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Chi erano davvero i Pigoldini milanesi

Se siete cresciuti a Milano e dintorni tra la fine dei Novanta e l'inizio dei Duemila, probabilmente anche in mezzo ai vostri conoscenti ci sarà stato un giovane tamarro a cui tutti, prendendolo per il culo, si riferivano col nome di "pigoldino".

Locandine per gentile concessione di Cristian Cafarelli.

Quando avevo 14 anni si diceva che, una domenica al mese, un ragazzo del tutto anonimo del mio liceo di provincia si piastrava i capelli, metteva gli occhiali da sole e una maglietta aderente con disegnato un teschio e andava a ballare al P-Gold. Se siete cresciuti a Milano e dintorni tra la fine dei Novanta e l'inizio dei Duemila, probabilmente anche in mezzo ai vostri conoscenti ci sarà stato un giovane tamarro a cui tutti, prendendolo per il culo, si riferivano col nome di "pigoldino". Non che qualcuno di noi sapesse che musica si suonava al P-Gold o cosa fosse per davvero: semplicemente, nel vocabolario del nemico, quella parola doveva un po' sostituire il precedente "sancarlino".

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"Sì, l'idea di pigoldino esiste solo a Milano," dice Paolo, per anni assiduo frequentatore della serata. Per chi in quegli anni fosse stato impegnato a tutt'altra latitudine, dunque, il termine indicava i giovanissimi frequentatori della serata P-Gold al Rolling Stone, caratterizzati da una sessualità apparentemente fluida e un'estetica a metà tra lo zarro e l'emo—capelli piastrati o spike, maglietta aderente, calzini a righe tirati su fino al ginocchio, occhiali da sole e collana di perle obbligatori. In alcuni casi, anche boa di piume e calze a rete.

Quanto alla serata in sé, tutto è nato nel 1998, con Cristian Cafarelli—in arte Obi Baby—e Ivan Sala. "Quando Sodoma il mercoledì all'Hollywood, Electropunk sabato al De Sade e altre varie serate non ci bastavano più abbiamo creato anche il P-Gold," mi ha detto Cristian su Skype dalla sua futuristica casa milanese. "Con il P-Gold volevamo dare vita a un grande spettacolo come quelli che c'erano all'estero. Fortunatamente a quel punto eravamo circondati da ballerine, drag queen e performer, e abbiamo pensato di buttare tutto dentro un unico contenitore." Erano passati un po' di anni da quando i due, all'epoca soci, avevano portato l'anima degli after del Trade a Milano dando vita al Pervert, partito come serata del mercoledì nell'ex locale per scambisti Rage e rapidamente trasformatosi in organizzazione dietro a numerose serate nelle discoteche più grandi e note della città. "In Italia non c'erano vere serate gay, c'erano le serate gay-fashion," mi dice Cristian. "Noi non volevamo essere finocchi fashion, volevamo essere finocchi a cui piace la musica."

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Dopo il debutto al Le Quinte e un passaggio al De Sade, è al Rolling Stone che il P-Gold ha preso la sua forma definitiva. "Io ho cominciato ad andare nei primissimi Duemila e ci sono andato per quattro anni, mio fratello mi ci ha iniziato," racconta Paolo. "Ma mi ha anche detto che prima che arrivassi io era tutto un altro pianeta, che c'era gente al guinzaglio, per dire. Ma anche dopo, rimaneva una serata insolita rispetto alla media milanese." In effetti la musica—set techno sporcati dall'electro, a partire da reminiscenze un po' dark di un adolescente "musicalmente depresso cronico" che si sciroppava Smiths, Cure, Softcell e Siouxsie and The Banshees— era solo parte dell'intrattenimento, un ingrediente per il prodotto vero, il party.

È in questo contesto, tra il 2003 e il 2004, che si comincia a sentire parlare dei pigoldini. In quegli anni, al look total black richiesto per entrare alle serate al De Sade si sono uniti pian piano accostamenti con altri colori: il bianco, il fucsia, il turchese, il giallo e qualche spin-off sull'oro. Tanto che gli anni di P-Gold non si definiscono con un numero progressivo ma a seconda dell'accostamento di rigore: il "bianco-nero", il "rosa-nero" fino all'amaro finale "giallo-nero" del 2006-2007 ai Magazzini Generali, ribattezzato poi sprezzantemente "l'Ape Maia" da chi si era allontanato dalla scena. "Ai Magazzini era diventata una commercialata pesante," dice Paolo, "e poi erano tutti troppo più piccoli di me. Infatti lì ho abbandonato dopo essere andato all'apertura."

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I pigoldini non sono mai stati una di quelle tribù urbane dall'immediata riconoscibilità, come i gabber o gli zarri: si acchittavano per andare alle loro serate, ma per le strade erano solo un'ennesima declinazione di quell'ibrido tra zarro e fighetto con lo zaino Hic Sunt Leones e i capelli in faccia. Se era possibile conoscere un gabber, non era possibile conoscere un pigoldino: era possibile conoscere qualcuno che diceva di essere tale. L'unico elemento di comunione tra i pigoldini era, appunto, il P-Gold. Con tutto il paradosso che ne consegue.

Nella realtà, infatti, il P-Gold non era stato pensato per i pigoldini. "Doveva essere il nostro giocattolo," ricorda Cristian, "per portare il milanese impettito, quello dei circoli alti, sulla cattiva strada." E per qualche tempo ha funzionato. Ma quando al Rolling Stone la serata ha raggiunto la sua forma 'estetica' perfetta, si è attuato un distaccamento dallo scopo e dall'idea iniziali: il P-Gold era diventato uno spazio franco per i ragazzini in cerca di techno, esagerazione e tribalismo. "Noi abbiamo solo potuto cavalcare l'onda, perché hanno fatto tutto i ragazzini," mi dice Cristian.

"È stata la grossa bomba che abbiamo sganciato su Milano, ma che è stata talmente potente che ha fatto implodere anche noi. Dopo questo fenomeno la mia organizzazione è implosa, e molti hanno liquidato il tutto con, 'Abbiamo fatto arrivare i ragazzini, quindi la situazione ha perso di qualità'." Così, quello che era nato come uno spettacolo per un pubblico adulto è diventato una performance dal basso o un "rito" collettivo, e il P-Gold per come viene ricordato oggi dai più è, nei fatti, l'essenza della morte del P-Gold.

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Nel frattempo, la realtà del P-Gold aveva iniziato a uscire dalle mura dei locali. "A Lima c'era il negozio MondoPervert che vendevano materiale super-limitato, collezioni da anche solo cinque magliette a prezzi da rapina," ricorda Paolo, "e tutti ci andavamo perché era l'unico accesso al vestiario." La famosa maglietta aderente con il teschio del P-Gold o la cintura la trovavi solo in negozio—potevi andare alle serate con cose non branded, ma come succede in questi casi il vestiario è parte fondante. Un'altra cosa extra-ordinaria di questo frangente è che buona parte dell'outfit poi passato alla storia come 'P-Gold' (ciucci in bocca e calze a righe al ginocchio) non era nato al P-Gold, ma al Diabolika, realtà house romana contemporanea che stava spopolando ai tempi (quella di Emanuele Inglese e Lou Bellucci, per intenderci). Sono stati i giovani frequentatori a imporlo agli organizzatori, che già dai tempi del De Sade gestivano la loro linea di moda—quella, appunto, in vendita da MondoPervert. "Erano i ragazzi che venivano in negozio e dicevano 'Ma perché non ci sono le calze?'," dice Cristian. "E allora creavamo qualcosa per loro, ma si erano invertiti i ruoli."

Locandina per gentile concessione di Cristian Cafarelli.

Eppure i pigoldini, per quanto in un certo senso fossero riusciti a imporre il proprio sistema a chi aveva gettato le basi della loro stessa esistenza, restavano un fenomeno fondamentalmente ingenuo. Avevano portato elementi di un'altra scena—piume e collant—in un ambiente caratterizzato dal programmatico eccesso inteso però in senso performativo. L'input "guerra alla normalità", uno dei motti di casa Pervert, è così stato fatto proprio e interpretato alla lettera da migliaia di ragazzini che si presentavano alle serate vestiti "come dei frocioni pazzeschi," ride Cristian. E quest'ingenuità doveva avere delle conseguenze.

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Se ben ricordo il 2004 da un punto di vista sociologico, succedevano due cose: era il momento in cui i ragazzi della mia età compravano gli occhiali a mascherina rosa Ray-Ban e bene o male tutti avevano ormai accesso alla comunicazione sul web. Ed è in questo contesto che la situazione è precipitata: i pigoldini avevano fatto proprio un prodotto che aveva un peso specifico e una connotazione troppo pesanti per i loro strumenti, e perché fossero in grado di giustificarla ai propri coetanei. "I ragazzi si sono esposti in modo talmente ingenuo che poi hanno pagato tanto," ricorda Cristian. Quando il pigoldino è uscito dal locale ed è arrivato ai social, dove un'estetica per forza si tramuta in un messaggio, hanno cominciato a piovere anatemi e condanne.

"Su duepuntozero io passavo le giornate a difendere i ragazzini, era diventata una vera e propria guerra mediatica in cui c'erano segni chiari di omofobia contro chi non aveva le armi per fronteggiarla," ricorda Cristian a proposito del forum, dove i pigoldini, emissari involontari di un mondo di libertà sessuale ed esagerazione, sono in brevissimo tempo diventati i bersagli numero uno. "C'erano loro confusi, noi che cercavamo di spalleggiarli, la cultura italiana sessista che ci massacrava." È il momento in cui il pubblico originario del Pervert si è definitivamente allontanato dal P-Gold e Obi Baby, che non è mai stato in sintonia con le "nuove leve", con il 2006-2007 ha chiuso la serata per continuare con altri progetti.

Nel frattempo, non avendo un fulcro, i pigoldini come cosa in sé sono praticamente spariti dall'immaginario collettivo dopo l'annus horribilis nero-giallo. Alcuni, come Paolo, hanno abbandonato la nave già all'inizio di quella stagione, reputando la musica ormai "troppo commerciale," e il pubblico "troppo giovane," forse senza considerare che anche loro erano stati dente di quello stesso ingranaggio che poco a poco aveva allontanato gli iniziali avventori.

Forse un fenomeno dovrebbe morire nel momento stesso in cui c'è qualcuno che può dirti che "prima era meglio". Che poi è la cifra di un sacco di "mode" italiane degli ultimi tempi: aderire acriticamente a una scena forte come quella del Pervert, esautorarne una parte, andarsene lasciando praticamente inalterata la vera radice. Generare qualche pagina FB a metà tra lo sfottò e la malinconia.

Immagine del thumbnail per gentile concessione di Cristian Cafarelli. Segui Elena su Twitter.