La guida di Noisey al Free Jazz
Foto tratta da Ornette: Made In America.

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Musica

La guida di Noisey al Free Jazz

Libertà espressiva, frenesia compositiva, impegno politico e decostruzione ideologica di ogni parametro. La storia della New Thing.

Dal krishnacore al gabber, la storia della musica è piena di generi musicali con nomi assurdi e fantasiosi. Nella maggior parte dei casi, questi patronimici venivano attribuiti dai giornalisti in cerca di credibilità. Nel caso del free jazz è tutto l'opposto: dobbiamo il nome al sassofonista Ornette Coleman, così come a lui dobbiamo la nascita di questo genere.

Se qualche jazzman aveva, già nel corso degli anni Cinquanta, tentato di tradurre la propria radicalità d'intenti in musica—ad esempio il Cecil Taylor Quartet con Jazz Advance—si deve al sassofonista americano il merito di aver posto le basi per il movimento con il suo album del 1960 Free Jazz, un disco che riuscì ad ergersi a simbolo del cambiamento sociale, del black power e insieme del rinnovamento di un genere, il jazz, che rischiava di andare troppo nelle mani dell'America bianca. I bianchi, all'epoca, erano coloro che detenevano l'assoluto controllo sui media, e non avevano molta simpatia per le sperimentazioni ibride che intaccavano il buonsenso melodico. Nel 1960, dopo che uscì il primo articolo riguardante Ornette Coleman sul Jazz Magazine, il giornalista Jean-Robert Masson organizzò una tavola rotonda attorno a una spinosa questione: «Bisogna mettere al bando o su un piedistallo questo famoso Ornette Coleman?» A dire il vero, il rifiuto fu intenso anche da parte di altri musicisti neri, a partire da Archie Shepp fino all'Art Ensemble Of Chicago o Albert Ayler, che rifiutarono questa categorizzazione, preferendo parlare di Great Black Music o di musica classica nera. Ma a nulla valsero questi impulsi reazionari: il termine free jazz, o New Thing, è rimasto il più adeguato per descrivere questi musicisti in vena di febbrili sperimentazioni, allineate agli sconvolgimenti sociali e politici di quell'epoca. E se i free-jazzisti americani, ma anche francesi o giapponesi, appartengono alla mitologia degli anni Sessanta e Settanta, rimane il fatto che le loro avventure sonore saranno fondamentali per gran parte della cultura popolare dei decenni successivi.

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Gli artisti

ORNETTE COLEMAN
Troppo libero e selvaggio per riassumerne il carattere in poche parole, il sassofonista ha fatto il suo ingresso nella storia del jazz grazie a due mitologici album in particolare: The Shape Of Jazz To Come del 1959 e Free Jazz dell'anno successivo. I media, all'epoca, l'accusarono di voler distruggere il jazz, di voler mascherare la sua mancanza di tecnica sotto un velo di dissonanze, ma Ornette Coleman, accompagnato da un doppio quartetto composto da musicisti validissimi, tra i più innovativi per l'epoca (tra cui Don Cherry, Eric Dolphy e Scott La Farro), fu in grado di definire un nuovo genere musicale, tra lirismo espressivo, jazz libero e texture rivoluzionarie. JEF GILSON
Arrangiatore, incisore di vinile, pianista, cantante, ingegnere del suono, compositore, insegnante e direttore d'orchestra, Jef Gilson è uno di quegli individui iperattivi costantemente in cerca di nuove esperienze. Riversate tutto in una fantasia musicale senza fondo. Tra due produzioni della Palm, la sua etichetta, il Maestro dà prova di poter toccare generi come il be-bop, il blues o, appunto, il free jazz, angolo musicale che riesce a sublimare ne Le Massacre du Printemps (omaggio violento alla Sagra della Primavera di Igor Stravinsky e opera chiave per l'ondata riottosa francese di fine anni Sessanta) e in Malagasy, registrato con una ventina di musicisti del Madagascar la volta che vi rimase bloccato a causa dei moti del Maggio '68. ART ENSEMBLE OF CHICAGO
All'inizio degli anni Sessanta, decine di jazzmen dallo spirito libero iniziarono a manifestarsi per le strade americane. C'era Pharoah Sanders, anziano senza fissa dimora del Greenwich Village, amico di Sun Ra e membro fisso dell'orchestra di John Coltrane a partire dal 1965, e c'erano pure Sonny Rollins, Alan Silva, Sunny Murray e l'Art Ensemble Of Chicago.

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Arrivati relativamente tardi, nel 1969, questi ultimi innovatori hanno contribuito a fare del free jazz un genere influente. Anzi, hanno approcciato con lo stesso fervore tutti gli input che, mescolati, ne hanno costituito la singolarità: l'atonalismo, le percussioni africane e la strumentazione barocca. Elementi che potevano trovarsi già nel 1967 in Sound del Roscoe Mitchell Art Ensemble (Malachi Favors, Lester Bowie, Roscoe Mitchell), primo disco pubblicato per conto dell'Association for the Advancement Of Creative Musicians (AACM), sotto la cui egida si sono incontrati i membri dell'Art Ensemble Of Chicago, laddove è nata la definizione «Great Black Music» e in cui i principali movimenti politici afroamericani (tra cui, per dire, il Congress Of Racial Equality, la Nation of Islam o i Black Panthers) trovavano un accompagnamento musicale per la loro lotta.

Sun Ra, foto: Andrew Putler.

SUN RA
«Non assomiglia a niente di esistente, ma il messaggio di Ra è ben chiaro e questo è ciò che conta.» Questa frase di Jim Newman, produttore del film Space Is The Place, è ugualmente applicabile agli album di Sun Ra e della sua Arkestra, che hanno intrapreso percorsi indefinibili nell'industria musicale. Oltre ad essere uno dei primi musicisti a uscire esclusivamente per label indipendenti (Saturn Records), Sun Ra è un bulimico del suono. Ha all'attivo circa 180 LP e più di 1000 composizioni, tra il 1956 e il 1992. E vi si trova di tutto: dalla filosofia cosmica ai riferimenti alla science-fiction, all'afrofuturismo ante litteram, a un'estetica sempre in bilico tra free jazz e sperimentazione. Niente male per un tipo così bizzarro, che diceva di esser nato su Saturno e di essere stato inviato sulla Terra dal creatore dell'Universo nell'anno 1055 al fine di permettere al popolo nero di fuggire dalle atrocità degli esseri umani. STEVE LACY
Grande specialista del sax soprano ed eterno ammiratore dei giochi di Thelonious Monk, Steve Lacy ha rapidamente imposto la sua visione della "New Thing". Era il 1969 quando Moon fu pubblicato da BYG Records. Quest'album preannunciava un decennio di follia per il sassofonista, che da allora registrò cinque album per Saravah (tra cui gli incredibili Lapis e Dreams), collaborò con Brion Gysin e trasse ispirazione dai testi di William Burroughs, Lao-Tse o Herman Melville per creare le sue sinfonie inconvenzionali, che stavano da qualche parte tra Debussy, il beat e Ornette Coleman.

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Rashaan Roland Kirk con Charles Mingus, foto via YouTube.

RASHAAN ROLAND KIRK
In molti lo sanno: Roland Kirk, rinominato Rahsaan in seguito a un sogno in cui Dio in persona si rivolgeva a lui, aveva una collezione di più di 6000 dischi a casa sua e solitamente si portava dietro una cinquantina di vinili quando andava in tournée. Forse proprio la sua sete di scoperte l'ha portato a collaborare con le più grandi rockstar dell'epoca (Frank Zappa, Eric Burdon, Jimi Hendrix), o a mettere a punto i propri strumenti originali (lo «slidesofono» o il «trombofono»), di partecipare a hit come "My Cherie Amour" di Stevie Wonder o di produrre album estremi come Rahsaan Rahsaan, registrato al Village Vanguard nel 1970 e dominato dalla suite sperimentale "The Seeker". ARCHIE SHEPP
Se Archie Shepp nel 2015 non ha perduto nemmeno un millesimo della sua violenza, probabilmente è grazie alla sua potenza assoluta negli anni Sessanta, epoca in cui, in un'intervista a Jazz Magazine, rivendicava di essere «un musicista jazz nero, un padre di famiglia nero, un americano nero, un antifascista. Sono incazzato per la guerra in Vietnam, per come i miei fratelli vengono sfruttati. La mia musica racconta la mia indignazione. È questa la "New Thing"…» Con uno stile espressionista, febbrile e ruvido, Shepp incarna il furore di un free jazz di cui cominciamo a riconoscere il valore anche esterno agli ambienti underground. Oscillando costantemente tra radicalità sonora e riferimenti saldi ai musicisti neri (rhythm'n'blues, gospel…), il sassofonista compone anche album definitivi come Four For Trane o Blasé, registrato in ottetto a Parigi con una frenesia in cui s'intrecciano le voci di Jeanne Lee e di Chicago Beau, la tromba incendiaria di Lester Bowie, il contrabbasso sottile di Malachi Favors e il piano fuori di testa di Dave Burrell.

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Le etichette

BYG RECORDS
Siamo onesti, anche se scontati: la più grande label di free jazz è sicuramente la BYG Records. O perlomeno, quella che ha pubblicato il maggior numero di album emblematici. Tra il 1969 e il 1971, l'impresa di Jean Karakos, Claude Delcloo e Jean-Luc Young decolla grazie all'arrivo di una decina di jazzmen americani al Festival Panafricano di Algeri nel luglio 1969 e al festival Actuel tenutosi ad Amougies in Belgio nell'ottobre dello stesso anno. In quelle occasioni vennero registrate numerose session e improvvisazioni collettive o individuali. Il risultato fu un malloppo di ben 52 album che, tra Poem For Malcolm di Archie Shepp, «Mu» First Part di Don Cherry o Luna Surface di Alan Silva, sono rimasti fulgenti per i posteri. IMPULSE!
«Precursori dell'avanguardia progressista» durante gli anni Sessanta, così erano definiti i ragazzi della label americana fondata nel 1960 da Creed Taylor, prima responsabile della direzione artistica della Bethlehem Records, nonché autore del famoso slogan «New Wave In Jazz». Nel corso di più di un decennio, e sotto l'influenza di un John Coltrane allora in pieno periodo free, l'etichetta prenderà sotto la sua ala alcune delle pietre miliari del free jazz: Albert Ayler, Charlie Haden, Roswell Rudd, Marion Brown o Pharoah Sanders, che registrano alcuni dei loro album più emblematici entro le mura di Impulse! Negli anni Settanta, la label ripubblica una parte del catalogo Saturn di Sun Ra e segue altri eccentrici della melodia (Alice Coltrane, McCoy Tyner) prima di cedere il passo, una volta sopraggiunti gli anni Ottanta, a un'estetica pop-jazz quasi volgare. SHANDAR
La label Shandar è mitologica per almeno tre ragioni. In primis per i suoi fondatori: la gallerista Chantal Darcy (le cui prime sillabe di nome e cognome formano il nome della label) e Daniel Caux, talent scout, responsabile della scoperta di Albert Ayler e Sun Ra ai tempi delle famose serate della Fondazione Maeght nel 1970 e, a tempo perso, redattore per la rivista L'Art Vivant assieme al compositore francese Jean-Jacques Birgé. E poi per il suo catalogo, in cui ritroviamo tutti i live, appunto della Fondazione Maeght (Albert Ayler, Cecil Taylor, Sun Ra), Obsolète di Dashiell Hedayat o ancora numerose produzioni di Steve Reich e Terry Riley. E, se non bastasse, perché leggenda vuole che tutti i master dell'etichetta siano scomparsi dopo un allagamento dello scantinato. Lo so, sembra una una cavolata, ma mantiene alto l'alone di mistero attorno a questa label.

I brani

ALBERT AYLER - "Bye Bye Blackbird"
Tra musica da camera e orchestrazioni brute, tra quel piano che swinga e quel sassofono sregolato, Albert Ayler dirama qui una delle sue composizioni più furiose e intense, all'incrocio esatto tra rinnovamento delle forme e reverenza ai grandi maestri (Hawkins, Webster,…). Al termine di questi sette minuti e venti secondi, comprendiamo a pieno perché John Coltrane diceva "Albert Ayler non mi lascia dormire".

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SUN RA - "Rocket Number Nine"
Zombie Zombie e Lady Gaga non possono farci niente: bisogna chiamarsi Sun Ra per ideare una melodia così folle e futuristica come quella di "Rocket Number Nine". Senza dubbio non è tra i pezzi meglio eseguiti dal musicista presumibilmente nato su Saturno, ma è uno dei più rappresentativi della sua follia creativa e del suo rapporto all'estetica afrofuturistica.

FRANÇOIS TUSQUES & DON CHERRY - "Occident et texte sur l'Inde"
Bisogna capire che qui si tratta del primo titolo di free jazz mai registrato da un musicista francese. Alcuni mesi prima dell'uscita del suo album Free Jazz, François Tusques si trova a Nantes, dove si tiene un'esposizione di Le Corbusier, di cui realizza la sonorizzazione, e registra il tutto con l'aiuto di Don Cherry sull'EP La Maison Fille Du Soleil, ripubblicato qualche anno fa dall'eccellente label britannica Finders Keepers.

DAEVID ALLEN TRIO - "The Song Of The Jazzman"
Similmente al percorso intrapreso, qualche anno più tardi, da Steve Lacy assieme a Brion Gysin, l'ensemble di Daevid Allen sposa free jazz e poesia beat in un'ambientazione pressoché totalmente decostruita che ci fa comprendere meglio il rapporto alla blue note di Robert Wyatt.

ART ENSEMBLE OF CHICAGO - "Thème de Yoyo"
Chi si ricorda di Les Stances à Sophie, un oscuro film della Nouvelle Vague girato da Moshé Mizrahi nel 1970? Forse è più probabile che vi ricordiate di questo titolo per l'omonima produzione musicale dell'Art Ensemble Of Chicago, che di quel film fu colonna sonora. Scritto e composto a Parigi, questo tema, sul quale ondeggia la cantante Fontella Bass, rappresenta a pieno la libertà e la creatività del collettivo americano durante i suoi anni europei.

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FULL MOON ENSEMBLE - "Samba Miaou"
Pubblicato nel 1970 sulla label ATK, questo pezzo è estratto dal tema "Tribute To Bob Kaufman", che sta sul lato A dell'album Crowded With Loneliness. Si tratta di un'adattazione in musica dei testi del poeta beat americano, qui interpretati da una cantante che leggenda vuole fosse Nicole Aubiat della compagnia teatrale Chêne Noir. In breve, un must del protest-jazz francese.

PHAROAH SANDERS - "The Creator Has A Master Plan"
Spesso ridotto al semplice ruolo di discepolo di John Coltrane, Pharoah Sanders impone nel 1969 la sua visione del mondo, sotto forma di un incanto lungo 32 minuti su cui Leon Thomas salmodia parole magnificate dalle orchestrazioni carnali e meditative del sassofonista.

MASAYUKI TAKAYANAGI - "My Friend, Blood Shaking My Heart"
Per le sue eccentricità e le sue melodie progressive totalmente decomposte, il free jazz non poteva non trovare un eco in Giappone, Paese in cui alcuni musicisti (Masahiko Togashi e Masahiko Satoh, per esempio) si sono riappropriati del genere, l'hanno portato ai suoi estremi e ne hanno ripristinato alcune composizioni abrasive, sottomesse a dissonanze estremamente sofisticate. Ad esempio questo pezzo del chitarrista Masayuki Takayanagi che, diciamolo, prefigura chiaramente l'arrivo di Merzbow e Co.

ARCHIE SHEPP & ROCÉ - "Seul"
Non si tratta per forza di un pezzo emblematico del free jazz, ma testimonia l'impatto del genere sulle nuove generazioni. Qui, la tromba abrasiva e dissonante di Archie Shepp accompagna con parsimonia il fraseggio poetico di Rocé con un risultato sublime.

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KAMASI WASHINGTON - "Re Run Home"
Kamasi Washington meritava di essere menzionato in questa guida. Vi abbiamo parlato, in passato, di come Brainfeeder, la sua label, stia ritessendo importanti legami con la scena jazz degli anni Sessanta. Il ragazzo ha composto melodie totalmente fuori di testa per l'ultimo album di Kendrick Lamar. Oltre a ciò, il suo primo album, The Epic, è una lunga raccolta (173 minuti) che dimostra tutto l'entusiasmo e la volontà di questo musicista nel voler esplorare al massimo lo spettro del jazz.

Chi ne ha tratto ispirazione

Dite che il free jazz non è stato influente quanto il rock o la musica elettronica? Mediaticamente, è probabile che sia così. Su altri livelli, più profondi, invece è un'altra storia. Dalla fine degli anni Sessanta, i free-jazzmen hanno contribuito a rinnovare il territorio pop di Paesi come la Francia, ad esempio. Tutta una generazione di musicisti alternativi francesi è cresciuta all'ombra di Albert Ayler o Archie Shepp. Claude Delcloo, fondatore della rivista Actuel e membro della BYG Records, forma il Full Moon Ensemble, Brigitte Fontaine collabora con l'Art Ensemble Of Chicago, Alfred Panou fa lo stesso, e Colette Magny si associa a François Tusques per musicare la colonna sonora di black power con Répressions.

Quello che succede dopo il 1975 è più complicato. BYG Records non esiste più. Albert Ayler, John Coltrane ed Eric Dolphy non sono più in vita, i free-jazzmen si dedicano, per la maggior parte, a sonorità esotiche o cominciano a buttarsi su altri generi musicali. Da qui a dare per morto il free jazz, il passo è breve, ma non è ancora il momento di farlo, dato che questo movimento rivoluzionario continua a rifiorire in àmbiti inaspettati, come nel rock con la label Constellation (che ha sotto di sé, ad esempio, Matana Roberts e Colin Stetson) o nell'hip-hop e nell'elettronica con esempi come Brainfeeder.

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