note dell’ultimo pezzo, Dennis raggiunge il bordo del palco. Si bacia le punte delle dita che formano il simbolo della pace, alza il braccio per un momento, e sorride. Gronda sudore eppure la sua camicia rimane miracolosamente infilata nei pantaloni. Mentre il pubblico si disperde, vedo un superfan con una maglietta così consumata che si legge solo RE USED. Un omone dall’imponente barba grigia mi passa di fianco con una birra in una mano e la sua signora nell’altra. “Mah”, dice rivolgendosi a quest’ultima, “continuo a non capirli”.

A parte il suicidio del cantante o un incidente con il furgone che li riducesse in cenere, i Refused non potevano scegliere un modo più poetico per porre fine alla loro esistenza. Proprio a metà del loro ultimo concerto, in un seminterrato molto poco memorabile in una città della Virginia molto poco alla moda, la polizia, ossia l’arcinemica più nota del punk rock, entrò e sbatté fuori tutti, rovinando la serata ad un pubblico già di cattivo umore. La band scrisse una lettera di suicidio sotto forma di manifesto e ogni componente prese la propria strada.

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Questo successe nel 1998, sette anni e dodici bassisti dopo l’inizio della loro carriera, subito dopo aver pubblicato il terzo disco The Shape of Punk to Come, che poi finì per essere considerato il loro capolavoro. L’album segnò una rivoluzione nell’hardcore diretto che suonavano dalla loro formazione nel 1991, quando erano solo dei teenager nella loro piccola cittadina svedese. Sono cresciuti durante gli anni Ottanta di Reagan, quando prosperavano gruppi combattivi e politicizzati come Dead Kennedys, Minor Threat, D.O.A. e tante altre. I Refused mantennero viva quella fiamma negli anni Novanta, un periodo in cui questo genere fu addomesticato dalle migliori condizioni economiche, dalla maggiore attenzione da parte del mercato e dalla maggiore visibilità su MTV e nelle catene di negozi di dischi. The Shape of Punk to Come stava al centro del punk moderno, includendo tutti i sottogeneri in un pacchetto frammentario ma ordinato. Ci puoi trovare interludi jazz, monologhi contro il capitalismo, arie funeree di archi, il suono di una radio che passa di stazione in stazione. Un patchwork catartico di idee e suoni che si fondono alla perfezione. “Un fattore importante mentre facevamo Shape è stata la decisione che sarebbe stato l’ultimo”, mi disse il chitarrista Kristofer Steen. “Anche se non ne parlammo al momento, ci fu senza dubbio una certa urgenza.”

Per ragioni sconosciute, solo quattro mesi dopo, la band venne negli Stati Uniti per un tour autunnale di sei settimane con il gruppo hardcore di Washington Frodus. Quando toccarono terra sul suolo americano, i Refused erano già morti viventi. “Non sarebbero mai dovuti venire”, ricorda il batterista dei Frodus Jason Hamacher. “Non avevano la testa per farlo. Esempio: Jon si presentò senza strumenti. Niente chitarra, niente ampli, niente di niente. E non avvertì nessuno. Era finita.” Si decisero ad Atlanta: I Refused si sarebbero sciolti. Concordarono di portare a termine le otto date seguenti e poi di tornare in Svezia da Washington, DC. Dopo i primi momenti di rabbia, frustrazione e tristezza, comparse un senso di sollievo, un peso che era stato sollevato. La nuvola nera se ne era andata, e la band poteva almeno godersi il suo funerale.

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Quando arrivarono a Harrisonburg, Virginia, dove era previsto che suonassero il sei ottobre in un seminterrato, si era ormai sparsa la voce che quello sarebbe stato l’ultimo concerto dei Refused. Accorse gente anche da molto lontano a portare i propri rispetti, e alla fine la stanza si riempì di circa settantacinque persone, così strette da non aver alcuno spazio per muoversi. “Vorrei poter dire che quella sera c’era qualcosa di speciale nell’aria”, dice David a Kristofer in un documentario sulla fine della band pubblicato anni dopo. “Ma non ricordo nulla a parte l’occhiata tra me e te prima di iniziare a suonare”. La telecamera strinse sul viso di Kristofer mentre suonava la chitarra, sulla sua fronte corrugata che comunicava uno sguardo vuoto e confuso.

“Fu un’occhiata strana che dubito ci si possa scambiare molte volte nella vita. Non avevamo niente da offrire l’uno all’altro, nessun conforto.” Dopo due canzoni, gli agenti della polizia di Harrisonburg si sono presentati a casa minacciando di interrompere lo show. Resisi conto che il loro tempo sulla Terra stava per terminare, i Refused diedero inizio al loro canto del cigno, l’ultimo atto di ribellione. Il pavimento cominciò a vibrare a causa dell’inconfondibile rombo di chitarra che introduce la hit “Rather Be Dead”. Fu il caos. Crowdsurfing fra teste e soffitto. Chitarre brandite come asce. Pugni e calci volanti da ogni direzione. Dal centro di una pila di corpi, Dennis sbraitava parole che in quel momento trovarono una nuova prescienza:

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Rather be dead than alive by your oppression.
Rather be dead than alive by your design.

[“Meglio essere morto che vivere oppresso da voi
Meglio essere morto che vivere secondo i vostri piani.”]

Ma prima che potessero finire la canzone, andò via la corrente. “Gli sbirri staccarono letteralmente la spina dal muro”, ricorda Matthew Strugar, che viveva in quella casa in South High Street a quel tempo. “Staccarono semplicemente la ciabatta”. Lui e alcuni altri furono arrestati. La luce delle torce degli agenti riempì la stanza. Il pubblico si fece ostile e circondò gli sbirri, protestando. Ma i membri dei Refused si lasciarono sfuggire un sospiro di sollievo. Per loro, le luci erano quelle del cielo che si apriva; gli angeli in uniforme erano giunti per guidarli verso casa. Kristofer si girò e si trovò davanti un poliziotto che pretendeva la sua carta d’identità. Gliela diede e non la rivide mai più, come se i membri del gruppo avessero abbandonato le proprie identità proprio lì, in quello scantinato. Nel frattempo, il pubblico si scaldò ancora di più. “Rather be alive!” scandivano in coro. “Rather be alive!” Sempre più forte. “Rather. Be. Alive!” E questa fu la fine dei Refused.

Mi sembra ironicamente appropriato che “Born in the USA” di Bruce Springsteen risuoni dalla filodiffusione di questo ristorante mentre Kristofer e David mi raccontano il tour americano che decretò la fine dei Refused. David, che normalmente è affabile e il più loquace del gruppo, si trova stranamente senza parole. “È un po’ difficile parlare di questa roba. Ma… fu orribile. Per me. Per entrambi.”

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Lui e Kristofer siedono l’uno di fronte all’altro. Kristofer è quello dal look più modesto, capelli corti e t-shirt a tinta unita. È tranquillo ma ha uno humour tagliente, quel tipo di persona che fa la battuta più intelligente, ma tu la senti a malapena perché la dice sussurrando. “C’erano un sacco di brutte vibrazioni”, dice David. “Un sacco di passivo-aggressività. Un sacco di scenate. A volte, quando penso a queste cose, è molto semplice per me. Ero semplicemente depresso. Non sentivo niente. Ero in un punto molto brutto della mia vita.” Aveva 23 anni. “Mi sono praticamente chiuso, spento. Sono scomparso. Credo fossero solo problemi personali.” Kristofer lo interrompe. “‘Problemi personali’ forse è un po’ poco, tutto considerato.” “Considerato cosa?” chiedo io. “Ci fu una situazione specifica?” Kristofer sorride amaro. “C’era sicuramente una situazione specifica.”

“Lui e io avevamo…” David si blocca, e interroga con gli occhi Kristofer per un attimo, come per chiedere il permesso di continuare. Lo ottiene. “Avevamo più o meno una storia con la stessa donna.” Restiamo in silenzio guardando il nostro cibo. Per me che, come molti, ho sempre visto i Refused come una forza enigmatica e idealista, questa rivelazione li umanizza moltissimo. Per la prima volta non li vedo come membri di un culto anarchico oscuro, di un’elite dal Circolo Polare Artico, ma come due persone sedute allo stesso tavolo in California, a mangiare un sandwich di pollo fritto chiamato Hot Mother Clucker. Mi torna in mente quello che mi disse Dennis: “I Refused sono due cose: un’entità e un’idea. La gente assegna un enorme valore a noi e a quello in cui dovremmo credere. Dall’altra parte, però, i Refused sono solo quattro persone che suonano.”

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“Ci avvelenò per davvero”, prosegue David. “Rese l’atmosfera tossica. Fece male a tutti, sul serio, l’intero impatto della band. Fu una vera rovina.” “Dennis soffrì più di tutti perché lui voleva continuare”, ricorda Kristofer riguardo alla rottura. “Ce l’aveva molto a cuore.” “Nessuno di noi faceva altro”, dice David. “Era tutto quello che avevamo. È evidente quando ascolti il disco–è fatto da gente completamente immersa. E quando sei così giovane, quando hai ventidue anni e fai questo tipo di cose, è ovvio che il resto della tua vita debba sopportarne il peso. Non puoi essere un ventiduenne bilanciato e ragionevole e registrare un disco come quello. Non ha proprio senso. Io mi sono schiantato. Solo adesso comincio a sentirmi come se ne valesse la pena.”

“Mi intristisce parlarne. Ora stiamo benissimo”, dice, guardando Kristofer. “Ci siamo resi conto che eravamo diversi. Molti dei problemi che abbiamo avuto, oggi, li risolveremmo con un paio di discussioni, e rimetteremmo tutto a posto.” Recentemente hanno avuto un’altra conversazione imbarazzante, ed è stata con il loro ex-chitarrista Jon. “Jon era quello che…” cercano entrambi di metterla giù in modo diplomatico, “Era problematico”. Jon, che faceva parte del gruppo dal 1994, prese parte alla fase iniziale della reunion nel 2012 ma fu licenziato prima di iniziare il lavoro su Freedom. Quando l’ho contattato per una dichiarazione, Jon ha risposto testualmente: “Non ho alcun interesse a prendere parte in ogni cosa che abbia a che fare con quegli stronzi. Grazie comunque dell’offerta.” Ci vogliono quasi dieci minuti e tre diversi giri del cameriere per dividere il nostro conto di trentasei dollari. “Non siamo abituati a fare soldi. Non ce ne intendiamo molto”, ammette David. “Ho iniziato a mettere i soldi in un fondo pensione solo quest’anno. Ho quarant’anni.”

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“They say that classics never go out of style… but they do, they do.” Così dice l’iconica introduzione a The Shape of Punk to Come recitata su un tappeto di rumori di automobili. L’album dava un senso radicale di immediatezza fin dal primo verso: “I’ve got a bone to pick with capitalism, and a few to break” (“Ho un conto in sospeso con il capitalismo, e diverse ossa da rompergli”).

La locuzione “in anticipo sui tempi” viene usata molto rispetto agli album classici, ma nel caso di The Shape of Punk to Come, il cui stesso titolo incorpora quella nozione, ci sono i numeri a provarlo. Quando la leggenda del concerto di addio cominciò a girare, cominciò a girare anche il disco. L’anno dopo la pubblicazione, le vendite salirono da 1.400 a 21.000 copie. E 28.000 l’anno dopo ancora. Ad oggi, ha venduto oltre 180.000 copie su Epitaph Records, il che ne fa un vero fenomeno dell’hardcore.

“L’Epitaph fino a quel momento era una vera e propria estensione dei Bad Religion in termini di sound e di visione, e i Bad Religion erano un prodotto della prima scena hardcore di LA (Black Flag, Circle Jerks, Adolescents, ecc.)”, dice Gurewitz che, oltre a dirigere l’etichetta, è membro fondatore dei Bad Religion. “Quando esplose negli anni Novanta il punk rock, inclusi molti gruppi su Epitaph, era diventato conservatore, quasi reazionario. I Refused riportarono il rischio all’interno del punk e dell’hardcore rendendolo di nuovo inaspettato. Ecco perché crearono così tante controversie, ma è anche il motivo per cui sono così fichi. Ho imparato molto da loro.”

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Un sacco di gente ha preso lezioni dai Refused, e non fu solo il punk a risentire del loro tocco pionieristico. Nel 2006, FILTER Magazine pubblicò un tributo post-mortem alla band, raccogliendo elogi da svariate figure di spicco della scena metal. Scott Ian degli Anthrax chiamò The Shape of Punk to Come “unico nel suo genere”. Duff McKagan dei Guns N’Roses lo ha paragonato a un Sergeant Pepper del punk rock. Kirk Hammett dei Metallica dichiarò che la sua mandibola “cadde letteralmente a terra” quando vide il video di “New Noise”. E Tom Morello ammise che, quando Zach de la Rocha lasciò i Rage Against the Machine, chiese a Rick Rubin di contattare Dennis per rimpiazzarlo.

Nel corso degli anni, i Refused sono stati citati come influenza da una schiera praticamente infinita di band, inclusi Blink-182, Rise Against, Linkin Park, The Used, United Nations, Underoath, La Dispute e i vincitori del Grammy Paramore, che citano addirittura un loro testo nella canzone “Born for This”. Durante questo tour ho incontrato esponenti di ogni sottogruppo della scena: il punk-virato-rapper Antwon, Nick Zinner dei pilastri indie Yeah Yeah Yeahs, la dea alt-porn Joanna Angel e Jeremy Bolm degli eroi screamo Touché Amoré, per citarne solo alcuni.

Tra i presenti al concerto di Santa Ana, ho notato Jason Butler dei letlive., uno dei gruppi nuovi più popolari in casa Epitaph. Stava surfando verso il palco, cantando a squarciagola, finché non si è alzato in piedi sulle teste del pubblico e una guardia della security non lo ha acchiappato da oltre le transenne. Lo stesso Butler è conosciuto per essere uno dei frontmen più selvaggi che ci siano–tanto che qualcuno ha messo su YouTube un video compilation dei suoi momenti più pazzi–ma lì, davanti al palco di un locale in cui lui stesso si è esibito, non è che un adepto in adorazione all’altare dei Refused. “Dicono che l’imitazione è il complimento più grande”, mi ha detto dopo il concerto, “e noi cerchiamo di non imitarli, ma sicuramente, sicuramente ne siamo influenzati ideologicamente, nel suono, negli strumenti e anche nell’estetica, la loro estetica anarchica ma comunque perfetta.” Il look dei Refused era punk-chich. Invece di indossare le t-shirt degli altri gruppi, portavano spesso maglioncini neri a collo alto da beatnik o completi slim-fit, con i capelli a caschetto tinti di nero. “Quando iniziammo, portavamo i pantaloni larghi”, mi ricorda David. “Poi tutti cominciarono a portare i pantaloni larghi, così noi passammo ai vestiti di seconda mano.”

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“Erano anarchici, ma belli da vedere”, mi ha detto a Las Vegas Frank Turner, un cantante folk-punk che ha pubblicato album su Epitaph e Interscope. Turner iniziò la sua carriera cantando in un gruppo hardcore britannico chiamato Million Dead, nome preso da un testo dei Refused. “Avevano un bel suono e avevano stile. Nessun altro gruppo hardcore aveva stile.” L’influenza dei Refused non sembrava avere confini. C’è addirittura un video su YouTube di “New Noise” coverizzata dal gruppo di tamarri nu-metal più a torso nudo d’America, i Crazy Town, anche se non posso in tutta onestà consigliarvi di guardarlo.

Anche se non conosci i Refused, avrai probabilmente sentito “New Noise”, il pezzo centrale di Shape, che stando a quanto il gruppo ha dichiarato a Decibel Magazine, fu scritto indipendentemente dal resto del materiale. L’intro in stile rock-da-stadio della canzone, che, ammettono, era un tentativo di creare un riff più pesante dei loro ex-compagni di label su Victory Records Snapcase, fu usato come musica muscolare in varie colonne sonore. Più che altro la si ricorda nel film drammatico Friday Night Lights e nel film d’azione Crank con Jason Statham, per non parlare di serie TV come 24 e videogiochi come Tony Hawk’s Underground. Ma, nonostante l’impatto che l’album continuava ad avere anni dopo l’uscita, i Refused erano un ricordo lontano per i propri membri, che si stavano già dedicando ad altro. La maggior parte lavoravano ancora nel campo della musica, anche se alcuni dei loro progetti erano estremamente diversi dai Refused. Kristofer, per esempio, cominciò a lavorare con l’opera, arrivando a dirigere una produzione svedese de La Bohème.

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Intanto, nel periodo d’assenza dei Refused dalle scene, le reunion hanno cominciato a diventare una strategia di booking redditizia, specialmente sul circuito dei festival. Solo negli ultimi cinque anni abbiamo assistito al ritorno di Replacements, At the Drive-In, Quicksand, Rocket from the Crypt, Judge, e la lista prosegue, leggenda dopo leggenda. C’è sempre stata la sensazione che una reunion dei Refused sarebbe avvenuta prima o poi. Ogni tanto arrivava un’offerta e loro la rifiutavano per un motivo o per un altro. Poi nel 2011 fu il Coachella a bussare alla loro porta, e loro cominciarono a pensare di suonare al loro festival del 2012. La paga di cinquecentomila dollari non era male. Quel concerto, in combinazione con le performance a una dozzina di altri festival compresi Groezrock, Hellfest e Primavera Sound, più un anno intero di tour in grandi locali in tutto il mondo, fece dei Refused degli uomini ricchi. Ci volle più di un decennio perché il mondo ci arrivasse, ma finalmente The Shape of Punk to Come ricevette il riconoscimento che meritava.

Pensa che roba. L’ultima volta che suonarono insieme fu nel seminterrato umidiccio di un tipo a caso, in Virginia, di fronte a settantacinque persone. Hanno lasciato che il valore della band montasse interesse per quattordici anni, e la volta dopo che si sono esibiti–se non contiamo un paio di piccoli concerti di riscaldamento–è stato sul palco esterno di uno dei più grossi festival del mondo. Per mettere la cosa in prospettiva, al Coachella del 2012 sono passate ottantamila persone ogni giorno. Il censimento del 2010 nella città dei Refused, Umeå, contava solo 79.594 persone.

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Con l’eccezione di Dennis, che aveva già suonato sul palco principale del Coachella con il suo gruppo The (International) Noise Conspiracy, questa fu un’esperienza completamente aliena per il resto della band. “Mi guardai attorno e vidi quattro ragazzi spaventati a morte”, ricorda Dennis. “Non fummo molto bravi a quel primo concerto al Coachella perché gli altri erano super nervosi. Ci volle un po’ per far ripartire la curva di apprendimento. Ci vollero ottantadue concerti per ricostruire la loro fiducia nella band, nel fatto che ne valesse la pena.”

Non riuscivano nemmeno a farsi entrare in testa che non dovevano portare le loro chitarre, mi racconta il loro tecnico di palco. “Una ragazza del pubblico ci mostrò le tette”, ricorda il bassista Magnus Flagge. “Quella è un’altra cosa che non ci era mai successa.”

Ma come per qualunque cosa che i Refused hanno fatto, la reunion si portò dietro un prevedibile sciame di critiche negative. Nelle cerchie del purismo punk, sono uno dei gruppi più controversi. Un punto su cui si sono fondate molte maldicenze nel corso della loro carriera, è il loro approccio libero nel prendere in prestito aspetti degli artisti che li influenzano. Sono stati accusati di aver costruito il loro stile elegante copiando il gruppo di Washington, DC Nation of Ulysses. La copertina di The Shape of Punk to Come–e questo lo ammettono candidamente–è una copia esatta di quella di Teen-Age Dance Session dei Rye Coalition, la quale è essa stessa copiata dai vecchi dischi jazz su Blue Note.

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Quindi naturalmente, visto che questa band esplicitamente anti-capitalista ha fatto improvvisamente soldi, suonando ad un festival sponsorizzato dall’Heineken insieme ad artisti come Black Keys e Bon Iver, era scontato che ci sarebbe stato un po’ di scuotimento di pugni virtuale da parte dei punk inaspriti. E ci fu. Ecco un commento molto divertente che ho notato sull’annuncio:

REFU$ED ARE £UCKING D€AD.

Ma come chiunque abbia fatto carriera nel punk rock può dirvi, quel tipo di pettegolezzo cattivo è obbligatorio in questo campo. Al Punk Rock Bowling, ho incontrato Laura Jane Grace, cantante e chitarrista e fondatrice degli Against Me!, che ha cercato di analizzare la sua carriera di anarchica-passata-su-major nella canzone “I Was a Teenage Anarchist”. “Di solito le persone che urlano più forte di essere rivoluzionarie e di essere anarchiche non stanno in realtà facendo nulla di sovversivo”, mi ha detto. “Mi sento semplicemente di fidarmi delle intenzioni di Dennis e dei Refused. Quello che stanno facendo è ancora in linea con i loro ideali iniziali. Non si tratta di un’operazione per fare soldi.”

È appena passato mezzogiorno a Los Angeles quando Dennis Lyxzén mi punta in faccia una pistola. Ci sono pile di vestiti di taglio europeo sparse per la stanza–un blazer blu appoggiato su una sedia, una bombetta per terra. Vorrei raccontarvi che questo è il risultato di una nottata di delirio, droga e donne che ha devastato una stanza d’albergo lasciando dietro di sé una scia di TV sfasciate e bottiglie vuote di Jack Daniels. Ma i Refused, che hanno tutti superato i quarant’anni, non sono quel tipo di band: “Non andiamo mai agli after-party”, mi ha detto David al ritorno da un concerto. “Se ti rimangono le forze per un’after-party, vuol dire che non hai fatto il tuo lavoro. Potresti ritrovarti cacciato dal gruppo.” Io ho riso, ma lui no. I membri del gruppo di solito sono già in camera verso le due, ogni notte. Magnus e la sua ragazza Kati, che condividono una cuccetta in tour, sono soliti alzarsi presto per andare a correre. No, la pistola puntata ad angolo retto in mezzo ai miei occhi è finta e serve per la foto di copertina di una rivista metal. Siamo negli uffici di LA della Epitaph Records, e oggi è la giornata dedicata ai giornalisti. Visto che non è l’unico servizio fotografico di oggi, hanno portato svariati cambi d’abito.

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Quella di promuovere un album è un’esperienza nuova per i Refused. Oggi hanno fatto il giro dei media. Questa mattina sono stati intervistati da Wired, rilasciato commenti in vari telefonini, e hanno parlato con un autore di Pitchfork seduti a bordo piscina sul tetto dell’hotel. Vista la tradizione dei Refused di fare album in anticipo sui tempi, i critici dovranno stare attenti a non dare giudizi affrettati su Freedom. Per molti aspetti suona come il prodotto di un universo parallelo in cui i Refused non si sono mai sciolti e hanno continuato una carriera sul sentiero delle major, nel ruolo della band hard rock da mettere in mezzo a un catalogo di giovani pop star per guadagnare credibilità. Ascoltandolo, sembra quasi un The Shape of Punk to Come imitato da una combinazione di tutti i gruppi che hanno ispirato.

In questo album, la band sembra voler focalizzare di nuovo l’attenzione sulle grandi ingiustizie del mondo, ma anche mettere in chiaro che non ha soluzioni da proporre. “Un tizio ci ha intervistato in Germania”, racconta David, “e ci ha chiesto: ‘Qvindi ke kosa dovremmo fare? Qval è la soluzione?’ Ma non è questo il mio compito. Il mio compito è fare domande.” Dennis concorda: “Se avessimo la soluzione, sarebbe ben chiara nella canzone.” Al di là di come sarà accolto dai critici, per molti fan la musica di Freedom sarà sempre messa in ombra dalle motivazioni che le stanno dietro.

I quattro passano la maggior parte delle interviste sulla difensiva, malsopportando le domande che chiedono loro di giustificare il loro ritorno. I loro ideali sono compromessi? Come rispondono a quelli che dicono che lo stiano facendo esclusivamente per i soldi? L’argomento che esce più spesso è quello del co-autore di Freedom, il produttore pop trentenne Shellback. Bisogna ammettere che vedere il suo nome sul comunicato stampa ha fatto strano a tutti. Shellback ha prodotto e aiutato a comporre circa tutte le hit che hai sentito in radio negli ultimi cinque anni. Nel curriculum ha nove numeri uno di Billboard tra cui “Shake It Off” di Taylor Swift e “Moves Like Jagger” dei Maroon 5. Ha lavorato con tutti, da Pitbull ad Avril Lavigne a Britney Spears. Per la maggior parte dei gruppi punk, avere un’influenza pop di ogni tipo sarebbe un segreto da tenere ben nascosto sotto il tappeto, ma non per i Refused.

“Nel primo comunicato stampa che ci hanno mandato, non hanno scritto il nome di Shellback”, dice David. “Gliel’ho rimandato subito indietro insistendo che menzionassero anche Taylor Swift e P!nk perché mi fa molto ridere ed è strano e cattura immediatamente l’attenzione. Sapevo che i giornalisti ci avrebbero sbavato sopra.” Non è un caso che si siano incontrati. Shellback ha origini svedesi ed è un megafan dei Refused, tanto che la band lo descrive come la persona più preparata su di loro che abbiano mai incontrato. Dicono di aver mandato a Shellback i demo di alcune canzoni semplicemente per avere un po’ di feedback. Invece, lui ha ri-registrato tutti gli strumenti e gliele ha rimandate indietro. È stato in quel momento che hanno capito di voler lavorare con lui.

Per i fan che seguono i Refused dai tempi dei seminterrati e del DIY, è stato surreale vedere questa band che era morta e sepolta e tradizionalmente avversa all’esposizione mediatica, prendere d’assalto i social media per promuovere il loro album, #RefusedFreedom, disponibile su @iTunes dal 30 giugno grazie a @EpitaphRecords. Il mese scorso hanno anche fatto uscire un pezzo in esclusiva sul quotidiano britannico The Guardian. Stanno diventando degli esperti, o almeno stanno imparando a farsi consigliare dagli esperti. Fermi qua. Indossate questo. Fate questa faccia. Siate una band moderna.

I Refused hanno ancora qualche conto in sospeso con il capitalismo. Me lo conferma Dennis davanti al camino, nel salotto della sua suite in un hotel di West Hollywood. Ogni membro della band e ognuna delle sei persone che li accompagnano ha la propria stanza d’albergo in cui passare la notte, in ogni città. “Nel 2015, sono ancora costretto a spiegare che cos’è il capitalismo”, dice. Il suo tono è paziente ma deciso, e rivela che non è la prima volta che si trova costretto ad affrontare l’argomento. Potrebbe non essere nemmeno la prima volta della giornata. “Per la prima volta in tutta la mia vita, sto facendo soldi”, mi fa notare. “E la gente mi dice: ‘Oh, sei un capitalista!’ No. Sto facendo soldi. Sono due cose completamente diverse. Il capitalismo è un sistema. Fare soldi non ti trasforma in un capitalista.”

Dennis è il volto più riconoscibile dei Refused, un fatto confermato da tutte le persone che ho visto fermarlo per strada solo questa settimana per una foto o un autografo. Dopo lo scioglimento dei Refused, non ha perso tempo e ha formato vari nuovi gruppi–The (International) Noise Conspiracy, INVSN e AC4, per citare i più noti–i quali hanno avuto vari gradi di successo ma non hanno mai raggiunto quella chimica particolare che caratterizzava i Refused. È vegan e straight edge, ed è stato nominato l’uomo più sexy della Svezia da Elle Magazine.

Mentre parla, scuote ampiamente i suoi capelli biondi; indossa una camicia anni Sessanta con gli elastici sulle maniche, il colletto aperto messo in evidenza da un cravattino da cowboy, e una cintura dalla fibbia enorme in vita. Le sue dita tatuate sono decorate da un gran numero di anelli appariscenti. Pur apparendo contento del percorso fatto dopo lo scioglimento, e pur dichiarandosi immune alla nostalgia, c’è una parte di lui che parla dei Refused come di un amore perduto. “Volevo continuare, non tanto per la musica, ma perché avevo questa idea che sarebbe stato un mezzo adeguato per la lotta rivoluzionaria. È questo che pensavo ai tempi. Ricordo che gli altri stavano in sala prove a scrivere riff per ore, e io arrivavo e dicevo semplicemente: ‘Sì, va bene, ok. La musica serve solo come mezzo per la rivoluzione. Non me ne frega un cazzo.’ E ovviamente, quando hai uno così nella band pensi, ma perché dovremmo suonare ‘sti pezzi?”

Faccio l’avvocato del diavolo e gli chiedo della commercializzazione di “New Noise”. “Sì”, ammette, “capisco che la gente potesse pensare ‘Strano: questa band è anti-capitalista, hanno tutte queste idee rivoluzionarie, e poi vendono un pezzo ai film, ai videogame, alle serie TV.’ È molto comprensibile.”

“Ma per un lungo periodo è stato come se i Refused fossero sfuggiti al nostro controllo. Ci siamo separati e dalle ceneri dei Refused è nata un sacco di roba di cui noi ci siamo fregati, come se non ci riguardasse.

“Dopo esserci sciolti, per anni mi sono sentito molto distaccato rispetto ai Refused. Ricordo che una volta ero sul bus con i Noise Conspiracy e stavamo guardando un film, ed è partita ‘New Noise’”, dice, riferendosi a Friday Night Lights. “Io ho fatto tipo ‘Aspetta aspetta, che cazzo è questa roba?’ Non l’ho nemmeno riconosciuta perché era completamente disconnesso.” Sarebbe poco professionale non menzionare il loro manifesto finale, per cui lo faccio. Gli leggo la parte sul non concedere interviste a stupidi giornalisti, e lui rabbrividisce ancora prima che pronunci le parole. “L’ho scritto. Naturalmente”, ride. “Eravamo i Refused, non potevo dire ‘Siamo spiacenti di informarvi che i Refused si sono sciolti’. Ho detto vaffanculo, scrivo questo ultimo manifesto, questa tirata idealistica da pazzi e lo faccio uscire. Non credevo che mi si sarebbe ritorta contro perché non credevo che avremmo ricominciato a suonare”, si sporge in avanti, come se mi confidasse un segreto. “Ma il fatto è che io amo questo manifesto. È una bellissima parte della storia dei Refused. È un gigantesco vaffanculo.”

È stato difficile riunirsi al Coachella, sapendo di aver scritto quelle parole e che le persone se le sarebbero ricordate e le avrebbero usate contro di te? “No, affatto.” Sorride, e mi fa notare che, per questa cosa, il grosso della merda se l’è preso lui. “Diciassette anni fa ho scritto anche cose molto più stupide di quella. La prospettiva cambia. Si cambia. Fa parte della crescita di una persona.” Allora faccio la domanda che preoccupa la maggior parte dei fan della prima ora all’annuncio di un nuovo album. Non sei preoccupato che Freedom intacchi la memoria dei Refused? “Certo, naturalmente. Potevamo anche suonare solo Shape of Punk e portarlo in tour per altri tre o quattro anni. La gente sarebbe rimasta partecipe e contenta. Ma ora facciamo uscire un nuovo disco ed è una scommessa. Lo mettiamo in gioco–è l’idea dietro i Refused. Ma vuole anche decostruire il mito dei Refused. Così si decide il destino della band.”

Qual è l’idea più sbagliata che la gente si è fatta dei Refused, chiedo in conclusione. “Uno dei motivi per cui i Refused funzionavano nella nostra cittadina era che ci divertivamo moltissimo. Questa è una cosa che manca del tutto dalla leggenda. Si parla sempre dei drammi e dello scioglimento e delle risse sul palco.” Si guarda le mani e passa un dito sopra un tatuaggio sul suo pollice, poi sorride sarcastico. “Ma per tanti anni, siamo stati una band divertente.” Una lunga fila di fan dei Refused è in attesa davanti a Vacation Vinyl su Sunset Boulevard. Dal nostro tavolo nel ristorante vegan dall’altra parte della strada, la guardiamo allungarsi. È previsto un concerto a sorpresa nel negozio tra un’ora, ma evidentemente si è sparsa la voce.

Nell’aria c’è un po’ di preoccupazione che lo show venga annullato. “Se arrivano gli sbirri o il comandante dei pompieri passano, sono fottuto. Non riuscirei mai a pagare le multe”, mi dice il proprietario Mark Thompson, “ma chi se ne frega”. Fa entrare le prime trenta persone in fila. Altre venti scivolano fuori dalla porta sul marciapiede. Saltellano in punta di piedi, cercando di guardare dentro dalla vetrina. Un ragazzo si arrampica su palo del telefono per vederci meglio. Una bambina piccola che indossa enormi cuffie anti-rumore sta appollaiata sulle spalle del padre.

Ci facciamo strada attraverso il mare di corpi, tanto stretti che non riusciamo quasi a muovere i piedi. I Refused indossano i propri strumenti, preparati dallo staff. Niente luci, niente impianto gigante. Solo i Refused, nudi e crudi. Suonano una canzone nuova. In fondo, stanno pur sempre promuovendo un disco. Il pubblico non la conosce. Magari tra qualche tempo la conosceranno. Dopo una corta scaletta suonata a gran velocità, facendo battute e raccontando storie tra un pezzo e l’altro, annunciano l’ultimo pezzo. Qualcuno dal fondo richiede gridando “Rather Be Dead”. David e Kristofer si scambiano un’occhiata. Un’occhiata strana, che dubito ci si possa scambiare molte volte nella vita, come un’offerta reciproca di serenità.

No, dice Dennis, suoneranno qualcosa d’altro, una cover. Si sente il traffico provenire da fuori prima che comincino “My War” dei Black Flag, a detta di molti il pezzo punk più iconico di sempre. Un classico. Ho sentito dire che quelle cose non passano mai di moda. Attorno a me si alzano i cellulari e i tablet per scattare una foto del momento. Che cazzo, ne scatto una anch’io. Non si sa mai quando arriva la tua ultima possibilità, giusto? Ci sono vari dischi appesi al muro, ognuno con la sua storia, ognuno con il suo posto nella genealogia del punk. Vedo una copia di The Shape of Punk to Come tra di loro. C’è un posto vuoto al suo fianco, e mi chiedo se Freedom lo occuperà un giorno.

La band ha concluso, e Dennis mi si avvicina. Con il dorso della mano, si scosta alcune ciocche di capelli biondi e bagnati dalla fronte. L’aria si è riscaldata un bel po’ nel negozio. Emette un sospiro di sollievo, scrollando le spalle: “Bene, ce l’abbiamo fatta.”