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Musica

Buona sera, Pino

"Italian Folgorati" ricorda o' scugnizzo senza coccodrilli, ma parlando del suo monumentale misto di fusion e musica del sud del mondo.

I: Ma si sente piu’ musicista o cantautore?
P.D: “Io mi sento un ricercatore. La musica è una ricerca continua e io non ho mai smesso di coltivare la mia”
( Pino Daniele a Tv Sorrisi e canzoni – 28 agosto 2014)

Come avrete potuto constatare, la morte di Pino Daniele (come quella di un altro Pino, Mango), su Italian Folgorati è passata in sordina. Questo perché i coccodrilli—per quanto nel nostro caso sinceri—oramai non ci piacciono più e perché è facile salire sul carro dei vincitori a cadavere ancora caldo: ci interessa il rispetto per la memoria. Vero è che nella marea di attestati d’amore per questo e quell’altro cantautore qualcosa non quadra: è impossibile pensare a una vera passione per i due Pino se di tutto il loro repertorio si ricorda solo “Quando” e “O’ Scarrafone” o ( nel caso di Mango) “Bella D’Estate” e “Oro”. Tutti questi fan nuovi di pacca sembrano più roba da autogrill che altro: ma tant’è, l’importante è che se ne parli. Avremo quindi modo di scavare un po’ nelle pieghe di questi due fenomeni per capire la loro vera eredità nei confronti della musica italiana trasversale, non solo per il pop di alta classifica: iniziamo quindi dal Daniele Pino per mere ragioni di ordine alfabetico e non per meriti speciali (che comunque ci sono, e sono innegabili).

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Ebbene, Pino Daniele ci ha lasciato. Si è detto e stradetto che è un simbolo di Napoli, anzi È Napoli, e Napoli l’ha celebrato con affetto per quello che è, un suo eroe: è vero anche che Napoli Pino ha dovuto lasciarla perché, come dice il grandissimo sassofonista afronapoletano James Senese, “nun je la faceva cchiu’”. I motivi di questo allontanamento sono forse dovuti anche a “pericolose abitudini”( per dirla alla Vasco) dalle quali Pino cercava in tutti i modi di allontanarsi, a tutela della propria salute: ma anche perché era essenzialmente curioso di nuovi linguaggi musicali, di meticciati sonori, di misture che potessero essere la colonna sonora del “nuovo mondo”, distillandoli e setacciandoli con la sua indole mediterranea. Insomma Pino Daniele era un vero bluesman, ma di quelli proiettati nel futuro: soprattutto perché sapeva che la musica napoletana (e quella italiana, quindi) una volta ibridata poteva essere esportata tranquillamente all’estero senza problemi, e non solo per ascolti di nicchia. La storia ha dimostrato che aveva ragione, almeno fino a un certo periodo.

Pino nasce infatti povero in canna, con cinque fratelli e un padre che lavora al porto. Ovviamente non ha i soldi per permettersi un maestro di chitarra e all’inizio è autodidatta: poi approfondisce andando a lezione, ma solo dopo essersi diplomato ragioniere (che non si sa mai). Il primo gruppo in cui milita sono i Bratacomiomachia (che non è derivato da un testo di Raf come si dic in giro), condiviso con alcuni nomi che poi saranno l’osso del Napolitan Power, cioè il movimento musical/culturale che rinnoverà la musica partenopea pescando nel jazz rock, nel funk e nella tradizione. Questi nomi sono—fra gli altri—Enzo Avitabile, Rino Zurzolo e Rosario Jermano, che in futuro il nostro vorrà ancora con se. Per ora si fanno le ossa, fino a che Pino non si mette a fare il session man per alzare due lire: lo vediamo quindi al fianco di Jenny Sorrenti ( si, la talentuosa sorella del piu’ famoso Alan) e di Mario Musella, il cantante dei leggendari Showmen in cui militava proprio Senese. Ed è dopo la collaborazione con Musella che Senese e Daniele si incontrano, dando vita ad una delle più intense intese musicali mai esistite in natura.

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James, figlio di un marine nero e di una napoletana, è un parto della guerra. È figlio del blues, non per ridere ma per davvero. È quel “nero a metà” di cui Pino Daniele parla sempre nelle interviste e con cui battezzò anche uno dei suoi migliori album, che stava recentemente riproponendo live con la formazione originale. È Senese a diventare il “maestro “ di Pino , e allo stesso modo—parole sue—con il giovane Pino lui ritrova se stesso, l’entusiasmo, la forza di sperimentare. Ecco quindi l’ingresso immediato di Pino nei Napoli Centrale, che spero non abbiano bisogno di presentazioni. Una formazione massiccissima, sanguigna e radicata nel jazz rock di strada, basti pensare che si diceva il batterista Franco Del Prete avesse imparato a suonare la batteria usando delle pentole e dei bidoni. Per non togliere spazio ai titolari, però, Pino qui suona il basso. E’ il 1976, e nel 1977 esce l’album nuovo dei Napoli Centrale, Qualcosa Ca Nu'Mmore un sottovalutato capolavoro che spinge il suono della band (checché se ne dica) verso nuovi lidi. Quei lidi che Pino Daniele sta per approfondire da solo, o meglio, da solo con l’aiuto dei suoi amici: musicisti solisti dalla grande personalità che non si pestano i piedi col loro genio, ma anzi collaborano per una nuova idea di musica napoletana. Appunto, il Neapolitan Power.

Terra Mia, del 1977, è il disco solista che porterà Daniele oltre i confini di Napoli. Il produttore Claudio Poggi (poi suo manager) ascolta un provino e lo propone alla EMI, che accetta di investire sul chitarrista. Si, perché Pino Daniele è principalmente un eccezionale chitarrista, in cui anima e tecnica vanno a braccetto con una misura unica: solo che senza cantare si sente nudo, e fortunatamente ha una voce che si riconosce fra mille. In un certo senso è un cantautore atipico, perché la musicalità sembra apparentemente in primo piano rispetto alle parole. Ma i testi di terra mia sono comunque asciutti e pieni di una poesia impegnata, che va dalla protesta al quotidiano della Napoli povera, coraggiosamente in dialetto proprio perché più musicale. E dire che il nostro, prima della chiamata alle armi nella discografia ufficiale, era sul punto di diventare uno steward dell’Alitalia. Pazienza, volerà lo stesso, ma in classifica.

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Terra Mia è il primo passo, legato a un ibridazione fra blues semielettrico alla Bennato e la roba della NCCP: in cui la tradizione si fa sentire pesantemente anche nell’adozione di certi strumenti. La scelta del dialetto invece è mutuata dalla poetica dei Napoli Centrale, ma anche del lavoro di Tullio De Piscopo, soprattutto con il seminale Sotto E 'N Coppa. Ma Pino a differenza dei suoi amici ha la capacità di essere delicato anche quando dice “sfaccimm” o quando se la prende col sistema, e questo fa la differenza in senso pop. "Napule È" è un esempio di questo stile limpido e privo di cadute o sbavature. Ma il bello deve ancora venire, e Pino corregge poco a poco il tiro, spostando la ricerca blues verso lidi di jazz elettrico, non senza strizzatine d’occhio alla classifica (vedi i Bee Gees citati in “Quanno Piove”). Nero A Metà infatti (dopo lo spartiacque Pino Daniele) è il disco in cui il pop diventa il pretesto per osare suddivisioni ritmiche impossibili e inasprire gli arrangiamenti, grazie alla mano pesante di Senese, che in pratica è il suo braccio destro per tre anni (ricordiamo alla batteria il Marangolo dei Goblin e dei Perigeo). Meno blues quindi, ma più sperimentazione a tutto tondo e più funky: Vai Mo' (con la megaformazione Senese-De Piscopo–Esposito—Vitolo—Amoruso) è un esempio cruciale, dove l’america nera funk rock la fa da padrona, e la commistione fra lingua italiana e napoletana è sempre più incisiva, fino a includere anche un americano volutamente “da emigrato” (più che l’inglese).

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Tant’è che il successivo disco Bella Mbriana vede Pino oramai lanciato in campo internazionale: fra i musicisti ci sono nientepopodimeno che Wayne Shorter e Alphonso Johnson, entrambi Weather Report (ma per Shorter soprattutto conta il quintetto di Miles Davis). E il 1983 è appunto l’anno della consacrazione al festival di Montreaux: nelle interviste Pino Daniele descriverà la sua musica come uno specchio di Napoli: una città dal ritmo veloce e spezzato, melodia, porto di mare di musiche e di culture. L’interesse di Daniele qui è verso una world music ante litteram, un crossover di stili in tempi non sospetti: non tutti potevano godere di certe collaborazioni all’epoca, nate non per calcolo ma per affinità e casualità quali suonare in giro per i festival: parliamo di gente come Ritchie Havens e Gato Barbieri. Nel 1984, con Musicante, avremo altri nomi allucinanti come Mel Collins (ex King Crimson e Alan Parsons Project), Don Cherry e Nana Vasconcelos, che sviluppano il discorso musicale in direzione Africa. Potremmo considerarlo il suo Arca Di Noè, visto l’inserimento del Fairlight e di suoni diafani e ariosi.

L’elettronica comincia a penetrare generosamente: il successivo e interessantissimo Ferryboat suona incredibilmente mutant, alla Material e alla Talking Heads, "Bona Jurnata" sembra "Rise" dei PIL un anno prima. Nonostante sia un disco interessante e nonostante Pino provi a produrlo da indipendente con la sua Scio’ Records vendendo pure parecchio, il disco crea perplessità negli affezionati di Pino che purtroppo sono affetti da nostalgia delle “canzoni di una volta”. E allora Pino Daniele, intanto che si occupa delle colonne sonore dell’ amico Troisi, decide di incidere un disco incompromissorio, per mettere un po’ alla prova se stesso un po’ il suo pubblico: l’esperimento in questione ha nome Bonne Soiree, viene pubblicato nel 1987 ed è il disco più ostico mai pubblicato da Pino Daniele.

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Facciamo una digressione: tutti voi avete seguito la strage del 7 gennaio in Francia, l’assassinio dei vignettisti di Charlie Hebdo e tutta la sequela di sconvolgimenti politico/emozional /opinionista che ha comportato. In un’era in cui il meticciato dovrebbe essere la regola, sembra di essere tornati a un medioevale terrore delle razze e di se stessi. Stranamente quest’evento ha avuto luogo proprio dopo la morte di Pino. Dico questo perché Bonne Soirèe nasce in Francia, con un intento ben preciso.

Cito dal sito ufficiale di Pino Daniele “Daniele guarda sempre di più ai suoni del mondo, i concerti in Francia gli mostrano che esiste una musica 'altra', lontana dal dominio angloamericano, vicina tra l’altro a quella delle sue radici. Bonne Soirèe (’87) è un canto latino, mediterraneo, africano, arabo, impreziosita dai contributi di Mino Cinelu e Jerry Marotta. L’arab rock inizia qui."

Esatto: questo fantomatico “arab rock” non è altro che una intuizione sul futuro della musica e del mondo. Se è vero che oggi si sbava dietro a fenomeni culturali quali Sublime Frequencies, Nashazphone, rock dei beduini e compagnia bella (a volte con estrema superficialità) Pino Daniele aveva già visto tutto materializzarsi davanti ai suoi occhi. Persino i suoni, elettronici e freddi ma trattati in modo caldo e malato, scuro, come se le macchine fossero residuati bellici. Sicuramente è fusion, ma è la fusion degli “zozzi”. Se paragoniamo questo disco che ne so…alla roba degli Yellowjackets d’epoca, nel disco di Pino si riconoscono le buste di immondizia di qualche banlieue parigina trasformate in suoni. Pino ha deciso di scommettere sui suoni arabi, portoghesi, latini, insomma tutto ciò che ha a che fare con il concetto di melting pot derivato dall’emigrazione. Alla fine anche il napoletano è dovuto passare sotto le stesse forche caudine, e l’America non è quindi l’unica spiaggia sulla quale attraccare. Soprattutto, non sarà più la terra promessa: tutto si è spostato in Europa perché il sud del mondo va a finire lì. Di fronte a queste intuizioni è necessario mettere il disco sul piatto ascoltandolo come se fosse uscito l’altroieri. Le sorprese non mancheranno.

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E quindi ecco : "Finchè sei a terra e non mi guardi in faccia io sarò/in fondo solo un animale". La tematica dell’emigrazione, del razzismo, della ricerca di una terra promessa in cui campare è la tematica della title track, che sfoggia da subito umori algerini e ritmi spezzati marocchini. "A sud l’aria ci fa bene/E fra la polvere e il risparmio poi si sparerà/Ma molta gente sai è per bene": roba alla La Haine. Tastiere tipo Fatima al Qadiri, effettistica usata a pennellate, suddivisioni dispari e uno sfogo classic funk per i fan del vecchio Pino. Coda africana tutta stoppati di chitarra e impro percussive. Insomma un bel biglietto da visita soprattutto per i musicisti coinvolti: Jerry Marotta alla batteria ( Tears for fears/Iggy pop), Bruno Illiano alle tastiere, il francese del lotto Mino Cinelu alle percussioni e alle programmazioni (già Miles Davis periodo 80s) , il già citato Mel Collins al sax e Pino Palladino al basso (Gary Numan/Tears For Fears). Not bad at all, guaglio’.

Bene, il secondo brano apparentemente sembra un classico di Pino, una canzone d’amore delicata e a rischio melassa che anticipa il discutibile futuro pop del nostro: però improvvisamente prende una virata storto jazz collimando in un mood tipo Khaled impasticcato. Insomma a un certo punto del pezzo non si capisce più un cazzo. Pino spara assolazzi su una chitarra metallara , tirando fuori anche arrangiamenti alla Miles di Live In Munich. Insomma a furia di stacchi, tempi impazziti e chitarre afrofunk il pezzo diventa da subito qualcosa di completamente diverso da una canzoncina. Diventa un terremoto emotivo che non si esime da slanci politico- poetici "Tu sei o’ rumore int’e piazze/Ca nun sento cchiù".

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E guardiamolo in faccia sto nuovo Pino. “Guardami In Face” inizia con toni hip hop, staccati di synth e liquidate soulfunk. Piglio accellerazionista, arrangiamenti a furia di esotismi spappolati, Pino urla impastato dall'eco che rotola; il brano muta in un funk astratto in cui il testo serve solo per sostenere il sound. Inserimenti pre-PC music a base di clap ultrasintetici, un loop infinito che ti rincretinisce e indubbi i riferimenti al Prince del Black Album, anche se filtrati in un contesto latino .

Ed ecco uno dei picchi del disco, “Baccalà" è un deliro che comprime in pochi minuti almeno 4 stili differenti. Si passa dal tuareg-rock al brasile fino alla salsa cubana. Tutto questo ovviamente condito da accordi fuori dalla grazia di Dio, in cui ci si trova Zappa come Herbie Hancock . “Tu si tutto scemo” dice Pino a un suo amico particolarmente cazzaro. Una cosa che diremmo tranquillamente a quelli che credono di saperla lunga sul sud e sugli extracomunitari. Pino urla ancora una volta, effettato, con un risultato straniante e assolutamente anticommerciale. La canzone pare una stronzata invece è l’ennesimo frullato di cervello.

“Nu puoco E Sentimento” parte con delle tastiere arabe coi bei cori finti che oggi vanno per la maggiore. Una bella arabata che non disdegna occhiate turche. La fiera delle progressioni armoniche malate e dei ritmi fusion bruciati alla Allan Holdsworth si sprecano. Anche qui il testo finisce per seppellire nella musica, come in un capogiro di meta significato. Materia ostica senza dubbio, ma nel testo rimane la semplicità: "Nu poco e sentimento e nulla voglio sapè". "Dimmi è vero sarà vero che la musica cambierà? Ma non ci credo". Purtroppo più avanti cambierà, eccome se cambierà.

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"Boys in the night" è una concessione speed version al cool jazz tipo Sade, col caratteristico mischiozzo di italiano e inglese, e con l’uso delle parole ancora una volta ritmico-musicale più che sensato. Su frasi come "Boys in the night/Guidiamo senza mani" pero’ possiamo dire che Pino gode di ottima salute mentale. Forse il brano meno focalizzato del disco e quello più attento alle mode, è vero anche che ha una coda che vale l’ascolto.

Con "Mama E!" ritorniamo agli esotismi, al casino etnico. Brano incartatissimo, con chitarre profonde e metalliche che volano in cielo e scavano la terra. Siamo all’apoteosi della “fourth world music” con stacchi glaciali stavolta mescolati con l’India e il Marocco, accompagnati da parole profetiche: "Lo sguardo fermo verso un mondo più orientale/ Asia altre storie porterà" aperture davvero della madonna che sfociano addirittura nel dub. Però anche in questo caso “sporcato” da una chitarra spagnoleggiante, perché Pino quando cantava “I So Pazz” non scherzava mica.

Si vola nell’ “Aria”, con un terzinato di tastiere cori tipicamente afro e la sabbia dei deserti ti arriva in faccia. Il ritornello sembra i Tears for Fears col mal di mare, in cui si spreca la complessità , strumenti etinci a cannone, arpe, pianoforte che ricorda il Bowie di Aladdin Sane. Pino Daniele canta in lonananza gridando “Aria ca ricorda dio/Ma tu ce cride oppure no”. E questo Dio, a giudicare dall’andazzo sembra quasi Allah. C’è anche però qualcosa della terra santa di mezzo, e in effetti in copertina Pino sembra indossare una Kefiah. Il vicino Oriente è un altro dei punti di riferimento.

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Con “Scrack” ci spostiamo in zona dub zozzo, ritrovando il Pino Daniele più street. Sembra roba alla On–U Sound, aleggia lo spettro di Adrian Sherwood anche se infilato in un delirio fusion tutto controtempi e atonalità assortita. Il testo parla di droga già dal titolo, che non dà adito a dubbi. L’ "S" privativa indica che si è usciti dal tunnel, e pare un dialogo con uno spacciatore. "Ma cosa c’è su quelle braccia/ nun vedè/Quanti anni nascondi/O’pporte ancora tutto in faccia siente ammè/Non sono forse migliore?”. Domande ben precis "nc'amm a calmà/è ttiene e money?” insomma la sua “Waiting for my man”, probabilmente autobiografica. Nel finale, schitarrate fra il metal e la wave, con flangeroni assortiti e ipnosi di massa.

"Occhi Grigi" esplora il mediterraneo a trecentosessanta gradi: Grecia, Turchia, Albania… oltre che, ovviamente, l’Italia, ed è una delle ballate acustiche più belle di Pino. Soprattutto per il testo, che parla di vecchiaia “E mo sto buono/A parte ‘a pressione/Nun piglio caffè/Sto accuorto". I vecchi non si sfottono perché “Con gli occhi grigi hanno visto ‘a cursea.. ‘e bombe”. Altro che “Spalle Al Muro” di Renato Zero.

"Watch out" è una mischiozza italoamericana alla "Yes I Know My Way", ma c’è un motivo. È un brano antiamericano, che indica la crescita musicale di Pino. Una volta il punto di riferimento era l’America, ora basta perché "I sogni americani portano la guerra e nun se fa", "Blue jeans e tradizione questa volta non ci fregherà/ watch out beside yourself". Monito ai suoi fans di puntare il naso altrove ( il collega Enzo Avitabile suggeriva verso nord, Pino sposta l’asse al profondo sud). Un funk plasticoso che non lesina soluzioni interessanti, quali un malevolo vibrato alla chitarra quasi da mal d’aereo. Lo stesso aereo del testo del brano iniziale, si torna da capo, si torna forse al paese di origine.

Con questo spassionato consiglio ai suoi fan più giovani Pino consegna alla storia un disco di crossover atipico che risulterà incomprensibile ai più. In un certo senso ancora oggi stando alle critiche sembra una specie di “disco maledetto” quasi rimosso dalla storia: la cosa strana è che a Peter Gabriel non mossero le stesse critiche dopo Us.

Troppo ibrido per trovare i favori dei pubblici che voleva unire (praticamente quelli di tutte le musiche conosciute), Bonne Soirèe fu troppo avanti per avere successo di pubblico e soprattutto tracciava una strada da cui era impossibile tornare indietro se non con grossi cali di tensione. Per tornare a sbancare , infatti, Pino dovrà abbassare il tiro e semplificare la musica, laccare i suoni e buttarsi sulla lingua italiana (riproverà col multietnico con Medina del 2001, ma con meno piglio e sfruttando un po’ il successo di fenomeni come Asian Dub Foundation, Massive Attack e affini).

La sua ricerca si incentra totalmente sul pop, sulla canzone e basta: suo tallone d’Achille è però il giovanilismo, come se avesse il terrore di invecchiare ( complici i grossi problemi di salute) tentando di nascondere quegli “occhi grigi”. Basti pensare alle collaborazioni con Jovanotti, con Britti (anche lui in qualche modo incline al suo percorso) e con Gigi D’Alessio—quest'ultima costatagli numerose critiche. La lista di collaborazioni equivoche potrebbe continuare: ma Pino quando si trattava di jammare era sempre lui, quello spirito buono da scugnizzo che ha voglia di uscire dal recinto e conoscere il mondo. Il recente tour con la formazione di Nero A Metà faceva pensare a scenari futuri in cui Pinuzzo accettasse la sua maturità in toto e ci portasse un nuovo capolavoro. Così non è stato e ci rimane un patrimonio inestimabile di esperimenti ancora da scoprire che è molto più dell’amaro in bocca che abbiamo. Chissà che anche il suo pop più recente non sia una muzak futuribile travestita da canzone mediterranea? “E nuje cantammo ancora/Aret’ e’ llaste ad aspettare un’emozione”. I tuoi pezzi ovviamente: ciao grande Pino.

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