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Musica

Il marketing dei Radiohead si sta ripiegando su se stesso

Come sparire completamente, o meglio: come rimanere visibili, ma far sparire la tua musica dalla testa della gente.

In tutta sincerità, quasi mai avevo visto gli animi dell’opinione pubblica intiepidirsi così in fretta come per il nuovo singolo dei Radiohead. Questo, per carità santissima, senza entrare nel merito e senza mettermi in coda per giudicare a mia volta la qualità di “Burn The Witch”, che piaccia o non piaccia è… uhm… un pezzo dei Radiohead, con tutte le dovute variabili stilistiche del caso, perché comunque parliamo di una band che musicalmente ha sempre insistito su un certo livello di mutamento. Comunque be’, è un pezzo dei Radiohead, perché, che vi aspettavate? La domanda non è retorica. Seriamente: che vi aspettavate?

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Lo chiedo perché ho visto svolgersi davanti a me uno stunt mediatico che ha fatto tirare il fiato a tutti i fan e quantomeno colpito diversi non-fan: di colpo i Radiohead si sono cancellati da tutti i social media, lasciando come unico indizio una cartolina inviata ad alcuni loro fan che diceva “Burn The Witch”. Il problema di quesa trovata pubblicitaria è che, be’, il modo in cui si è sviluppata ha fatto emergere il fatto che fosse solo una trovata pubblicitaria. Il che non rappresenterebbe neanche chissà quale problema, non fosse che il fan medio dei Radiohead si sente smarrito. Questo perché finora Thom Yorke e soci hanno abituato il loro seguito al sentirsi parte di qualcosa di importante, al fatto che ascoltare e amare i Radiohead, e seguirli nelle loro "imprese" comunicative comportasse un’affermazione sulla realtà, una roba persino.. uhm… politica, anche se in direzione volutamente vaga e fumosa.

La meccanica-base non è nemmeno troppo complessa e si mantiene intatta da parecchio. Capitalizza una genuina attitudine (ci voglio credere) dei membri della band a non sentirsela di “apparire” troppo, un antidivismo che però, vabé, è anche quello economia: di fatto nessuno di loro si potrebbe permettere di essere cool, e la coolness dell’uncool è praticamente il trucco più vecchio dell’indie rock e della musica “alternativa” da quando queste esistono. Lo sforzo dei Radiohead è stato trasformare questa defliatezza dapprima in una specie di austerità critica, poi in una specie di reparto di ricerca e sviluppo sulla comunicazione. Una corporation il cui prodotto principale è la sua stessa brand identity e il suo lascito, molto estetico e un tantino etico. Questo è successo man mano che la presa della band sullo stardom mondiale iniziava a farsi colossale e la scusa dell’alternativismo non teneva più: in pratica, da band di outsider, di “diversi” sono diventati una band di “migliori”. Nel senso che si vendono come persone più avanti di te.

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Questo sfrutttando una percezione comune secondo la quale chi “riesce” ad apparire senza apparire, ad attizzare il fuoco dei media senza esporsi come merce, appare come uno che sta effettivamente vincendo al gioco, molto più di chi ostenta la propria presenza fisica nelle immagini dei media. È un ragionamento che ha pochissimo senso, perché pretende che ci sia meno narcisismo nel non farsi vedere (???) ma talmente radicato nella testa della gente che c’è sempre chi riesce a sfruttarlo, a prescindere che le vittime ne siano consapevoli o meno. Aggiungiamo a questo il fatto che i Radiohead sono artisti, che fanno musica, e che la loro intelligenza culturale gli ha permesso anche di venire a un certo punto riconosciuti come innovatori della musica pop. I migliori. Dei geni. Campioni dello stare al mondo, praticamente degli Steve Jobs della musica: contemporaneamente immersi nel più puro capitalismo globale e attivisti anti-guerra, pro-ambiente e terzomondisti.

Ma ok, vi starete chiedendo, che cosa c’è di male in tutto questo? Parliamo di una pop band, che deve promuoversi e far fruttare economicamente la propria identità artistica. No, ecco, non ci sarebbe nulla di inconsueto né particolarmente scandaloso, se non fosse che i loro sforzi hanno col tempo stabilito una serie di esempi storici per il marketing virale della musica, che hanno in parte stabilito le basi su cui poggia oggi la nostra impossibilità di sfuggirvi. Anche qua, però: non lo avessero fatto loro lo avrebbe probabilmente fatto qualcun altro. Però appunto, da lì a far diventare la musica la specie di accessorio che è ora ce ne passa un po’, ed è a forza di metterla in secondo piano rispetto al resto (tipo al modo in cui il disco viene distribuito/acquistato, o anche al modo mattissimo in cui è stato composto), che, se dopo la prima fase di quella che sembra un’ ennesima campagna di sconvolgenti ideone virali quello che se ne ottiene è solo una nuova traccia e un video tipo Pingu meets The Wicker Man, la reazione del pubblico è più o meno globalmente “meh”.

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Stiamo parlando di un pezzo che, da quanto si legge in giro, i fan non trovano assolutamente brutto, però per renderlo interessante c’è voluto che qualche musicologo spiegasse che Jonny Greenwood è un genio perché ha arrangiato gli archi facendo eseguire la partitura col legno. Ok, bella lì. Poi c'è un testo banalotto ma non pessimo che dice che il potere ci vuole ignoranti e incazzati con quelli diversi da noi. Grazie Thom. Però mi viene da pensare che, se anche fosse stato un pezzone clamoroso, il pubblico avrebbe reagito timidamente. Perché dov’è a sto giro la "rivoluzione-radiohead"? Dov’è il gesto clamoroso, lo statement che dovrebbe aprire il cervello a tutti? Si sono tolti per ventiquattro ore dai social network, ma il giorno dopo era tutto come prima.

Il gesto di levarsi dai social è in realtà l’eco di una mossa compiuta nel 2000, in vista dell’uscita di Kid A: quella di non fare videoclip musicali da distribuire su MTV, che all’epoca erano il veicolo promozionale n.1 per la musica. In realtà non andò proprio come dichiarato: oltre a dei microclip di mezzo minuto con protagoniste varie versioni del loro orsetto-mascotte, fu comunque distribuito il video live in studio di “Idioteque”, senza che ne fosse però tratto un vero e proprio singolo: in questo modo un pezzo che stava comunque ricevendo notevole airplay, più che sostenere se stesso avrebbe sostenuto le vendite di un album musicalmente non facile… Fingendo di starlo facendo senza airplay! Metteteci pure che, per la prima volta nella storia, si fece uso di un leak integrale come strumento di promozione. All’epoca la piattaforma era Napster, praticamente la nascita del file sharing.

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Anche giocare sulla “non-facilità” di fruizione di Kid A fu a sua volta un arma vincente: l’hype attorno a quel disco era incredibile, molto prima della sua uscite si era tutti certi che avrebbe fatto discutere non poco e che avrebbe diviso i fan, le cui reazioni erano per la prima volta nella storia monitorabili in tempo quasi-reale. La narrativa fatta circolare per passaparola alimentò la mitologia di una band (all’epoca reduce dal successo incredibile di Ok Computer) rinchiusa in studio tra mille tensioni a creare il capolavoro che li avrebbe distrutti o avrebbe cambiato il mondo.

Da un punto di vista strettamente musicale non fece né l’una né l’altra cosa: nessuno nega che fosse effettivamente una svolta per il loro suono, né, di nuovo, voglio discutere della qualità del disco. Non trovo neanche nulla di male nel fatto che, a patto che si frequentasse un certo tipo di underground, si fosse in grado di disegnare perfettamente l’albero genealogico dell’album, che sfiorava l’allora fiorentissima e tutta inglese terra di confine tra ambient e post-rock (quella di Main, Seefeel, Bark Psychosis) e ovviamente l’ultrapotenza IDM che stava già dominando l’isola. Del resto è sempre stato così: quando una rockstar fa “il disco sperimentale” di solito canalizza gli umori dell’underground permettendo che si affermino all’interno del linguaggio centrale. Non c’è nulla di male, e per l’appunto rientra nella più classica delle epopee rock. E come in quei casi, non è solo la musica a costituire il portato di un album “ambizioso”, ma la forza dell’immaginario che vi si costituisce attorno: quello di Kid A era fatto di tutte le paranoie che alimentavano la tensione pre-millennio (OGM, disastri ambientali, tensioni no global, rivoluzione digitale). Allo stesso modo di tante rockstar, inoltre, Thom Yorke stava preparando la sua immagine di filantropo “impegnato” per l’ambiente e la lotta alle diseguaglianze sociali che ovviamente non mette mai davvero in discussione i suoi milioni.

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Questo di Kid A fu forse l’ultimo momento in cui la sintesi tra la musica e il suo contorno non abbia generato un qualche tipo di sbilanciamento in favore della band come entità mediatica. Dopo quello, be, mi pare che l’aura dei Radiohead abbia preso pesantemente il sopravvento sul contenuto dei dischi, nonostante le “trovate” si fossero puntualmente rivelate delle “trovate” temporanee, che duravano lo spazio di un disco: i video promozionali ripresero già da Amnesiac, e il suono si rispostò molto presto su territori decisamente meno sperimentali. Un “ritorno alla forma” e una carenza di vere nuove idee che all’epoca di The King Of Limbs tentarono di mascherare raccontando di avere fatto normali canzoni rock, ma di averle assemblate autocampionanodosi e risuonandosi con dei giradischi. Così, giusto per non apparire troppo convenzionali.

Più interessante fu il caso In Rainbows, e la formula “pay as you wish” per un disco pubblicato solo online e senza il supporto di una label, in polemica, teoricamente, sia con gli squilibri economici generati dall’arrivo di internet che con il modo in cui le major se ne sono approfittate. Inutile dire che, come nel caso del leak su Napster ai tempi di Kid A e come la maggior parte dei loro stunt pubblicitari, sono tutte robe che ti riescono solo se sei già strafamoso a livello planetario: provate a chiederlo alle decine di migliaia di poveri cristi che ogni giorno piazzano la loro musica su bandcamp permettendo agli utenti di pagarla quanto vogliono. Questo a eterna dimostrazione che quando i Radiohead si mettono in polemica con un sistema che, a detta loro, non premia la creatività degli artisti, parlano praticamente solo di loro stessi e non della comunità globale degli artisti. Un’appendice di questa vicenda c’è stata poi con Tomorrow’s Modern Boxes di Thom Yorke solista, forse il disco più bello e più ostico a cui il cantante abbia mai lavorato, che si è guadagnato un po’ di spotlight venendo distribuito dapprima via Torrent e poi su Bandcamp: in quel periodo era già accesissima la polemica contro Spotify e i servizi di streaming, ma nuovamente la mossa “sabotatrice” era una che poteva riuscire solo a lui e a quelli già ricchi e di successo come lui. E paradossalmente lo spotlight ha finito per eclissare il vero valore del disco.

Fast forward a oggi: l’operazione “Burn The Witch” non ha neanche avuto la pretesa di ripetere questo genere di pantomima liberal, e il pubblico, trovatosi con in mano “solo” una canzone dei Radiohead, non sa bene che farsene. Certo, è una responsabilità condivisa: da una parte la band ha costruito questa sua immagine tanto meticolosamente da renderla ingombrante, dall’altra chi dovrebbe supportarne il lavoro ha perso troppo del suo tempo a discutere di argomenti da cui stava lentamente purgando via il lavoro artistico vero e proprio. Ho letto un sacco di gente sui social network che gli dava dei “geni” per essere spariti, e che poi non ha scritto due parole sulla canzone in sé. Quello che voglio sapere io è: in cosa sono stati geniali? Nel distrarvi dal loro stesso lavoro?

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