FYI.

This story is over 5 years old.

Musica

È un aereo... È un uccello... No, è Toto Cutugno!

Torniamo a parlare di Toto, stavolta attraverso i suoi Albatros, ovvero una band che incarnava perfettamente gli anni Settanta italiani.

Ragazzi oramai è chiaro: se non sei in grado di manipolare Internet al giorno d'oggi non sei nessuno, ma questo non vuol dire che sia prerogativa dei giovani, che a volte non sono buoni neanche a fare una ricerca su Google. Nel campo del pop italiano Over 60 la nuova frontiera è l’utilizzo di YouTube per attacchi mediatici usa e getta, ad esempio per rimanere sui fatti recenti abbiamo assistito alle sortite di Anna Oxa, con i suoi deliri complottisti. Prima ancora, però, c'è stato Toto Cutugno: il quale proprio quest’anno ha aperto un suo profilo Facebook ufficiale, e l'ha reso celebre con un video che probabilmente avete già visto tutti, ovvero una reinterpretazione in cinese con tanto di arrangiamenti asian pop della celeberrima "L’Italiano", girato nella Chinatown milanese, ma l’illusione è di trovarsi veramente in oriente. L’operazione nasce per pubblicizzare la trasmissione Italiani Made In China, proprio ieri al debutto su Discovery Channel. È evidente che Toto guarda al futuro, ad un Italia multietnica, ma soprattutto alle grazie di uno dei paesi più turbocapitalisti della storia, superando a sinistra i deliri leghisti degli ultimi tempi. Insomma, innovazione, apertura agli esotismi, voglia di stranezze e un occhio al portafogli. Eppure non è la prima volta che il nostro Toto nazionale si dedica a progetti simili. Negli anni Settanta pochi sanno che, prima del boom solista e nazionalpopolare, Toto era a capo di una band di scapocchiati chiamati Albatros, autori di una manciata di 45 giri e di un unico LP: un mischiotto davvero senza frontiere che in quanto a weirdaggine non era secondo a nessuno.

Pubblicità

Toto Cutugno inizia la sua carriera come batterista autodidatta, e con questo strumento nei primi Settanta milita in formazioni dai nomi imbarazzanti: vi dicono niente Ghigo e i Goghi? Erano la band del grande Ghigo Agosti, pioniere del rock demenziale. E Toto e i Tati? Quest’ultima era invece la ragione sociale con Cotugno aveva partecipato a Un Disco Per L'Estate, rimanendo però nell’area beat molto in voga allora. Sarà solo quando il nostro darà sfogo alle sue pulsioni di polistrumentista (lo ricordiamo anche al sassofono, sdoganato da Elio in un famoso Dopofestival) che nasceranno gli Albatros, formazione che oltre a Cutugno vedrà un turnover di ben 12 elementi. Strappato un contratto alla Carosello (sì, la stessa etichetta di Vasco Rossi) e trovato in Pallavicini (già collaboratore di Paolo Conte) un braccio destro, nel 1975 pubblicano il primo 45 giri, Africa, che diventerà una hit in Francia grazie al cantante Joe Dassin. Mentre costui ne fa una canzone romantica, l’originale è invece un atto di accusa contro lo strapotere coloniale bianco, in cui un Cutugno sente le voci degli avi che lo invitano a tornare nella madre Africa. L’invettiva si consuma sopra field recordings di uccelli esotici e risacche, con un semplicissimo parlato psichedelico, flauti e vocalizzi lounge accanto a sintetizzatori impazziti. Appunto “misterious, weird, almost unread”. La loro è una “spaghetti wasteland” pop, leggera ma allo stesso tempo intrisa di umori prog, afrofunk e ispirati agli spoken word dei dischi soul d’epoca.

Pubblicità

La cosa interessante degli Albatros, poi, è che non spicca un leader. Il lato B parla chiaro, è una roba alla Deodato, tutto tiro di basso, fiati, piani elettrici, funk, sudore e nessun tipo di cantato, nessun punto di riferimento. C’è l’intenzione di una library music a base di funk italiano meccanico, roba usa e getta principalmente fatta per muovere le chiappe. Robot disco ante litteram che verrà sovente usata come sigla di trasmissioni sportive varie e eventuali, destino che è toccato anche alla musica di Battiato, figuriamoci questa.

Ancora freschi di successo oltralpe, i misteriosi Albatros preparano un intervento a gamba tesa per il mercato italiano: nel 1976 si presentano a Sanremo con un brano che definire improponibile è poco. "Volo AZ504" è infatti una storia assurda, con protagonista l’aborto, sul serio. Una donna abbandona per sempre il compagno, reo di averla costretta ad abortire, e in un monologo parlato ne smaschera la codardia. "Potevo lasciarti avere il bambino ma, ma ti rendi conto di quello che sarebbe successo?". Erroneamente vista come una canzone antiabortista, "Volo AZ504" è invece solamente uno spaccato spietato: l’aborto imposto dal maschio padrone che rimane alla fine solo con i suoi spettri, mangiato dal rumore assordante del reattore in partenza, mentre Cutugno urla quasi come nel finale di Teorema.

Continua sotto.

A favore di questa tesi, la voce femminile recitante è di Silvia Dioniso, meglio conosciuta come la moglie di un altro Deodato, Ruggero, nonché interprete nel film erotico Ondata Di Piacere, certo non una stinca di santo. In realtà forse neanche si prende una posizione netta sulla questione, lasciando aperta la pista della contraccezione negata e dei casini annessi. Il pezzo comunque sia è un pestone tutto synth e arie corali in odore cosmico. Forse anche grazie a questo e all’argomento scottante in un'Italia bigotta che introdurrà l'interruzione volontaria di gravidanza solo due anni dopo, il pezzo raggiungerà il terzo posto a Sanremo, risultato incredibile per una band sconosciuta.

Pubblicità

Il singolo servirà da traino per l'omonimo album, che è un'accozzaglia di stili: sterzate rapide dal melodico al disco-funk senza soluzione di continuità, sempre caratterizzate da arrangiamenti sintetici. Come in "L’Albatros", in cui la tradizione melodica italiana si unisce al pop sinfonico arrivando a sfiorare il dream, con falsetti improvvisi e andazzo quasi depressivo, da sommare alla voce per nulla rassicurante di Cutugno. Sullo sfondo ricama con i sintetizzatori il maestro dell'elettronica italiana Luigi Tonet, che probabilmente ha messo lo zampino un po' in tutto il disco.

In "Monja Monja" c’è una eco morriconiana di armonica a bocca, che poi diventa una specie di pezzo protopunk melodico/prog, con stacconi mitigati da orchestra e clavinet, mentre la batteria segue un ritmo che sembra quasi disco. Il neo principale è che da questo momento in poi nel disco compare il Cutugno che tutti conosciamo, anche se ancora capace di rischiare qualcosa. Esempio per tutti il seguente "Marienege", in cui non esiste testo nonostante il brano sia cantabile. Il tentativo è forse quello di fare una musica di sottofondo, che sostituisca il rumore bianco dei televisori. Sicuramente un tentativo migliore rispetto al singolo che arriverà più tardi "Nel Cuore Nei Sensi", che con la sua ambizione autoriale fallisce la mira.

Meno male che la sensazione di camminare sulla merda scompare nel brano seguente, intitolato "Private Collection", che è un missilone funk disco alla Cerrone, con tanto di sax alla Roxy Music, e un Cutugno che ammicca ad una "collezione privata" probabilmente non di memorabilia, ma di stangone alte 3 metri. Gina X gli fa una pippa, diciamolo. Zozzo, sulfureo e ignorante, subito dopo fa largo ad una "Parte 2" che supera i sei minuti netti.

Pubblicità

Il disco prosegue con "Africa/Ha Ri Ah", che già abbiamo assaporato sopra, ma rimaniamo immediatamente spiazzati da "Oui Bon D’Accord", che è tipo una disco samba priva di testi fra il tropicalismo da cartolina e staccazzi funky da reggiseni lanciati in aria. Una schizofrenia inspiegabile se non con l’incapacità di fissarsi su di un'unica visione musicale, per quanto parziale. Il finale del pezzo, contro ogni legge fisica, è tagliato col machete. Conclude il disco una versione strumentale di "Volo AZ504", perfetta per un proto karaoke, tutta vocalizzi femminili in zona scapoli contro ammogliati.

Probabilmente consci di essere un gruppo da singolo, i nostri sfornano l’ennesima partecipazione a Sanremo con "Gran Premio": sintetizzatori in odor di Umiliani e la storia di un pilota di Formula 1 che decide di smettere di correre dopo un clamoroso incidente "un volante io, la velocità". Nonostante la forma pop, aleggia uno spettro wave disco negli arrangiamenti, che mischiano anche staccati di violino e citazioni classiche. Il risultato è un quinto posto a Sanremo e l'inizio della crisi rispetto alla linea da tenere.

Il meglio deve arrivare, per cui al solito i nostri pubblicano uno strumentale che è un vero razzo elettrodisco, "Stop Stop Violence", che in alcune linee di flauto anticipa persino il tema di Phenomena. Fiati blaxploitation e bordate si sintetizzatore alla Speak And Spell dei Depeche Mode. Nessuna traccia del cantautorato melodico di Cutugno, che sembra dimenticato per sempre.

Nel 1978 infatti gli Albatros si buttano a pesce nel suono latino, e se ne escono con "Santa Maria De Portugal", un pezzo italo-disco-samba che, pubblicato dapprima solo nei Paesi Bassi, spopolerà in tutto il mondo. È evidente che qui non interessa fare una canzone, quanto mirare al riempipista, rimanere il più superficiale possibile, così come la dance perfetta e di plastica sa essere. Destino vuole invece che il gruppo si sfaldi: c’è chi apre una casa discografica, chi si mette a fare l’autotrasportatore di giornali, chi finisce in banca e chi invece prosegue la sigla, anche se ridotto a suonare in feste di piazza raschiando il fondo di una popolarità che non c’è mai stata. L’unico a vincere—almeno con il pubblico—è Toto Cutugno, di cui conosciamo bene il fortunato destino. In un periodo come questo si cerca l’artista perfetto del 2015, qualcuno che sappia tradurre in musica le alienazioni di questa era: alcuni l’hanno trovato in Holly Herndon. Bene: gli Albatros sono, seguendo questo ragionamento, la perfetta sintesi degli anni Settanta italiani. Un periodo vissuto fra personale e politico, sperimentazione e pop, voglia di superficie e ambizioni di profondità, desiderio di arrivare a tutti e a nessuno, unire il Diavolo con l’Acqua Santa. Un passato imperfetto che diventa presente in cui guardarsi, e Toto Cutugno lo sa. D’altronde non era lui a scrivere "Noi siamo i ragazzi di oggi noi / Con tutto il mondo davanti a noi / Viviamo nel sogno di poi?"

Segui Demented su Twitter — @DementedThement