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Musica

Breve storia degli italiani che cantano (male) in inglese

Perché non riusciamo ad uscire dal provincialismo, soprattutto quando tentiamo di scimmiottare le tendenze estere.

Nel 2003, Pierpaolo Capovilla affermava che l'idea di usare l'italiano per i suoi testi non lo aveva mai sfiorato. "Cantando in inglese con una sola frase di poche parole puoi dire un sacco di cose. Con l'italiano no." Parlava di maggiore flessibilità della sua "metrica musicale", e si diceva al contempo "non interessato" al fatto che la gente potesse non comprendere i suoi testi: gli One Dimensional Man si erano creati una fanbase che "sapeva i testi a memoria", e quello importava. Definiva i suoi "testi d'amore, non l'amore malato alla Nick Cave, piuttosto qualcosa di più vicino a Tom Waits. Parlo di cose che possono accadere a tutti. Divorzi, separazioni." Nel 2003, Pierpaolo Capovilla se ne usciva con una domanda in inglese un po' storta nel testo di "Tell Me Marie", un bel "why you don't talk anymore?" e un ulteriore "Why God wasn't watching over you?".

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Nel 2009 Pierpaolo Capovilla sosteneva che cantare in italiano è "bello, perché finalmente chi ci ascolta comprende ciò che dico: è l'unico modo per arrivare al cuore delle persone." Parla di immediatezza della nostra lingua, definisce l'inglese "un media fra ciò che pensi e ciò che dirai", e dice di "sorridere" quando sente dire che "fare rock in italiano è difficile". Nel 2016, Pierpaolo Capovilla parla in ogni intervista di quanto la musica sia un fatto sociale ed usa la parola "Pasolini" più delle congiunzioni. Quella nel gusto e nelle opinioni di Pierpaolo Capovilla è un'evoluzione personale ed artistica sul cui valore non entreremo nel merito, non oggi almeno. Le domande che ci poniamo sono, invece: che cosa significa e ha significato cantare in inglese in Italia? E quali sono gli effetti pratici di queste scelte?

Penso che in questo caso l'emulazione giochi un grande ruolo: ascoltiamo tutti o quasi molta musica cantata in inglese, e quindi ci viene naturale imitarla, prenderla come esempio. È alla fonte del luogo comune "l'Italia arriva sempre tardi": con i nostri tempi, assimiliamo forme musicali extra-nazionali e ci facciamo qualcosa. L'origine di questa struttura sta però nella pratica, tipicamente e storicamente italiana, di reimpacchettare (o quasi) brani stranieri per venderli al nostro pubblico generalmente poco cosmopolita. Limitandoci all'inglese, pensiamo anche solo agli anni Sessanta, quando i Dik Dik cantavano "Sognando la California", o l'Équipe 84 interpretava "Bang Bang". L'Italia del boom un po' imitava i maestri inglesi e americani e un po' se ne lasciava ispirare, e il risultato furono un movimento beat italiano coi controcoglioni e una delle scene progressive rock più prolifiche e rispettate del mondo (a cui torniamo tra poco). A questo si univa un fenomeno oggi quasi impensabile: artisti stranieri si lanciavano sull'allora fiorente mercato discografico italiano, ed erano loro a cantare nella nostra lingua.

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I The Trip con Gianni Boncompagni e Raffaella Carrà in RCA, nel 1970.

Gli inglesi Rokes, che scoprirono di piacere agli italiani dopo un concerto improvvisato a Torino in cui suonarono solo cover, ne sono stati forse l'espressione più forte. Ascoltare oggi i loro brani non può che far sorridere: il loro è un beat piacevole ma formulaico, ed è impensabile che un gruppo con un accento simile oggi possa vendere 5 milioni di dischi. Ma all'epoca funzionavano da dio, a tal punto che Gianni Boncompagni (Discoring, Non è la RAI) e il talent scout Alberigo Crocetta (che ha scoperto, tra gli altri, Patty Pravo) ci riprovarono, adescando i Primitives a Soho e portandoli al Piper di Roma con risultati qualitativamente e commercialmente altalenanti. Resta che chiamare il proprio primo singolo "Yeeeeeeh!" e iniziarlo con le parole "I tuoi ochi sono fari abbalianti, io ci sono davanti! Sì!" è una cosa adorabile. Altri esempi di successo ci sono comunque stati: lo statunitense Rocky Roberts ("Staaaasera mi butto…"), il canadese Paul Anka ("Ogni giorno" la sapete, dai), il franco-italo-libanese Herbert Pagani. Queste strutture di emulazione e ibridazione cross-nazionale, per quanto limitanti, avevano un loro fascino—e ce l'hanno ancora oggi: una sorta di sbiadito, piacevole ricordo di un tempo in cui la musica era ancora un campo libero in cui non esisteva una lingua dominante, e Brassens era un'influenza legittima tanto quanto Guthrie.

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Un passaggio fondamentale per lo sviluppo di un cantato inglese in Italia fu lo sviluppo della sopracitata scena progressive rock e, nello specifico, la pubblicazione di una versione in inglese di Felona e Sorona delle Orme da parte di Charisma Records, già casa di Genesis e Van Der Graaf Generator. Fu l'etichetta stessa a contattare il gruppo, e le rilavorazioni dei testi in inglese furono curate da Peter Hammill, proprio dei Van Der Graaf. Seguì a breve giro la Manticore, etichetta di Emerson, Lake and Palmer, che tirò a sé il Banco del Mutuo Soccorso e la Premiata Forneria Marconi. Ci si aspettava un meritato successo internazionale per quelle che erano verosimilmente promesse del genere di pari qualità ai loro equivalenti britannici. E invece. Ci furono sì concerti, tour, copie vendute. Ma, ancora oggi, il prog italiano è considerato un'entità a sé: affascinante, di qualità, interessante, unica. Ma qualcosa di, appunto, "italiano"—una definizione che lo esclude dal canone del genere. Sarà una cosa da poco, ma cercate Le Orme e il Banco su Spotify e chiamatemi se riuscite ad ascoltare uno dei loro album in inglese (la PFM c'è, stranamente).

Tra i motivi di questa non-esplosione non ci fu, ovviamente, la musica in sé. Il punto è che il prog è un genere in cui l'elemento lirico è tradizionalmente complesso e concettuale in cui il rischio-pretenziosità è costantemente dietro l'angolo. Brevemente: siamo buoni tutti a (cercare di) scrivere in inglese canzoni d'amore, ma raggiungere la profondità semantica di un "In the Court of the Crimson King" non essendo nati almeno nel Regno Unito è praticamente impossibile. Ma anche normale: gli anni Settanta furono un momento di grande evoluzione musicale, e con la diversificazione del tessuto sonoro si ampliarono e infittirono i relativi costrutti testuali, e conseguentemente aumentò il livello di scrittura necessario per fuggire alla mera copia di un modello preesistente. Un secondo punto fondamentale è il caro vecchio valore dell'opera originale rispetto alla sua rielaborazione. Hammill non aveva tradotto i testi delle Orme, li aveva riscritti da zero. E il contributo di Peter Sinfield ai testi della PFM fu fondamentale per non far storcere subito il naso ai madrelingua, ma non fu abbastanza. Se ci pensiamo, snaturare così tanto e su così tanti livelli il significato originale di un brano non ha alcun senso—nemmeno a livello commerciale, a meno di parlare di pop.

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"Impressioni di settembre": a destra il rifacimento, a sinistra l'originale, feat. errori di spelling dei siti di testi fatti male.

Un ascoltatore italiano preferirà sempre una "Impressioni di settembre" ad un suo rifacimento intitolato "The World Became the World". Questo perché 1) di una rilavorazione non ce ne facciamo niente 2) scrivere nuovi testi per brani già esistenti (o adattarli con cambiamenti strutturali) causa non solo significative differenze testuali rispetto all'originale, ma anche una forte perdita di direzione, una ramificazione nebbiosa all'interno di una discografia. Una PFM che suona brani in due lingue, magari in base alla nazione in cui si trova, perde identità. Facendo un salto temporale e sonoro: i Rammstein, che sono riusciti a diventare famosi in tutto il mondo mantenendosi assolutamente teutonici usano sì l'inglese, ma solo per scelta artistica (e per sfottere gli americani). A tutto questo si aggiunge l'effetto "Se mi lasci ti cancello": un nuovo titolo pensato in un momento diverso da quello della concezione dell'opera, atto solo a convincere un nuovo target. Infine, la pronuncia: per tutto l'aiuto che Hammill e Sinfield potevano dare a livello testuale, le voci e gli accenti di Mussida o Tagliapietra o chissàchi restavano inesorabilmente latini. E fidatevi che un inglese si accorge se a cantare non è un madrelingua—o comunque una persona fortemente allenata e/o ben formata (se a quest'ultima parte vi si è accesa in testa la parola "Scandinavia" va tutto bene).

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Un bagliore di speranza nell'uso dell'inglese in Italia fu ed è, credo, l'opera di Franco Battiato. Cito una sua intervista dell'anno scorso: una giornalista canadese gli chiede perché ha tradotto in inglese solo alcuni brani di Apriti Sesamo, il suo ultimo LP. Battiato risponde: "L'adattamento, quando riesce, lo faccio volentieri. Se non riesce, non lo faccio." Il suo è un riconoscimento dei propri limiti, una debolezza resa forza. Lasciando stare gli esperimenti di gioventù (Foetus si rifà alle logiche del prog di cui sopra), Battiato fu il primo a rendersi conto di come il suo inglese consciamente e decisamente scalcagnato potesse arricchire il proprio immaginario artistico, già spiccatamente internazionale e cross-culturale a livello tematico e sonoro. Questa logica si palesa chiaramente nel testo della celeberrima "Cuccuruccucù": una serie di madeleine esperienzial-linguistico-musicali in cui il citazionismo diventa medium di espressione sentimentale. Il suo finale, per quanto mal pronunciato e con qualche parola al posto sbagliato ("Liiikee juuust a womaaaan…"), assume la funzione di una scatola dei ricordi musicale, un pastiche creativo in cui non è l'accento di Battiato che importa ma ciò che sta dicendo: i titoli delle canzoni che ha sempre ascoltato e che gli hanno lasciato qualcosa dentro, pronunciati come l'italiano che è.

Lo stesso approccio si ritrova nell'opera di Giuni Russo, che Battiato aiutò a rendere grande (assieme a quel genio creativo che fu Giusto Pio) rendendosi conto di quanto le sue capacità vocali potessero accompagnarsi ad una poetica mondiale come la macchina di Volponi e quindi umanistica, ad un incrocio linguistico reso accessibile il giusto da poter risultare popolare. "Good Good-Bye", ad esempio, intavolava un gioco in cui l'inglese era usato col contagocce, e solo per esprimere le parti più amare del testo. "Una Vipera Sarò" aveva le "trifonie dei mongoli", "Keiko" usava il giapponese. Ma le speranze della Russo si infransero contro le logiche economiche perpetrate da Caterina Caselli, patron della sua etichetta CGD, che perseverò nel cercare di farla uscire con delle nuove "Un'Estate al Mare" fino quasi a tagliarla fuori dal mercato discografico dell'epoca. E poi, bastoni su bastoni tra le ruote: su tutti, l'esclusione da Sanremo 1984 in favore della ben più commercialmente gestibile Patty Pravo. Che—notiamo—cantava sì anche in inglese, ma quell'inglese che avrebbe aperto un nuovo grande periodo, definito dall'inglese maldestro e malridotto dell'italodisco e dell'euro-pop più embrionale.

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E proprio questa progressiva distinzione tra "lingua straniera come strumento espressivo" e "lingua straniera come strumento commerciale" sta al cuore dell'evoluzione della musica italiana, a partire dagli anni Ottanta. Iniziamo da Londra. È lì che, nel 1977, Raffaele Riefoli (che probabilmente avete sentito nominare come "Raf") fonda i Café Caracas assieme a Ghigo Renzulli, poi ideatore dei Litfiba. Insieme fanno ska-punk, e lo fanno già in barba a qualsiasi definizione di genere: il loro primo singolo contiene un rifacimento di "Tintarella di Luna" di Mina e un brano in inglese dallo sgrammaticatissimo titolo "Say It's All Right Joy". Dopo aver suonato di supporto ai Clash a Firenze (sticazzi, tra l'altro), il gruppo si scioglie. Renzulli incontra Gianni Maroccolo, con cui fonda i Litfiba e, tramite la figura di Pelù, è tra i primi a fare post-punk e new wave in italiano (e altre lingue, saggiamente usate con il contagocce—vedi il francese in "Paname").

Raf, invece, usa un brano in inglese dei Café Caracas, "Self Control", come singolo principale del suo primo album solista. A permetterglielo è l'incontro con Giancarlo Bigazzi, produttore e membro degli Squallor. "Self Control", a livello sonoro, è pura new wave, italo-pop: e se ne accorge l'americana Laura Branigan, che nel 1984 ne fa una cover, trasformandola in una hit europea: per fare il trucco è bastato aggiustare l'accento italiano di Raf e cambiare qualche parola un po' storta nel testo. Il brano originale ha comunque il suo discreto successo, e porta con sé due fenomeni contrapposti. In negativo, l'usa-e-gettabilità del prodotto musicale, che vide negli anni Ottanta un'esplosione enorme sotto forma di one hit wonder improponibili (vedi Sabrina Salerno che nel 1987 arriva in classifica in UK con "Boys", con un video le cui protagoniste assolute sono comunque le sue tette); in positivo, la nascita di un certo fascino dall'estero per l'italianità, la burinaggine del nostro accento e della nostra musica, il cui embrione stava nell'espansione dell'italo disco tramite l'opera di Giorgio Moroder e dei fratelli La Bionda.

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In quest'ottica, cantare in inglese male era diventato parte integrante del fare musica italiana. Il fatto che il testo di "Self Control" fosse una serie infinita di frasi coordinate e banalità non importava affatto: a noi sembrava comunque qualcosa di esotico, internazionale; gli stranieri si prendevano bene esattamente per l'italianità dell'interpretazione. E la stessa cosa valeva per "People From Ibiza" di Sandy Marton (che tra l'altro era croato, e tra l'altro è stato scoperto da Cecchetto): chissenefotte se la rima più sorprendente del pezzo è bad/sad, l'importante era che fosse un bellone simil-mediterraneo. Gli esempi sono tantissimi, a partire da "Masterpiece" di Gazebo e "Survivor" dell'italianissimo Mike Francis.

Quello che permise ad alcuni degli artisti dell'epoca di avere un effettivo e duraturo successo fu la presa di coscienza che l'interesse nei confronti dell'italianità come burinaggine linguistica avrebbe, prima o poi, terminato il suo carburante commerciale ed espressivo (MA VA'?). E allora Raf si diede subito all'italiano con il suo secondo LP, e arrivò il grande successo in patria. E così fece Ivana Spagna, e così fece—soprattutto—Jovanotti, che ai tempi del suo esordio Jovanotti for President se ne usciva con barre di fuoco tipo "Pretty girls you don't stop / 'Cause I'm Jovanotti, gonna make you rock" e comunque aveva successo: era in Italia, faceva l'italiano che cantava il rap in inglese, era così innocuo da poter andare in TV il pomeriggio: e che i testi fossero scritti con il dizionario tascabile non importava a nessuno. Ma fu il passaggio all'italiano a cementare tutti e tre come cantautori, e soprattutto a dar loro il benestare per la scalata al successo.

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La cosa assurda è che, se ci pensiamo, il percorso linguistico intavolato finora si è praticamente ripetuto quasi identico un paio di piani sotto, a livello di underground, di """rock indipendente""" (ci metto tante virgolette perché sappiamo che non è riducibile a una definizione). Tantissime band di ogni genere hanno visto il loro pubblico aumentare esponenzialmente con un passaggio da un inglese semi-corretto e mal pronunciato all'italiano, fino a creare, ad esempio, quelle cose che ora chiamiamo "indie italiano", e "scena emo italiana". E questo passaggio non è avvenuto consciamente, almeno credo. Nessuno si è messo a tavolino, guardandosi occhi negli occhi con Capovilla per convincerlo che avrebbe dovuto cantare in italiano perché al nostro Paese serviva un nuovo vate. O forse qualcuno si è anche reso conto che per stare in questo Paese bisogna scendere a patti col suo provincialismo e con la voglia di sentirsi sempre a casa, soprattutto linguisticamente (se ci pensate, è lo stesso processo che ci porta ad essere i più forti del mondo quando si parla di doppiatori, mentre in tutto il resto del globo si convive più tranquillamente con l'idea che—hey—esistono anche prodotti culturali in altre lingue!). Ma lasciando perdere le elucubrazioni, può essere semplicemente accaduto che diversi artisti con un onesto seguito abbiano provato a usare la loro lingua, lasciandosi dietro le storture e le pronunce da quinta liceo, e abbiano visto che funzionava sia per loro come scrittori che per il loro pubblico, che finalmente iniziava a cantare i pezzi, a trascriverseli sul diario (e per diario intendo Facebook). Nei Novanta, la struttura di cui sopra è stata particolarmente evidente negli Afterhours. Dopo tre album in inglese arrivò Germi, e quasi immediatamente si iniziò a parlare di una prolifica scena alt-rock nazionale la cui coda lunga è formata, oggi, da quello che sappiamo. Ma, indipendentemente da giudizi di gusto, è evidente come il passaggio alla lingua natìa abbia avuto, e abbia tutt'ora, il potenziale di valorizzare contenuti lirici altrimenti voglio-ma-non-posso, e quindi portare ad un significativo successo discografico. A mostrare quanto i corsi e i ricorsi della storia siano un concetto sensato c'è il loro Ballads for Little Hyenas, rifacimento in inglese di Ballate per Piccole Iene. Venne pubblicato per One Little Indian e nacque con la supervisione di Greg Dulli degli Afghan Whigs, che già aveva curato la produzione dell'originale italiano. Un po' com'era successo col prog rock, e con risultati molto simili: oggi Agnelli suona sì in giro per l'Europa—in acustico, in supporto proprio a Dulli, e a vederlo ci sono sempre solo un sacco di italiani (presi benissimo però). Ha quindi totalmente senso che, attorno al 2008, lo stesso passaggio linguistico abbia portato alla nascita di quel movimento eterogeneo che viene definito "indie italiano" e aveva allora una generale parvenza di freschezza, novità e valore artistico. Per fare un nome: nonostante fossero anni che usavano sia l'inglese che l'italiano, gli Zen Circus iniziarono effettivamente a venir fuori solo con i singoli di Villa Inferno e l'endorsement di Brian Ritchie dei Violent Femmes. Prima, i loro testi erano un campo minato linguistico: il loro secondo album aveva addirittura un pezzo con un errore di spelling nel titolo ("Sneacky Behaviour"), anche se ora sul sito ufficiale hanno corretto l'errore. Ma chiamare un brano "Figlio di puttana" era molto più efficace che usare un "Motherfucker" qualsiasi: e così il successivo Andate Tutti Affanculo venne quindi percepito come un disco sincero e personale, audace ed esperienziale nel suo sbandierato, ironico qualunquismo.

Lo stesso ragionamento si può applicare a Dell'Impero Delle Tenebre del Teatro degli Orrori, o tornando a qualche anno prima ad In Circolo dei Perturbazione: entrambi album che marchiarono la nascita di registri stilistici riconoscibili e particolarmente confortevoli per l'ascoltatore. Se devo prendermi malissimo perché la tipa mi ha lasciato mi trovo meglio a cantare "Agosto è il mese più freddo dell'anno" rispetto a "I've heard you scream your pain in vain / Alone, away from home". Allo stesso modo, un Capovilla che al posto di "Stasera mi sbronzo di brutto e alla fine mi sdraio per terra e dormo come un cane" avesse cantato "Tonight I'll get fucked up, I'll lie on the train tracks and sleep like a dog!" oggi sarebbe probabilmente a suonare alle due di pomeriggio al MI AMI. Con le dovute differenze, lo stesso passaggio lo hanno fatto i Fine Before You Came, verosimilmente esempio più fulgido e meritevole di quella cosa che chiamiamo "emo italiano" e sotto cui raccogliamo cose molto, molto diverse le une dalle altre. Il loro esordio Cultivation of Ease, per quanto visceralmente carico di significato, si scontrava con un uso dell'inglese piuttosto amatoriale, e li "limitava" (virgolette in quanto quello che sto per scrivere non è un limite di per sé) ad un pubblico relativamente piccolo, per quanto fedele. Questo fino all'uscita di Sfortuna, primo loro album in italiano, osannato generalmente come loro capolavoro e disco-di-partenza di un filone stilistico che ha sì creato un meritatissimo seguito attorno alla scena, ma ha contemporaneamente e involontariamente contribuito alla nascita di luoghi comuni stilistici e non. Concetti come "i pugni nelle tasche" e il "quando fuori piove"; lo scrivere i testi / tutti così, senza le maiuscole / e con le barre in mezzo; il definire i membri della propria band solo come "Gli xxx sono Nando, Franco, Piero e Giovanni". Tutti FBYC-ismi che non sarebbero forse mai arrivati a così tante persone se Sfortuna si fosse chiamato Bad Luck (quanto suona meglio in italiano, tra l'altro? Tanto). Su scala leggermente minore citiamo anche i Gazebo Penguins: l'eco ottenuto da Legna mandò immediatamente nel dimenticatoio The Name Is Not the Named, i cui testi—se pensati in italiano—proponevano in fondo gli stessi temi che hanno fatto risuonare i Gazebo con così tanti ascoltatori. Per fare un esempio: "Ho dimenticato la mia valigia preferita / Tra i bagagli smarriti, al gate dell'aeroporto / Nel frigo non c'è niente di nuovo / E ora non posso più vivere nella mia città" diceva un testo di allora, tradotto in italiano. Restando in tema "cose HC e DIY", dobbiamo citare un caso particolare: i Raein, che sono riusciti a diventar famosi in mezzo mondo cantando in un inglese inizialmente non impeccabile (e ciccando pure il titolo del loro secondo album: Il n'y a Pas de Orchestre al posto di Il n'y a Pas d'Orchestre) e sono passati all'italiano a carriera già lanciata. Come? Innanzitutto inventandosi un genere che avesse un appeal fortemente sonoro più che testuale. Un ascoltatore può sentirsi coinvolto da "Tigersuit" indipendentemente da ciò che il cantante dice—dato che l'unica parte del testo che si capisce chiaramente è "This is my tigersuit". A volte infatti i loro testi, come quelli dei fratelli La Quiete, non vengono poi effettivamente cantati: vivono solo sulla carta, pura espressione letteraria. È una modalità espressiva che dimostra come la lingua possa non essere un fattore decisivo nell'effettiva risonanza culturale dell'opera di un'artista. I La Quiete possono cantare in italiano in Giappone come in Ucraina, e la gente sarà sempre lì, schiacciatissima, a muovere la testa.

Senza la benevola foschia data dalle grida e dai chitarroni dello screamo, però, sono cazzi: e di gruppi italiani che si ostinano (o si sono ostinati) a cantare in inglese facendo sentire bene le loro pronunce latine ce ne sono a caterve. A meno di non trovarsi per fortuna tra le mani Jonathan Clancy, bisogna accontentarsi dell'italoglese di band come Giardini di Mirò, Klimt 1918, A Toys Orchestra, Julie's Haircut, Super Elastic Bubble Plastic, Criminal Jokers (ma c'è anche chi lo fa bene, come ad esempio i Dags!). Tutte band che si sono sparate da sole nelle ginocchia auto-escludendosi in parte dai giochi e rimanendo in una sorta di limbo tra fama e anonimato, anche esaltate a livello di stampa ma inesorabilmente rimaste chiuse nella loro fascia media di ascoltatori, che probabilmente non si pongono nemmeno il problema della lingua. È come se in alcuni casi il provincialismo facesse comodo, e in molti si adagiassero in quella fascia per cui si finge semplicemente di voler varcare le barriere linguistiche per la comodità di non scontrarsi con i costrutti complessi della nostra lingua, quando l'intenzione di varcare le barriere nazionali probabilmente è concentrata sull'approdo al palco dello Sziget. Ed è un peccato, perché in questo modo si lascia che la ricerca linguistica nella musica cantata in italiano rimanga confinata a territori paralleli, come quello del rap, mentre tutto il resto è solo un replicarsi di grammatiche e metriche da canzonetta pop. Si ha l'impressione che i musicisti italiani ad un certo punto della loro carriera si trovino davanti alla drammatica scelta tra un italiano complesso, beffardo e che il più delle volte ti ritorna indietro a boomerang e la comodità delle sillabe sbiascicate in inglese. C'è una terza via, poi, che è simile a quella alla Battiato: un approccio che usi sì il plurilinguismo, ma in maniera funzionale ai propri limiti. Quando Pop_X canta in inglese, ad esempio, lo fa con una pronuncia un po' così e dicendo cose molto semplici, ma non disturba, anzi, contribuisce al generale dadaismo musicale che crea in ogni canzone. Ed è proprio in quest'uso strumentale dell'inglese, penso, che possa stare oggi il suo valore nella musica italiana. Ho l'impressione che, finché per i musicisti italiani l'inglese sarà una via di fuga dalla complessità espressiva nella propria lingua, finché ci ostineremo a provare a ricreare strutture a noi estranee, o ad esprimere in una lingua che non padroneggiamo veramente le nostre idee, la musica italiana continuerà ad essere la versione da discount dell'originale. Quando prenderemo atto del nostro reale livello linguistico e impareremo ad utilizzarlo in chiave migliorativa allora sì ci sarà l'opportunità di creare qualcosa di nuovo—e speriamo che questi casi coincidano a esempi di "musica italiana" con un potenziale respiro estero. Per avere dei Phoenix, o dei Tallest Man on Earth, o dei Kings of Convenience, o dei Notwist italiani* ci vorrà innanzitutto qualcuno che decida di non comportarsi più da provncia dell'impero, che emigri, ma non per andare a vivere a Little Italy, non so se mi spiego. Altrimenti, sarebbe il caso di concentrarci realmente sulle sperimentazioni fonetiche e liriche che la nostra lingua permette (non lasciamo che siano sempre e solo i fuoriclasse a farlo), perché uno dei motivi per cui il rap, ora, è quasi l'unico genere che è riuscito a risalire dall'underground è che non teme di scontrarsi costantemente con un'evoluzione verbale, oltre che musicale, in modo da rimanere aderenti alle evoluzioni narrative della nostra cultura. * Se vi è venuto in mente di commentare "CHE MERDA, MENO MALE CHE NON CI SONO GLI X ITALIANI": sono solo esempi di band con accenti e dialettica decenti se non ottimi con un onesto seguito in giro per il mondo.

Elia, oltre a scrivere su Noisey, gestisce il sito Traduco Canzoni. Non usa mai Twitter, ciononostante eccolo qua: @elia_alovisi

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