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Musica

Le Orme sintetiche

Come tutti i gruppi prog, anche Le Orme negli anni Ottanta si sono dovute reinventare. "Venerdì" fu bollato dai fan come commerciale, ma per noi è un capolavoro.

-Gli anni 80: “Venerdì” suona decisamente wave, ne fosti soddisfatto?
-Ci accorgemmo che la musica stava andando in una direzione elettronica. Volevamo seguirla pur mantenendo la nostra orma, e secondo me ci riuscimmo. Eravamo convinti fosse un buon lavoro ma non andò bene e ci ripensai. Però poi l’ho rivalutato: è pieno di situazioni insolite, riuscite, oggi mi piace ancora di più.

-Sanremo 1982: nel bel mezzo della manifestazione, Toni Pagliuca fuggì via; che accadde?
-Non stava bene spiritualmente, era inquieto, vedeva cose che non esistevano, non voleva presentarsi sul palco, creare uno scandalo. Andò via.

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(Aldo Tagliapietra , intervista a Davide Serchi di Ondarock)

È iniziato il giubileo straordinario: si salvi chi può! Casino e disagio sono assicurati in una maniera che chi non abita a Roma non può capire. Come sapete, per dare maggior forza a questo evento insolito, don Giulio Neroni, responsabile di Multimedia San Paolo, ha avuto la pensata di far “cantare” al papa un disco rock, oramai sulla bocca di tutti. Rock sì, ma con venature prog: il tutto è la solita accozzaglia di discorsi (alcuni con imbarazzante pronuncia inglese alla Berlusconi…) e musica che vorrebbe andare incontro ai giovani. Ma, appunto, il prog è qualcosa di mummificato che pensavamo flirtasse con la chiesa solo negli anni settanta. Fatto sta che fra gli autori di questa roba c’è il buon Tony Pagliuca, ex mente e membro delle Orme, dei cui storici appelli—evidentemente raccolti—già parlammo nelle precedenti puntate.

Che le Orme siano uno dei più importanti gruppi prog italiani lo sanno anche i sassi, e pare assodata la loro fede cattolica. Ebbene, nonostante questo episodio confermi la cosa, è vero anche che nel loro periodo storico le Orme tutto comunicavano tranne che cattolicesimo. Vogliamo forse dire che “Alienazione” e roba come “La fabbricante D’Angeli “ siano canzoni da parrocchia? Una si commenta da se e l’altra parla di aborti clandestini (schierandosi quindi di partenza con quelli legali, basta con le illazioni): che dire poi di “Maggio” dove si critica apertamente la chiesa? Che poi nelle messe “rock” si cantasse "Gioco Di Bimba", un brano su un maniaco che stupra una bambina, ecco…la cosa si commenta da sola. Ok non erano gli Area, ma neanche gli Area erano i N.A.D.M.A., che facevano passare la band di Stratos per delle suorine.

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In quel periodo il “movimento” bruciava sul rogo chiunque avesse un minimo di appeal commerciale, Cramps inclusa, e siccome le Orme sapevano ben dosare durezza dolcezza e pop, erano nel mirino. Il loro prog arrivò a tutti, vero: ma se penso a dischi come Felona e Sorona (con i testi del grande Peter Hammill dei Van Der Graaf per la versione in inglese), il loro firmare per una label come Charisma e tutte ste storie qua… Be' l’etichetta di commerciale gli va stretta: un paio di singoli orecchiabili non cambiano le carte in tavola. Anche la loro fede era atipica, del tipo "crediamo in Dio ma non in quello che ci propinano", un po’ alla Abel Ferrara. Oggi poi, il leader Aldo Tagliapietra è diventato una specie di mistico induista, il che fa pensare che ai nostri interessasse un'idea più ampia di “misticismo” senza perdere però di vista la brutalità del reale.

Questa loro formula, da molti vista come studiata a tavolino, secondo chi scrive è invece completamente spontanea tanto da risultare “scissa” in maniera anche naif, un po’ come la voce di Tagliapietra, che non si decide mai tra sgradevole e celestiale. Ad ogni modo, la band rimase in carreggiata dal '70 al '77. Poi il lento declino, spazzati ovviamente via dal punk e dalle ondate disco/sintetiche, anche se in quello possono dirsi pionieri: un missile come “Attesa Inerte” non è forse mutant disco ante litteram? E un pezzone come “Se Io Lavoro”, col suo testo antisistema, non è forse la risposta italiana ai Kraftwerk? Viene additittura plagiato dai Portishead per la splendida "The Rip", segno che quei synth ipnotici con tanto di cassone si mettono il prog sotto le scarpe.

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Sì, ma a un certo punto alla band manca il coraggio per ripartire da queste idee avanguardiste, così ecco dischi di transizione come Florian, vicino alla musica da camera e clamoroso flop, che però assurdamente anticipa i successi dei Rondò Veneziano (capitanati da Gian Piero Reverberi, casualmente loro produttore…). Poi a un certo punto c’è una scissione: Serafin, l’ultimo chitarrista in ordine di tempo, se ne va. Rimangono gli storici Pagliuca, Tagliapietra e Dei Rossi, e con l’aiuto del paroliere Alberto Salerno (autore tra l'altro di "Terra Promessa" di Ramazzotti) decidono di pubblicare il “o la va o la spacca” delle Orme: l’elettronicissimo Venerdì.

La genesi di Venerdì avviene nell’82 come reazione al classicismo degli ultimi dischi, per lasciare completamente spazio all’elettronica. Qui la fanno da padrone synth pop, minimalismo, tastiere Casio… Tutte cose che all’epoca andavano forte ma che, filtrate attraverso la sensibilità prog della band, creano un ibrido assolutamente inedito nel panorama musicale italiano, probabilmente ancora oggi. I tre si domandano: visto il successo di Battiato e dei Matia Bazar, tutta gente che aveva dirottato le radici prog altrove, perché non provare anche noi? E la scelta del produttore cade (ovviamente) sul migliore: Roberto Colombo, che i nostri lettori oramai conoscono perfettamente. Anche il look subisce un cambiamento: si sposa l’eleganza, a volte pericolosamente vicina agli Spandau Ballet. Ma musicalmente c’è altro.

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“Biancaneve” già dal titolo sembra presentarsi come una classica favola delle Orme, e l’incipit musicale (di contro) sembra preso dal coevo primo dei Tears For Fears, tutto mallets e compagnia bella, stilisticamente lontano dai nostri. La storia sembra proprio quella di una prostituta che si prende “la polvere di luna nascosta in un tassì (…) in compagnia di gente che vende la sua età”. Se vai con lei lasciati andare e non prenderla solo a metà, ci suggeriscono le Orme, ed è chiaro che la Biancaneve del titolo non è quella della fiaba ma roba che o si tira o s’inietta, e non sembra ci sia ombra di critica—non male per dei cattolici! L’arrangiamento è suntuoso, con citazioni afro in controtempo, suoni di ferraglie, basso distorto a pedalare ed effetti sorprendenti perché ancora i campionatori erano un sogno (chissà se in studio avevano un Fairlight…) con finale di drum machine e arpeggiatori confusi nel riverbero. C’è da capire chi è quest’uomo del venerdì, ma più avanti il suo significato sarà chiaro.

Subito dopo un’altra “eroina” si affaccia: “Arianna”. Stavolta un piano e una sassaiola di clap con colpi di basso e cassa creano una suspense latin-dance, per poi sfociare in un ritornello pieno di quei riccioli melodici tipici del gruppo, sempre infilati in bocce sintetiche. Segue un momento di violoncello, probabilmente finto, che è quasi un loop hip-hop. Il pezzo sembra un’ode alla libertà, contro “il labirinto di gente per bene” (Il collegamento al mito di Arianna è esplicito), per il perdersi “vivi ma senza memoria”. Più che il paradiso della chiesa, si intuiscono ben altri paradisi…

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Un loop di quella che sembra una Casio introduce “Cercherò”, che si distingue per un micidiale tiro alla Police, coperto da tappeti di synth leggerissimi e una melodia vocale tipica del gruppo. Gli stacchi quasi synthpunk, con robotiche movenze e rullate ben assestate, li fanno sembrare una versione più ossessiva dei Classic Noveaux. Emotivo fino al midollo, il pezzo narra di una ricerca continua di qualcosa. Forse una donna, forse dio, forse il piacere, forse la libertà. Ritorna il tema del salpare per mondi nuovi senza certezze. Finale meraviglioso con slide di basso e un pianoforte che ricorda incredibilmente quello di Aphex Twin di "On" e "Donkey Rubhard".

E ora il brano più “new romantic” del lotto, che come struttura ricorda i brani “paraculi” delle Orme, quelli che appunto entravano in sacrestia. “La Notte” è una ballata sintetica con spazzole metronomiche e glockenspiel che, pur nella sua leggerezza, si salva grazie a muscolari parti di basso e batteria. Un inno all’oscurità che è anche presagio di annullamento generale, quasi orgiastico, senza però alcun moralismo. Confusione, perdita di coscienza inevitabile: “Dove dormi tu la notte non ha mai cielo né stelle in più” accettare l’annichilimento e stop.

Robert Miles, chi era costui? Be'… evidentemente nessuno, visto che la title track è pericolosamente proto-progressive house, in anticipo di quindici anni. "Venerdì" è probabilmente il simbolo del naufragio stile Robinson Crusoe, nonché mito del buon selvaggio in musica: non ha testo, ma solo un martellante andazzo di piano e basso, intermezzato da scale tipo romanticismo russo e synthoni disco/spaziali. A volte, non volendo, si tocca anche la New Age: un brano complesso che evoca isole lontane e inesplorate, nella sua tensione quasi brutale verso una riva qualsiasi nel mare aperto.

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E, infatti, il brano successivo è il controverso “Marinai”, in zona Peter Gabriel: portato a Sanremo nel 1982, fu la causa dello scapocciamento di Pagliuca da cui intro, pare dopo la notizia della vittoria di Riccardo Fogli decisa a tavolino. Ad ogni modo, "Marinai" è un pezzo quasi autobiografico, con una band che vira verso mondi musicali ed esistenziali sconosciuti, in un certo senso all’opposto del pessimismo di “Fine Di Un Viaggio” in Florian. Sì, forse quel “noi cantiamo per te capitano” ha sapore di canto a Dio, ma il “siamo nati da una favola dove il cielo non tradiva i marinai” sembra una specie di bestemmia implicita (da notare il coro che ricorda gli alpini di Battiato). Rimane il dubbio se i “coriandoli di acido” siano riferiti alle piogge inquinate: leggenda dice che il testo originale fosse invece stato censurato dalla commissione del festival per le seguenti frasi "Marghera, Marghera siderale / Marghera, Marghera io sto male / Le sirene con le pillole trasformavano i contadini in operai". Insomma, un testo politico sulle morti per intossicamento negli impianti petrolchimici ma implicitamente anche sul consumo di droga fra i lavoratori alienati. Insomma, roba seria.

In “Storie Che Non Tornano” i BPM si alzano, in un treno synthpop sferzante che in alcuni momenti ricorda le atmosfere più delicate di Uomo Di Pezza, ma forse anche i Cure di The Head On The Door (di “Close to me” si parlerà solo tre anni dopo). In realtà le suggestioni sono tante, c’è anche un’eco del Cerrone di "Panic": "labbra perse nei telefoni / nel via vai di un caffè". Gli Iphone non c’erano ancora, ma questo quadretto desolante sull’isolazionismo urbano sembra scritto oggi. Anche in questo caso, l’uomo è alla deriva.

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“Rubacuori”, nonostante il titolo del cazzo, è una ballata suadente stile vecchie Orme, quella più lontana dalla cifra del disco. Niente da fare: quando i nostri decidono di piazzare una melodia sono i numeri uno: le chitarre acustiche stemperano l’apparente mielosità con una giravolta di arpeggiatori e uno stacco tipicamente prog che riprende il tema di "Arianna". Un piacevole effetto “neo-retrò”, a suo modo geniale, con un solo momento veramente wave: quello in cui “senza valigie ne’treni da prendere” la nostra protagonista sembra prendere coscienza che ha scelto di diventare grande in maniera brutale, ingabbiandosi, nonostante pensasse il contrario. Paradossalmente, è un ragionamento infantile, per cui in realtà non è mai cresciuta. Anche questo è perdersi.

Il soggetto del colare a picco prosegue con “La Sorte”, che nel suo robotico andazzo electro ricorda che l’uomo è una mera marionetta su questo pianeta. Grandissimi i momenti etno/elettronici, che starebbero bene campionati in un disco di MIA. Prevalentemente suonato con le Casio, il pezzo è uno dei più strani del lotto, come d’altronde la sorte stessa, che nel suo cambiare le carte “inventa nuove stelle”.

Finale affidato forse a una Korg Minipops e a una serie di sciabordate di onde marine, “Com’Era Bello” è un martello power wave elettronico in cui ci si proietta in un retro futurismo molto alla Electric Youth, con salti temporali che prevedono tecnologie nuove e “ragazzi di un’altra età”. Ciò che è nuovo invecchia alla velocità della luce: la nostalgia, su una zattera, cerca nuovi lidi. Qui termina l’LP.

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Ma quando pensi sia tutto finito, Le Orme pubblicano a sorpresa un singolo inedito, “Rosso Di Sera”, che sembra alzare il tiro dell’“electroprog”. Un pezzo di potente suggestione in cui tutto è sintetico, anche le parole: una specie di delirio di un mercante d’armi in paranoia da deserto che, in un flusso di coscienza alla Battiato mescola proverbi, poesie imparate a scuola e libretti d’opera “vivo per soldi e cerco una passione”. La cavalcata di syinth va poi a spappolarsi in un solo di Moog che, preceduto da una citazione di “Di Quella Pira…”, evoca il solo di “Gioco di bimba”. È il canto del cigno delle Orme, l’autocombustione dichiarata. Nelle esibizioni televisive d’epoca i nostri sono, infatti, degli androidi disumanizzati, felici di esserlo.

Il lato B "Sahara" è un altro pezzone micidiale, da dancefloor. Ritmi spezzati, technopop incastrato, suggestioni arabe, storie di predoni fra le dune e in tasca “Il Veleno” (ricordate "Cinzia" di Venditti?). “Qualcosa s’insabbia e non torna più”: quel qualcosa sono le Orme, appunto.

Lo zoccolo duro dei fan ha sempre considerato questo periodo “commerciale”. Vendendo poco e niente, Le Orme hanno invece dimostrato il contrario: Venerdi’ rimane un disco fuori target nella storia della musica italiana, con momenti assolutamente innovativi, un vero salto nel futuro per una originale evoluzione del prog. E il papa ora ne sarebbe il paladino? Mah. Forse c’è ancora una speranza: “Rosso di sera/ bel tempo si spera”. E se lo dicono dei ”cattolici”…

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