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Musica

Giorgio Il Distruttore

Uno sguardo a uno dei dischi italiani più duri e nichilisti mai prodotti: "Polli D'Allevamento" di Giorgio Gaber

Noisey è abbastanza lieto di presentare ITALIAN FOLGORATI, una rubrica su quanto di più marcio, impensabile e avanguardista si cela dietro le pieghe della canzone italiana. Aprire i bauli del tempo e dell'ufficialità discografica per trovare tesori nascosti, orribili croste, intuzioni magiche e tentativi più o meno riusciti è la nostra missione. Seguiteci dunque in questo cammino impossibile con orecchie e spirito aperti: non ve ne pentirete.

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Sono diverso, sono polemico e violento/non ho nessun rispetto per la democrazia. Mi fanno schifo le vostre animazioni, le ricerche popolari e le altre cazzate e, finalmente, non sopporto le vostre donne 'liberate' con cui voi discutete 'democraticamente'. Sono diverso perché quando è merda è merda non ha importanza la specificazione…quando è moda è moda. (Da "Quando è moda è moda")

In questa puntata parliamo di uno dei dischi italiani più duri e controversi di fine anni Settanta: Polli D’Allevamento di Giorgio Gaber, a.d. 1978. Rispetto ai suoi spettacoli di teatro canzone, formula inventata da lui e dal socio Luporini per permettersi maggiore libertà d’azione, sempre di altissimo ivello ma a volte pedanti, figura nella carriera del cantattore come un tassello atipico. Reduce da Libertà Obbligatoria del ‘76, opera sul tema “individuo vs. massa,” Giorgio si prende una pausa di un anno dopo aver fallito l’opera Progetto Per Una Rivoluzione A Milano 2 (titolo che presagisce gli scenari politici futuri che conosciamo) riadattamento da un libro di Alain Robbe-Grillet. Dagli strascichi di questo esperimento nasce il nuovo spettacolo: un’invettiva contro i giovani rivoluzionari per posa. Vede la fondamentale presenza agli arrangiamenti di Franco Battiato (scoperto dallo stesso Gaber nei lontani anni sessanta) e Giusto Pio, reduci l’uno dal premio Stockhausen con L’Egitto Prima Delle Sabbie e l’altro dal gigantesco album Motore Immobile. Via gli strumenti elettrici tradizionali quindi, dentro sintetizzatori e percussioni acustiche che strizzano l’occhio al minimalismo di Terry Riley e si beano di citazioni “incolte” rivedute in chiave ironica. Su tutte “I’Ve Got You Babe” di Sonny & Cher: uno dei loro migliori cut & paste, primo di una lunga serie per quanto “acerbo”, cioè sostanzialmente ancora legato a una forma colta anziché pop. Che non si siano limitati agli arrangiamenti è addirittura probabile: stupisce infatti la somiglianza della title track “Polli Di Allevamento” con “Lettera Al Governatore della Libia” che uscirà quattro anni dopo cantata da Giuni Russo. Che la musica sia stata scritta a sei mani?

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Il risultato, dicevamo, è modernissimo. Il testo di Gaber sembra sposarsi perfettamente con l’allestimento sonoro: tant’è che in quanto a causticità lancia pure un assist, anche se assai meno sintetico, al Battiato degli anni Ottanta. Pur uscendo in pieno periodo post-punk questo disco di Gaber, se non altro per la spinta nichilista che sembra animarlo, è addirittura hardcore, avrebbe potuto cantarlo Lee Ving dei Fear. Lo macchia un certo “conservatorismo” che, se da una parte è funzionale alla provocazione, dall’altra gli fa perdere alcuni colpi. Ad ogni modo risulta onesto: Gaber non è un Guccini coi piedi in due scarpe, si fa semplicemente i cazzi suoi, colpendo duramente i “sinistronzi” con sonori schiaffi verbali. Le inconfessabili pulsioni qui enunciate senza remore sono vive e rimosse negli stessi post-sessantottini, che chiedono delle libertà che non sanno gestirsi e che parlano anche quando ci vorrebbe silenzio, rimanendo in fondo dei cavernicoli. Le analisi di Gaber si riveleranno pressoché profetiche (addirittura contro se stesso, vista la fine impietosa della moglie Ombretta Colli, da cantante femminista a deputata di Forza Italia), impreziosite da un paio di scudisciate alle generazioni dei padri, sia quelli moderni che quelli della sua generazione. “I Padri Tuoi” esibisce un assolo proto-noise di Battiato che disturba il pezzo con sferzate di radio filtrate e “I Padri miei, al contrario, un’orchestrazione alla “Love In The Open Air” di Paul McCartney, se proprio vogliamo azzardare un paragone. L’assoluta claustrofobia delle canzoni, buffesche in senso grottesco (vedi l’agghiacciante “La Pistola”), fanno pensare agli scenari del Lou Reed berlinese o del John Cale di Helen Of Troy.

Le parti recitate, dove ci sono sia dramma che spirito comico, potrebbero ricordare Robert Wilson e le tematiche care a Philip Glass (la capacità dell’uomo di influenzare il pensiero di un epoca con la sua visione personale), funzionando anche al di fuori del teatro. In questo contesto storico Gaber è a tutti gli effetti una voce individualista, attaccando frontalmente la “controcultura,” senza mezzi termini, e ponendosi sul piano del conflitto in modo clamorosamente anarchico. Lo spettacolo susciterà reazioni francamente inaspettate, con gli spettatori da una parte a urlargli “fascista”, dall’altra “comunista”, aggredendolo con lanci di oggetti. La realtà è che questo lavoro è un tentativo di combattere i facili entusiasmi e gli irrigidimenti di un’Italia che alla ribellione personale preferiva e preferisce sempre più quella “programmata”(per citare gli Scortilla), da anestesia totale. In pratica, appunto, la stessa che subiscono i polli d’allevamento prima di finire in padella, la stessa in cui noi oggi stiamo friggendo.

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