Il problema dell'Italia con le chitarre

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Musica

Il problema dell'Italia con le chitarre

Perché chi fa musica con le chitarre in Italia rischia sempre di suonare derivativo o generico? Abbiamo provato a ragionarci sopra.

Appino suona il rock. Foto di Annapaola Martin.

DISCLAIMER: Non si intende andare specificamente "contro" nessun gruppo nominato nell'articolo, molti me li sono ascoltati e/o me li ascolto. È solo un ragionamento più ampio sul fare musica essendo italiani e restando in Italia. Suono la chitarra, con altalenante costanza, da più di dieci anni. Uscito dalla fase adolescenziale in cui pensavo che lo strumento definitivo fosse una B.C. Rich nera, feci un investimento decente e mi presi una Telecaster messicana + un amplificatore che non fosse un Marshall cattivissimo e decisi di cercare qualcuno con cui suonare. Quando trovai quello che oggi è uno dei miei migliori amici, chitarrista pure lui, e gli chiesi di trovarci per suonare usai come scusa i nostri gusti comuni: "facciamo qualche cover?" Le facemmo, trovandoci a casa sua con le acustiche: "Soul Meets Body" dei Death Cab for Cutie e "Banquet" dei Bloc Party. Iniziammo poi a comporre delle cose nostre, trovando un bassista e un batterista che si sarebbero probabilmente trovati più a loro agio in una cover band dei Deep Purple. Lui voleva essere un po' Alex Turner e un po' Ben Gibbard mentre io cercavo di fare il Russell Lissack de noantri. La nostra carriera durò quattro concerti, se ricordo bene. Poi, dopo una prova, non ne abbiamo più organizzata un'altra e abbiamo pian piano iniziato a costruirci un gusto musicale più complesso. La traiettoria che ho disegnato, penso, coincide con l'esperienza della maggior parte dei musicisti italiani: crescendo, ti prendi bene con qualche modello inglese o americano e cerchi piano piano di emularlo in un tuo progetto. Decidi se cantare in inglese o in italiano, registri una demo, suoni nella tua città, inizi a mandare le tue cose in giro a blog e siti vari. Se ti va bene, facendolo ti costruisci agganci e conoscenze, e puoi anche diventare un musicista semi-professionista. Poi magari ti va di culo, fai tutte le scelte giuste al momento giusto e diventi anche famoso: in un batter d'occhio sei su SKY a fare il giudice mentre lagggente si chiede chi sei. Tutto questo vale se decidi di fare musica in una formazione tradizionale (voce, chitarra, basso e batteria). In questo modo accetti implicitamente di giocare in modalità difficile in quanto gli strumenti creativi che hai a disposizione sono già stati usati da miriadi di persone prima di te. È più facile suonare derivativi, già sentiti; ma riuscire a ritagliarsi una nicchia, a trovare qualche soluzione che suoni inedita anche senza esserlo veramente, è una buona garanzia di successo duraturo. Ti rende un'influenza che gli altri nominano, ti dà autorità. Faccio due/tre esempi internazionali, più o meno famosi.

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1) I Cloud Nothings di Attack On Memory, che potete sentire qua sopra, hanno una batteria che tira un sacco, le chitarre a tratti powerpop a tratti noise, la voce un po' gridata un po' melodica—niente di nuovo, ma combinato in un modo tale che ci han tirato su una carriera. 2) I National si sono creati un'identità da Alligator in poi: Matt Berninger fa un po' il baritono che recita e un po' l'urlatore con la voce spezzata, i fratelli Dessner arpeggiano leggerissimi e poi tirano gli accordoni, i fratelli Devendorf riescono a tratti a far sembrare liquida la sezione ritmica. 3) Car Seat Headrest si è fatto le ossa registrandosi tutto da solo, imparando album dopo album a gestire il proprio suono. Il suo culmine è stato Twin Fantasy: un ambizioso concept lo-fi su un amore non corrisposto e sulla sua identità queer che suona uscito da uno scantinato—ma con criterio, valorizzato dagli effetti genuinamente amatoriali del Mac e dalle imperfezioni alla base delle tracce registrate. Gli esempi abbondano da tutti i versanti del mondo chitarristico. I Foals sono quelli che, all'interno di paradigmi brit ormai stantii, si sono identificati come "quelli un po' più math-rock". Justin Vernon ha creato, nel suo secondo album a nome Bon Iver, una creatura orchestrale unica partendo dall'acustica registrata in un capanno del suo esordio. Gli Arcade Fire hanno preso il suono dell'indie corale canadese un po' storto à la Broken Social Scene e Wolf Parade facendolo suonare molto, molto più epico e danzereccio. Tutti progetti che, nel loro campo e indipendentemente da questioni di gusto, sono riusciti a diventare qualcosa di più del "genere" in cui la critica li ha inseriti inizialmente. Ora: la provenienza geografica di chi fa musica non dovrebbe influire più di tanto sulle sue capacità di produrre qualcosa che sembri unico, identitario. Dovrebbe: perché in realtà se nasci nella provincia dell'impero sei comunque originariamente lontano dal suo cuore pulsante, e allora—se si parla di musica-con-le-chitarre, ripeto—ti viene naturale, nei tuoi primi momenti, emulare qualcosa di pre-esistente. E non è questione di prendere la scelta più facile, né di non avere le capacità per creare qualcosa di realmente originale. Non penso sia possibile identificare un motivo definito per cui il rock italiano sembra quasi tutto così derivativo o generico, ma ho provato a farci sopra un personalissimo ragionamento.

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Nuovo? Vecchio? Non importa: è un cantautore. I cantautori italiani di oggi, in un certo senso, non pongono il problema di cui sopra. Sono figli della nostra tradizione: e allora l'attenzione va principalmente al testo e alla melodia vocale, meno a tutto il resto. Le parti strumentali dei pezzi Dente, Brunori o Colapesce potrebbero essere state scritte quarant'anni fa. Quelle di Brondi sono (generalizzando, ma nemmeno troppo) pennate in giù in La Minore e Do alternati ad libitum. Quelle di Contessa erano un po' più veloci ed elettroniche, sono ora diventate più lente e melodiche, ma il punctum sono sempre i suoi testi. Il che non è un male: è una scelta, figlia di una nostra specifica tradizione. Relativamente collegati a questo filone ci sono tutti quei gruppi che curano particolarmente la parte lirica e per quella sono seguiti: Lo Stato Sociale è perlopiù definito dai testi di Guenzi, ad esempio, così come la maggior parte delle cose di Garrincha. Ci sono poi i gruppi che, per "personalizzarsi" hanno progressivamente spostato il fuoco dalla costruzione strumentale in favore di un'identificazione con l'immaginario costruito dai loro leader. I Ministri, ad esempio, oggi sono le parole di Dragogna, mentre musicalmente potrebbero essere una band rock "grossa" qualsiasi (tipo, boh, i Foo Fighters). Gli Zen Circus hanno sempre voluto essere un po' i busker che facevano i Violent Femmes e ci sono riusciti, rendendo però da Andate Tutti Affanculo in poi sempre più centrale la figura di Appino (che si è infatti affrancato dal gruppo per tentare la carriera solista) e sempre più curata, e quindi un po' asettica, la parte strumentale. Il Teatro degli Orrori degli esordi prendeva ad ampie manciate dai Jesus Lizard, mentre ora si limita a costruire basi attorno alle gelide chitarre di Favero e Mirai per supportare le declamazioni di Capovilla. I Thegiornalisti sono progressivamente diventati Paradiso and friends play the hits of the decenni passati. Prima di tutto questo c'erano i grandi dell'alt-rock dei Novanta: un mondo che sta svanendo ma ha lasciato comunque un profondissimo segno nel tessuto musicale italiano, e che ha tuttora i suoi estimatori. Io sono di Cremona, e nella mia città c'è gente che guarda ancora a Godano e Agnelli come modelli, sia a livello di scrittura di testi che di parti musicali. Il che non sarebbe nemmeno un male di per sé, ma è una scelta immobilistica, che permette ad un eventuale recensore di parlarne riuscendo a trovare facilmente dei termini di paragone illustri.

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Esempio della musica cremonese di cui sopra. Questa tendenza alla categorizzazione è un altro punto critico: quando leggiamo recensioni, se le leggiamo, spesso dobbiamo affrontare una serie di paragoni che il recensore snocciola giusto per dimostrare che ne sa. Alcune testate serializzano addirittura questo processo mettendo a margine i dischi consigliati, tipo "se ti piace questo, ascolta anche quest'altro". Insomma, questa struttura mentale per cui ci viene naturale definire la musica secondo altra musica ha innegabili ricadute creative, sia nel giornalista che pone la domanda "Quali sono le tue influenze?" per avere qualche punto di riferimento da citare (quando non è già il comunicato stampa a darlo) che nel lettore/ascoltatore/musicista, che si abitua a concepire la musica che ascolta come una struttura ordinata, anziché il flusso disordinato (ma, per questo, vitale) che realmente è. Il modello recensione è decisamente in crisi, ma al contempo il lettore ha bisogno di categorizzare, per non rischiare di perdere tempo a leggere una recensione metal, ad esempio, se gli piace l'hip hop. Non è necessario, però, utilizzare etichettature così vuote come le nostre—un modello alternativo di categorizzazione potrebbe essere quello di The Wire, basato sull'ambito di interesse di ogni singolo recensore, il quale copre almeno tre o quattro microcategorie dello scibile musicale. Non so se sia una conseguenza di questa nostra arretratezza semantica, fatto sta che da noi anche la musica rimane ancorata a quelle categorie anziane. Probabilmente nemmeno le nostre band hanno ancora capito che è possibile svincolarsi da quelle scatole senza cadere nell'oblio musicale. A volte, poi, sembra che ci si curi più del suono che del sound, tanto che ci sono un sacco di album registrati genericamente bene, ma facilmente dimenticabili. Come se la Loudness war non ci avesse insegnato niente.

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Ascoltate solo le chitarre, il basso e la batteria: non potrebbe essere qualsiasi altra cosa ROCK da concertone? Altro fattore che influisce sulla nostra tendenza all'emulazione piuttosto che alla creazione è la barriera linguistica che affligge tuttora una grande, grande fetta dell'utenza "alternativa" italiana: tra i regazzini a cui viene insegnata la grammatica ma non la conversazione e i quarantenni che non hanno mai sentito il bisogno di leggersi i longread su Pitchfork, il risultato è che la struttura di promozione e fruizione della musica chitarristica in Italia tende ad arrivare un pochetto troppo tardi per essere veramente "al passo" con quello che succede nel resto del mondo. È più naturale, per molti, seguire i linguisticamente accoglienti media musicali italiani piuttosto che andare a vedere che artisti stanno pompando Stereogum, The FADER o Crack. Questo perché le realtà web che non sono legate a strutture troppo vetuste non hanno ancora la capacità e/o l'influenza per affermare da sole nuovi artisti, quelle cartaceo-alternative hanno un loro pubblico un po' chiuso in sé stesso e refrattario al cambiamento, e la grande stampa ha sue logiche da establishment che trattano solo tangenzialmente il mondo chitarristico più all'avanguardia. Per cui il Guardian può tranquillamente fare un pezzo su Car Seat Headrest, Alex G e i Whitney citando Yung Lean, mentre Repubblica alla peggio farà i live report dei concerti dei Bon Iver scrivendo bestialità come "Vernon è caldo, empatico, si capisce che per lui la musica è la migliore medicina al mondo, e lo ribadisce quando cita Wilko che in una canzone ha detto: "music is my savior". Non solo ci manca cultura musicale, insomma, ci manca proprio il vocabolario per comprendere quello che succede in altre parti del mondo. Per questo, da noi, quando escono fuori nuovi progetti fighi, è facile ricondurli a categorie che all'estero sono già sbiadite o addirittura scomparse, mentre qui sono pronte per essere abusate. Se notate, siamo forse gli unici al mondo per cui il termine "indie rock" ha ancora una valenza semantica, nonostante tutti sappiamo che si riferisce a un frangente decisamente in crisi di mezza età, se non decrepita. Da noi, oltretutto, "indie rock" funge ancora da ombrello per riparare dai raggi della critica alcuni emergenti che vogliamo credere facciano roba nuova, quando in realtà ricalcano, tipo i BIRTHH che sono praticamente i Daughter, Giungla fa la stessa cosa, mettendoci un po' di elettronica in più, o suona come le Bratmobile di 23 anni fa. Verano addirittura si autodefinisce su Facebook "*indie rock*" e ditemi se, dopo aver sentito un suo pezzo, vi resta qualcosa che non sia il testo e la convinzione che "indie rock" sia ormai un termine più vuoto dello spazio profondo. La stessa cosa la azzarderei per descrivere Giorgieness, che ha anche un po' di echi dei Novanta italiani e di Brondi. I Fast Animals and Slow Kids pagano un grande tributo strumentale ai Titus Andronicus (il che ritengo essere personalmente un bene dato che sono un gruppo che in Italia non viene minimamente cagato, ma è una visione soggettiva). Ma è tutto indie rock, quindi è tutto innovativo, no?

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Hey, bravi i DIIV! No, aspe… Questo nominando band genericamente alternative e chitarristiche. Se poi parliamo di correnti più definite come possono essere l'emocore, il punk/HC, il reggae, lo ska, il rockabilly, lo shoegaze, il dream pop, il post-rock e così via viene ancora più facile "spiegare" un gruppo italiano usando termini di paragone già celebri piuttosto che ragionare sul prodotto in sé. All'interno di ognuna di esse c'è sicuramente chi è riuscito a costruirsi un'identità━stando nell'emocore, ad esempio, i Fine Before You Came su tutti━ma farcela significa diventare a propria volta termine di paragone per le nuove leve, facendo mordere la coda al serpente. Realtà DIY come La Quiete, Raein, Laghetto, FBYC, Gazebo Penguins e Do Nascimiento hanno lasciato alla scena italiana qualcosa di splendido, perché originale e "nostro", ma ha anche fatto gonfiare una bolla di imitatori che a loro si sono rifatti senza cercare di tirar fuori dal cappello qualcosa di non-ancora-sentito. Ci sono poi fattori geografici da prendere in considerazione. A livello concertistico l'Italia è il Molise dell'Europa, e non ha quindi molto senso per gruppi non ancora affermati (ma magari, particolarmente innovativi nella loro proposta) organizzare un concerto dalle nostre parti. Nel caso, magari solo a Milano. Questo perché bastano delle date sold out a Londra, una Parigi e Berlino per dire di avere lasciato il segno nel continente. Recentemente sono stato nella capitale francese, ad esempio, e ho visto sui muri del terzo arrondissement dei poster che sponsorizzavano il nuovo EP di Abra. Non mi pare che a Milano si siano ancora visti: questo perché, molto probabilmente, alla sua etichetta non conviene pagare per affiggerli e quindi fare promozione. Insomma: quando le band arrivano a suonare dal vivo da noi, se ci arrivano, spesso lo fanno qualche mese dopo rispetto al resto del mondo: e così, se non viviamo la musica come continua ricerca ma come passatempo (com'è anche giusto e normale che sia, sono scelte personali), ci sorbiamo quello che i gatekeeper di turno hanno dovuto scegliere per noi. Se poi un concerto si fa davvero ma non va tanto bene e gli introiti per gruppi e agenti sono pochi non è affatto detto che alla volta dopo la cosa si rifaccia. Penso ad esempio ai Vampire Weekend che, dopo il tour del primo album nel 2008, tra i nostri confini non si son più rivisti.

I Tetuan dal vivo, dalle Marche con furore. In tutto questo, ci sono nomi che mi sento di escludere dal ragionamento che abbiamo fatto finora anche se faccio un po' fatica a farmeli venire in mente senza manipolare leggermente il punto-base da cui siamo partiti, cioè la centralità della strumentazione tradizionale. È come se le band italiane che più rifuggono le categorizzazioni ricadessero in due tipologie: o usano sì le chitarre, ma senza essere delle band in formazione tradizionale; o sono in formazione tradizionale o quasi, ma non usano le chitarre. Gli Zu hanno le hanno rimpiazzate col sassofono, i Niagara le hanno rese parte di un tutto così come l'ultimo Iosonouncane, che non è un "gruppo" a tutti gli effetti. Un lumicino di speranza può essere l'Italian Occult Psychedelia, e quindi Heroin in Tahiti, Tetuan, La Piramide di Sangue; ma penso che nei loro obiettivi artistici stia anche il superamento di un tradizionale paradigma basso-chitarra-voce-batteria. E posso parlare bene, anche molto bene di progetti più debitori nei confronti dell'indie rock nel senso più da college americano anni Novanta del termine come Pueblo People, Any Other e The Clever Square; ma non mi sento di definirli veramente "originali". Come si esca da tutto questo non lo so bene, come non so se è una mia percezione personale o qualcosa di più ampio. Non esistono regole per fare musica e/o critica, e magari la necessità di stare al passo coi tempi, di trovare sempre qualcosa di inedito, è solo una speranza che si farà progressivamente sempre più vana man mano che ci allontaneremo dal punto d'origine della musica moderna. L'unica cosa di cui sono certo è che la distanza tra l'Italia e il resto del mondo, quando si parla di chitarre, sta restando sempre la stessa e non riesco ad auspicare, nel breve termine, segni di accorciamento. Magari tra due, tre anni anche noi avremo una scena lo-fi coi controcoglioni, dei progetti capaci di reinventare l'eredità dei nostri anni Settanta e Ottanta, dei cantautori capaci di proporre immaginari forti sia musicali che testuali. Ma saremo arrivati, come sempre, un attimo troppo tardi.

Elia ha speso dei soldi per comprare questa chitarra. Seguilo su Twitter.

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