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Musica

Stephen Morris e il terzo album mai registrato dei Joy Division

Il batterista dei Joy Division ci parla di come il ricordo venga perso nella resa drammatica di una storia.

Di tutte le leggende cristallizzate nella mitologia del rock e del pop, il capitolo dedicato ai Joy Division è certamente uno dei più discussi. Non solo la tragedia del giovane Ian Curtis, suicidatosi a soli 23 anni, divenne uno dei simboli del genio giovanile bruciatosi troppo presto, ma contribuì ad estendere l'alone leggendario fino alla Factory Records e alla famosa Hacienda, ambienti che acquisirono un carattere mitologico. Questo insieme di disgrazia, circostanze e musica hanno creato materiale simbolico che ha ispirato decenni di storie costruite attorno alla scena di Manchester. Addirittura ci furono anche teorie cospirazioniste e gente che andò a scavare nelle tombe.

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Il film del 2007 Joy Division probabilmente è il miglior racconto della loro storia finora pubblicato. Lontano dalla resa fiction di 24 Hour Party People, ma anche dalla drammatizzazione di Control, il documentario è una raccolta di footage d'archivio e di interviste, che rende a pieno il periodo che ha poi ispirato un'intera generazione d'artisti. Per i fan il film è un'opportunità unica di esplorare i dettagli, prima sconosciuti, che hanno contribuito a creare la leggenda attorno alla band. Ma per i membri stessi della band, per le loro famiglie, la questione è un po' più complessa. I discorsi e gli intrecci intorno a questioni cruciali potrebbero semplicemente rivelarsi giochi di narratori che tendono a sovrastare, col racconto, le azioni reali di chi realmente ha vissuto quegli eventi.

Abbiamo chiamato Stephen Morris, batterista di Joy Division e New Order, per chiedergli come si sente a riguardo. Morris si è dimostrato tutt'altro che negativo nel raccontarci il loro passato, parlava delle band come "un gruppo di ragazzi contenti e ottimisti", e sembrava abbastanza accorato nel ricordare i loro primi passi. Ciononostante, era consapevole delle questioni complesse che rimangono in sospeso quando la memoria reale e quella leggendaria diventano due racconti che si sovrappongono. Il compito è quello di riportare tutto a un piano di realismo che a volte è difficile da cogliere.

Noisey: Ciao Stephen. Partiamo da qui: a parte tutto quello che si dice del sound che riesce a cogliere un'epoca ed altre ovvietà, come mai credi che ancora così tanta gente sia affascinata dalla storia dei Joy Division?
Stephen Morris: Perché è incompleta. Credo che sia soprattutto perché non ci è mai stata data l'opportunità di fare quel cazzo di terzo album. Siamo stati cristallizzati a forza in un momento storico, ridotti a scintilla. Se avessimo mandato quest'immagine a fanculo per via di un terzo album, se ci fossimo poi divisi e se Ian fosse diventato un attore, se avessimo raggiunto la naturale conclusione di una carriera, le cose sarebbero andate diversamente. Invece questa opportunità ci è stata negata, la porta ci è stata chiusa in faccia. In un certo senso c'è bisogno di usare la propria immaginazione quando si parla di Joy Division. Ci sono molti puntini di sospensione da completare, ed è per questo che l'ossessione è ancora così viva.

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Come ci si sente a vedere un capitolo della propria vita raccontato in documentari?
Sta diventando tremendamente ripetitivo! Sembra che ogni volta che ne sento parlare, o lo racconto, la verità si allontani via via. Quando ti fermi, come ho fatto io stesso da poco, e tenti di ricordarti come sono andate davvero le cose, nell'ordine che hanno i fatti nella tua testa, ti rendi conto di quanto siano distanti dal racconto che ne viene costantemente riportato.

È assurdo come il ricordo si perda nella storia.
Sì. La memoria gioca strani trabocchetti. Pensi "potrei giurare che qui è successo questo" e poi realizzi che il palazzo in cui credevi fosse accaduto è stato costruito solo negli anni Ottanta e quindi non poteva essere successo lì.

Preferisci essere coinvolto nei film su di voi? In questo documentario racconti cose che vanno in contrasto con altre narrazioni degli stessi eventi.
Conoscevamo bene lo sceneggiatore, Jon Savage. Lui sapeva che domande farci perché era lì con noi quando tutto è successo, per questo la sua struttura funziona. Qui era molto diverso rispetto a Control o 24 Hour Party People. Quelle erano rese drammatiche dei fatti, invece questo documentario è molto realistico, perlomeno si avvicina a quello che noi ricordiamo. Penso che guardarlo sarebbe molto triste, in questo momento. È una delle ultime testimonianze di Tony Wilson, e anche Annik Honore (che è stata una fidanzata di Ian Curtis) è morta da poco. Quindi è bello, ma è anche triste che i loro pensieri siano stati registrati in questo documentario.

La città di Manchester è il filo conduttore brutto e romantico di questa storia?
Credo che potresti definirlo gotico-romantico. Noi abbiamo sempre negato l'influenza dell'ambiente, anche se è chiaro che ti influenzerà sempre, in qualche modo. Manchester, i posti in cui siamo andati, gli orrendi club. Il mio ricordo costante di Manchester è quando guardavo fuori dalla finestra della nostra sala prove e vedevo merda e pioggia, merda e pioggia. Attorno a noi c'erano solo edifici cadenti, vuoti, orribili, molti dei quali ora sono centri commerciali e ristoranti. Allora però era il nulla assoluto. Mattoni e fuliggine. Ora è tutto vetro e acciaio. Però quando Tony Wilson e Rob Gretton hanno costruito il Factory l'hanno reso un posto bellissimo, ci lasciavano fare quello che volevamo.

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(immagine via)

Quanto sei fiero dei vostri primi passi, quando eravate una band completamente sconosciuta?
Be', la nostra sala prove era tutto ciò che potevamo permetterci, una fabbrica merdosa e fredda. Niente di più tipico, giusto? Ma quando iniziavamo a suonare era incredibile. Ci prendeva completamente. I Joy Division erano il momento in cui stavamo tutti nella stessa stanza. Quello era il modo in cui noi eravamo noi stessi, l'unico modo che avevamo per esprimerci. Quando abbiamo inziato non avevamo nemmeno un registratore. La musica che facevamo era tutta nella nostra unione, nelle nostre teste tutte insieme.

Quindi dato che non vi registravate capitava che foste in disaccordo sugli arrangiamenti o sull'intenzione di un pezzo?
Certo, succedeva sempre. Di solito facevamo affidamento su Ian, dato che era l'unico che almeno si scriveva giù le cose. L'altro giorno stavo leggendo il libro che contiene i suoi testi, e ci sono alcuni passaggi che mi fanno sorridere. Noi scrivevamo le note a margine, mi ricordo quando lo facevamo, quando scrivevamo "cambio di tonalità" accanto al testo. Ho riso perché allora nessuno di noi sapeva nemmeno cosa fosse una tonalità, sapevamo che era una cosa che i musicisti facevano. Non avevamo molta idea di quello che stavamo facendo.

Nel documentario la dicono in tanti questa cosa che non sapevate cosa stavate facendo!
Perché è vero. Verissimo. È buffo. Ora, per un anniversario, stiamo ristampando un sacco di vinili, quindi io mi sto riascoltando un sacco di volte i nostri album. E riascoltandoli mi ricordo di quando li stavamo producendo, quando ci dicevamo: "non siamo dei poveretti, non siamo tristi" Ora li riascolto e mi dico: "Ma come cazzo facevamo a pensare di non esserlo?" In effetti ci dicevano sempre che il nostro suono era cupo, ma noi pensavamo "no che non siamo cupi, siamo un gruppo di ragazzi ottimisti e felici," e davvero ne eravamo convinti. Eravamo completamente disconnessi dall'immagine di noi stessi che stavamo creando. Al tempo forse sembravamo cretini, perché difendevamo una posizione del tutto irreale, ma davvero non ci rendevamo conto.

(immagine via)

Ti riesce difficile ripercorrere alcune storie, in particolare quelle riguardanti chi non c'è più?
Lo trovo abbastanza assurdo. Le cose di cui mi faccio meno problemi a parlare sono spesso quelle considerate le peggiori. Parlare dei fatti accaduti non mi disturba, ma quando inizio a pensare seriamente a cosa stavo facendo in quel determinato giorno, quando apro alcuni cassetti della memoria e rivivo certe situazioni diventa tutto molto strano. Più si racconta una storia, più uno se ne distacca, solo che quando mi rimetto in relazione con quella storia personalmente diventa tutto più duro.

Cosa pensi della notizia, abbastanza recente, di quelli che vogliono comprare la casa di Ian Curtis?
Il punto è che secondo me, anche se c'è un sacco di gente che visita Macclesfield per via di Ian e dei Joy Division, l'idea stessa di fare qualcosa alla casa di Ian mi suona marcia. Sarebbe bene fare qualcosa per rivalutare Macclesfield, perché sicuramente ha bisogno di un po' di rinnovamento, ma utilizzare la casa di Ian è davvero orrendo. Non voglio incoraggiare un atteggiamento ossessivo, perché noi, nemmeno Ian, siamo mai stati persone ossessive. A posteriori, conoscendo la storia e ascoltando la nostra musica, magari può sembrare che lo fossimo, ma non lo eravamo affatto.